BAYER LEVERKUSEN – MILAN 1-0: ROSSONERI A TESTA ALTA

Il Milan affronta il Bayer Leverkusen di Xabi Alonso con un umore assai diverso rispetto a quello di due settimane fa, quando giocò contro il Liverpool di Slot. Dinanzi ai Reds, orfani, e non è affatto elemento trascurabile, del carisma di Jürgen Klopp, ma con un nuovo head coach che ha saputo portare nuove idee tattiche, nel rispetto delle vecchie, abbiamo visto una squadra intimorita e poco coesa: Paulo Fonseca sembrava già in bilico, sfiduciato, o poco meno, dalla società, la quale, dal canto suo, pareva essere già in cerca di un valido sostituto.

D’altra parte, il tentativo di impostare un gioco più offensivo, ma con un buco, simile a una voragine, a centrocampo, non aveva dato i frutti sperati, nonostante il vantaggio agguantato nei primi minuti del match. Il derby, vinto contro ogni pronostico, dopo una sequenza di sei sconfitte consecutive, ha però sparigliato le carte e ci ha aperto a una flebile certezza (o si tratta ancora di una speranza?): la squadra c’è. Troppo poco e troppo presto per parlare di rinascita (ma era troppo presto anche per parlare di disfatta annunciata, a dirla tutta), eppure qualcosa si è mosso, sul piano squisitamente calcistico e anche sul delicato piano psicologico.

C’è Theo Hernández, che è un po’ la cartina al tornasole del Milan: quando lui gira, anche il resto dei compagni sembra girare con più convinzione; se si addormenta sulla fascia, il meccanismo complessivo si inceppa. Comincia a esserci, a corrente alternata, Rafa: il leader tecnico (ce lo auspichiamo), come ha sottolineato correttamente Giroud. Per un altro tipo di leadership, occorre voltarsi verso la porta di Mike Maignan. Non necessariamente, in realtà, non più, almeno, perché, quest’anno, l’arrivo di un giocatore d’esperienza come Álvaro Morata ha garantito anche un miglioramento sul fronte direzionale: lo spagnolo non è un centravanti purosangue – e infatti non viene di preferenza utilizzato come tale – ma assicura controllo ed equilibrio, soprattutto quello mentale, che tanto ha difettato nel passato recente.

L’innesto ulteriore di Tammy Abraham sembra essere un’altra nota non stridente del mercato estivo: con una buona condizione di forma, può fare bene, per il momento, tuttavia, ha regalato un entusiasmo genuino, persino inaspettato, dato che si tratta pur sempre di un giocatore in prestito. Fofana, dopo un primo periodo di adattamento, è sempre più padrone dei propri mezzi e della mediana: contro il Leverkusen, un’altra conferma.

Sono tornati a commentare sui social, a sperare nel Sacro Graal del trofeo, anche gli appassionati, un po’ ringalluzziti, non tanto per qualche discreto risultato, ma per aver visto una squadra che comincia a (ri)crederci: non se ne sono mai andati, ma umanamente si avvertiva lo scoramento – il mio, per primo! – nei confronti di una situazione che non offriva vie di fuga o facili consolazioni. Il tifoso, che è il dodicesimo uomo, come ben scrive, con la consueta sagacia dissacratoria e il suo senso per l’epica romantica del pallone, Eduardo Galeano in Splendori e miserie del gioco del calcio: “Fino a quando dura la messa pagana, il tifoso è folla. Con migliaia di fedeli condivide la certezza che noi siamo i migliori, che tutti gli arbitri sono venduti, che tutti i rivali sono imbroglioni.”

La buona gara contro il Lecce, anche prescindendo dal tris di gol, ha confermato la sensazione di un team che, con fatica e con il tempo che è sempre necessario, sta provando a trovare una rotta, o magari più di una.

“Fu vera gloria?”, viene da domandarsi, citando il Manzoni. Be’, anche in questo frangente lo stabiliranno i posteri… o meglio, le partite che ci restano da giocare in questa lunghissima stagione caratterizzata, come se non bastasse il numero degli incontri, da una scellerata revisione – peggiorativa, chiaro fin dall’annuncio e oggi anche evidente – della formula della Champions League, adesso ridotta a una sorta di Superlega intricata, quasi labirintica per gli incroci a cui obbliga. Per evitare che squadre del calibro di City e Real Madrid, come è avvenuto lo scorso anno, si incontrassero ai quarti di finale, sarebbe bastato introdurre una regola sulle teste di serie nei sorteggi. Evidentemente lo scopo della UEFA non era quello di migliorare il portato spettacolare della competizione, anzi…

La sensazione complessivamente positiva comunque non è cambiata (per certi versi, direi che si è rafforzata), per quanto possa apparire di primo acchito controintuitivo,  neppure dopo la sconfitta di ieri sera al BayArena.

