UNA FLEBILE LUCE DAI CENTRAVANTI ITALIANI

Ah, il centravanti! Ruolo nobile, tradizione gloriosa, memoria lunga quanto la storia del calcio italico. Eppure, da qualche anno a questa parte, sembra che l’Italia abbia smarrito la via che porta al gol. Non è tanto il gioco, badate bene, ché quello, per quanto talvolta sgraziato, può ancora brillare di sprazzi tecnici. È proprio il concetto stesso di chi il gol lo deve fare, lo deve sentire nel sangue e nella carne, quello che pare essere stato dimenticato. Per troppi anni abbiamo abdicato al grande centravanti.

I numeri dicono tutto: dopo sette giornate di campionato, certo, c’è qualche barlume di speranza. Mateo Retegui, l’argentino oriundo trapiantato nel golfo ligure e trasferitosi poi in terra orobica, ha già timbrato sette volte il cartellino. Piace il suo fiuto del gol, certo, ma attenzione, amici, alla trappola della facilità: perché segnare in Serie A è una cosa, ma il respiro internazionale è altra faccenda. Cutrone, poi, ragazzo che mi rimanda a vecchi affanni del Milan, ha ritrovato qualche spicciolo di fiducia, con quattro gol che suonano come un sospiro di sollievo, ma non un ruggito. