IL CENTRAVANTI

Quando ho iniziato a frequentare assiduamente San Siro, nel Milan giocava un talentuoso, duttile giocatore che si chiamava Alberto Bigon, in seguito allenatore (sulla panchina del Napoli vinse lo scudetto del 1990) e anche padre del dirigente Riccardo Bigon (Reggina, Napoli, Verona e Bologna). Alberto era intelligente, tecnico, elegante, un equilibratore ideale: quando giocavano insieme Rivera, Prati e Chiarugi, si spostava mezzala indossando la numero 8, ma in rossonero la maggior parte delle sue presenze furono da centravanti, da numero 9. Arrivò a segnare 56 gol in 218 partite. In quegli anni, gli anni Settanta, i centravanti delle grandi erano per lo più goleador, cannonieri di razza dell’area di rigore come Boninsegna, Anastasi, Savoldi, lo stesso Gigi Riva che era senz’altro più esterno, ma era cannoniere di razza.

Poi arrivarono l’Ajax e la Nazionale olandese con Crujiff, Rep, Rensenbrink che furono i precursori di quella Spagna e di quel Barcellona che 30 anni dopo iniziarono a giocare e vincere tutto con il Tiki-Taka, quel palleggio snervante che prevedeva tutti, a turno, come finalizzatori, senza un uomo d’area vero e proprio. A me viene abbastanza da ridere quando leggo o sento moltissimi tifosi del Milan, ormai non so più da quante sessioni di mercato, sostenere che “serve un centravanti da 20-25 gol”, perché poi vado a vedere i tabellini europei e ne trovo soltanto 5 o 6, dei quali solo un paio assidui. Intendo dire che quel tipo di attaccante è raro e costa un botto di soldi, quindi devi cercare altri profili e fare di conseguenza.

Non è insomma una mera questione di gusto, è evidente, specie se le scelte le fanno una società e un allenatore e non un tifoso: è invece, assolutamente, una questione che riguarda la costruzione della squadra. Mentre la Juve ha Vlahovic e l’Inter Lautaro, due arieti da area, il Napoli si affida a Lukaku che ha caratteristiche da “boa” (così si chiamava una volta il centravanti che giocava più fuori che dentro all’area, spesso spalle alla porta, a smistare palloni verso gli incursori), il Milan negli anni di Pioli – dopo il bluff Piatek – si è affidato a Ibra e Giroud, due capolavori della natura come cocktail tra il movimento fuori area e la confidenza con il gol. Ma la vera rivoluzione la sta iniziando Fonseca: dal derby va in campo con 2 centravanti, perché questo sono Morata e Abraham.

Sui loro acquisti erano pochissimi i tifosi convinti, molti opinionisti hanno storto il naso, vedendoli uno come alternativa dell’altro, non vedendoli come due cecchini ma come due boe, appunto. Non è esattamente così, leggendo le loro statistiche, ma è vero che i numeri dei loro gol si avvicinano più a quelli di una seconda punta che di un uomo d’area. La rivoluzione, dicevo, è metterli in campo insieme, per di più con ai lati due assaltatori come Leao e Pulisic: un coraggioso, quasi scriteriato 1-4-2-4…

Funziona. Funziona perché, come ha detto proprio Fonseca più volte e di nuovo nella conferenza stampa di vigilia della gara a Leverkusen, “è l’atteggiamento la cosa più importante”. Se avete modo di trovare e studiare le heatmaps di Morata e Abraham contro Inter e Lecce, resterete sbalorditi scoprendo che si sono mossi prevalentemente fra il centro del campo e la mezzaluna al limite dell’area. Questo ha creato densità in mezzo, ha interrotto le linee di passaggio avversarie insieme con Fofana e lo stesso Rjinders, insieme naturalmente con la scarica elettrica che hanno procurato al resto della squadra, come fossero fili collegati, per l’eccezionale carica agonistica che hanno saputo produrre.
E proprio alla vigilia della partita in Germania, persino Rafa Leao è arrivato a dire: “Visto cosa fanno quei due là, mi sono detto che devo entrare di più anche io e sbattermi per difendere”. Può essere una svolta straordinaria per la sua carriera, nonostante personalmente lo lascerei galoppare nelle praterie, magari con maggiore fiuto nel saperle annusare e trovare.

A Leverkusen è stato Morata a godere di un primo round di riposo, subentrando ad Abraham. Nella prima fase i rossoneri hanno sofferto la supremazia dei tedeschi e l’ex romanista ha faticato. Poi la squadra di Fonseca si è scatenata in avanti sfiorando ripetutamente il pareggio: grazie all’ingresso di Morata o al cambio di spartito della gara? Vi lascio con questo interessante dilemma, su cui certamente ognuno può fare le sue considerazioni. Personalmente, ad oggi, nei progressi e nel cammino del Milan sul piano del gioco e delle scosse elettriche, considero Morata fondamentale. 

BIO: Luca Serafini è nato a Milano il 12 agosto 1961. Cresciuto nella cronaca nera, si è dedicato per il resto della carriera al calcio grazie a Maurizio Mosca che lo portò prima a “Supergol” poi a SportMediaset dove ha lavorato per 26 anni come autore e inviato. E’ stato caporedattore a Tele+2 (oggi SkySport). Oggi è opinionista di MilanTv e collabora con Sportitalia e 7GoldSport. Ha pubblicato numerosi libri biografici e romanzi.

Una risposta

  1. Chapeau al tuo pezzo Luca! Perfettamente condivisibili le considerazioni correlate alla collocazione dei bomber nel gioco espresso dalle maggiori interpreti del campionato.
    Ma veniamo alla tua domanda in merito al cambio di passo cui sarebbe incorso il nostro Diavolo all’ingresso in campo di Morata. Il mio personale parere è assolutamente positivo, il 7 spagnolo ha personalità, impegno e classe da vendere ma l’unico neo, ad oggi, starebbe nella mancanza del colpo risolutivo nei due match di Champions. Hai ben ricordato le gesta di Bigon che ho visto più volte giocare dal vivo (sono un ultrasettantenne) ma amo meglio rimembrare un certo Daniele Massaro,
    160 presenze 44 reti delle quali una buona metà siglate a pochi minuti dall’abbandono della panchina.
    Ecco, secondo me al Milan manca, ma può crearlo, un panchinaro Doc e sicuramente torneremmo a volare sempre più in alto, dove meritiamo di essere.
    Con tutta la mia stima.

    Massimo 48

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