Per la seconda partita del maxi girone, ci è toccato infatti in sorte il Bayer Leverkusen, capace, grazie alla guida dell’ex centrocampista di Real e Liverpool (sì, proprio quel Liverpool, quello di Istanbul, che giocava con il 1-4-4-1-1 e vedeva Xabi Alonso a dirigere l’orchestra in mezzo al campo, mentre Gerrard spingeva l’attacco), di sfatare l’anatema che lo bollava, in perpetuo, con l’epiteto di Neverkusen.  

La disgrazia si colloca in particolar modo nell’annus horribilis 2002: primo in Bundesliga per gran parte della stagione, perse il titolo all’ultima giornata, a favore del Borussia Dortmund, con due sconfitte su tre partite, nel finale del campionato. Non andò meglio in Coppa di Germania (DFB-Pokal), dove il Bayer Leverkusen, favorito della vigilia, fu battuto per 4 a 2 dallo Schalke 04. Infine lo smacco forse più bruciante, anche se quello più prevedibile: dopo un cammino europeo brillante, il Leverkusen raggiunse la sua prima e unica finale, per il momento, di Champions League, giocata contro il Real Madrid di del Bosque il 15 maggio, all’Hampden Park di Glasgow. La partita è ricordata soprattutto per il gol straordinario di Zinedine Zidane, una semirovesciata di sinistro al volo su assist di Roberto Carlos, allo scadere del primo tempo. Finì con il risultato di 2 a 1 a favore degli spagnoli, con una rete, per parte tedesca, del difensore brasiliano, ex Inter, Lucio: nonostante l’ottima performance, soprattutto in termini di possesso palla e controllo del gioco – giusto per citare un paio di sterili statistiche, sei tiri nello specchio per il Bayer, rispetto ai quattro dei madrileni, sette tiri fuori a tre – la squadra allenata da Klaus Toppmöller non riuscì a trovare il pareggio.

La nomea di “Tottenham di Germania”, come dicevo, è stata sfatata lo scorso anno – in questo senso, un vero annus mirabilis – culminato con uno storico double – Bundesliga e coppa nazionale – e con l’Europa League sfumata per un soffio, soltanto grazie alla splendida prestazione dei ragazzi di Gian Piero Gasperini. Un’Atalanta alla James Joyce, sfrontata ed europea, in quella notte di Dublino, perché “le avventure vere […] non capitano mai a chi se ne sta tappato in casa; bisogna andare a cercarsele fuori.”

Dal rientro estivo in poi, la formazione di Xabi Alonso è sembrata tuttavia più appannata, meno mordace di quella che avevamo lasciato, come testimonia un pareggio generoso, se si guarda alle rispettive occasioni e al livello complessivo del gioco, contro il Bayern Monaco, nell’ultima di campionato.

Il Milan, schierato, ci ha fatto vedere Sky in grafica, con un 1-4-3-3, ha in realtà palesato fin da subito l’idea vetusta che soggiace a queste impostazioni più teoriche che pratiche: i ruoli vengono gradualmente meno in favore di un calcio che si muove come una sorta di perturbazione atmosferica, sospinto dai venti che la prossemica dei giocatori in campo incarna.

Ognuno deve trovarsi in una posizione che tiene conto della posizione dei compagni e degli avversari, con il fine ultimo, anche se la verticalità non è sembrata il nostro forte, di trovare la strada più efficace verso la porta degli opponenti (eh, sì, l’obiettivo è ancora segnare un gol in più degli altri). In queste fluttuazioni naturali, che sovente culminano nell’ormai preferito 1-4-2-4, le disposizioni in campo sono chiaramente variabili, in base alla fase, se difensiva od offensiva, e all’andamento complessivo del match. È in fondo un po’ simile, almeno come astrazione, a quello che succede quando si ripete un paragrafo prima dell’interrogazione: la ripetizione casalinga a voce alta è un ottimo allenamento, ma non tiene conto della presenza del docente che potrà farti una domanda che spezza il flusso dei tuoi ragionamenti o chiederti il significato specifico di un concetto espresso in una nota a piè di pagina. Il calcio non è mai improvvisazione, ma deve sempre essere adattamento (il più possibile rapido e accurato: quello fa la differenza tra un top club e una squadra di discreta qualità).

Il Milan di ieri sera, pur senza giocare una prima frazione irresistibile, è subito entrato in partita, per esempio arginando le insidie di Frimpong e Grimaldo grazie a una scelta tatticamente intelligente. Non si è trattato di bloccare le fasce – Fonseca ha compreso che, per esempio sulla sinistra, lo si poteva fare entro certi limiti – ma di tentare di non creare spazi centralmente, depotenziando le incursioni degli esterni. E in gran parte ha funzionato; ha funzionato, appunto, a dispetto di un primo tempo che senza dubbio non ci ha visti decisivi – giusto stare corti e avanzare grazie a un possesso ragionato, ma serve anche concretezza e freddezza sotto porta – ma neppure soccombere di fronte a un avversario, lo dico con il massimo rispetto, e non solo perché in effetti ha vinto, che non era imbattibile; alla nostra portata, ecco: da quanti mesi ci sembrava di non poterlo affermare anche rispetto a squadre assai peggio assortite del Bayer Leverkusen? Per questa ragione, dispiace anche di più.

Dispiace perché le due squadre si sono equivalse e la rete di Boniface, attaccante che quasi sempre ha fatto la scelta sbagliata, la più egoista, è avvenuto per una delle ormai note defaillance in copertura, un momento cioè in cui la perturbazione si è scollegata a tal punto da divenire non un fronte compatto, ma un insieme di innocue nuvolette incapaci di far piovere. Chi oggi commenta – e l’ho letto, ahimè – “vi hanno preso a pallonate”, ha letto le statistiche senza guardare la partita: i numeri, se non interpretati, restituiscono una non-realtà che fa comodo al commento d’impulso su Facebook, ma non alla realtà dei fatti. La realtà ci racconta di un secondo tempo di buon pressing e di ottime opportunità: nove tiri nello specchio della porta a cinque non significa nulla, se non si comprende, perché non lo si è visto, di che tiro si parla.

Dispiace, sì, e molto, perché meritavamo un pareggio che non siamo stati capaci di ottenere. Non è sfortuna – già in passato ci siamo accordati col pensiero di Cruijff, sostenendo che non esista – e non si tratta nemmeno di recriminazioni rispetto a un arbitraggio di livello decisamente non internazionale: la punizione dal limite per il fallo su Loftus-Cheek era palese e anche sulla spallata in area di rigore a Tammy Abraham avrei da obiettare sulle certezze dei commentatori; non importa, lasciamo volentieri ad altri simili lamentazioni.

Persino dei cambi sulla carta migliori – perché togliere Pulisic, unica fonte di creatività in attacco? Perché considerare interscambiabili Morata e Abraham, quando il primo funziona di più in appoggio del secondo? – non ci avrebbero assicurato la svolta attesa.

Sì, sì, dispiace, ma It is what it is, come ripete spesso Pep Guardiola. E tuttavia la rotta buona, adesso, potrebbe farci intravedere un orizzonte rasserenato.

BAYER LEVERKUSEN (1-3-4-2-1): Hrádecký; Tapsoba, Tah, Hincapié; Frimpong, Xhaka, García (dal 75’, Andrich), Grimaldo (dall’89’, Belocian); Adli (dall’82’, Palacio), Wirtz (dall’89’, Tella); Boniface (dal 75’, Terrier). A disp.: Kovár, Lomb; Andrich, Arthur, Belocian, Hofmann, Mukiele, Palacios, Schick, Tella, Terrier. All.: Xabi Alonso.

MILAN (1-4-3-3): Maignan; E. Royal, Gabbia, Tomori, Hernández; Fofana, Reijnders; Pulisic (dal 79’, Chukwueze), Loftus-Cheek, Leão; Abraham (dal 62’, Morata). A disp.: Nava, Torriani; Calabria, Pavlović, Terracciano, Thiaw; Musah; Chukwueze, Morata, Okafor. All.: Fonseca.

Arbitro: Sandro Schärer (SUI).

BIO ILARIA MAINARDI: Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita. 

Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema. 

Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.

Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!

2 risposte

  1. “Ai posteri l’ardua sentenza!” parafrasando una risposta manzoniana carissima Ilaria! Ancora una volta hai sfornato caldo caldo un delizioso cappuccino con brioche…che purtroppo nell’alta Renania è servito mezzo freddo e con un croissant salato in luogo del classico zuccherato! E allora resta ben poco da dire oltre all’analitica ed esaustiva cronistoria del match da te esperita. Conclusione? La citazione in alto probabilmente sarà la vera risposta all’amletico quesito che vuole condensarsi fortemente nel rivedere il nostro Diavolo ricombattere a testa alta come ha saputo fare per oltre mezzo secolo nella gloriosa storia della Champions League.
    Aggiungo e concludo con una metafora scolastica, Fonseca è un saggio professore che indottrina al meglio i suoi allievi peccato che nei compiti in classe con i temi che contano prendono sempre (ultimo derby a parte) l’insufficienza o per errori di espressione o peggio per aver scritto bene solo la brutta copia ma non aver fatto in tempo a consegnare la bella!
    Con tutta la mia stima.

    Massimo 48

    1. Caro Massimo, grazie, come sempre, del prezioso commento.
      Hai proprio ragione con il paragone che fai: il rischio è quello. Basterà il tempo a far sì che l’insegnante riesca a far spuntare tutti i semi che sta sotterrando? Oppure ci vorrebbero, almeno in alcuni ruoli, interpreti diversi?
      Staremo a vedere, con la speranza che si riesca a dare continuità alla squadra a partire dai germoglini già sbocciati.

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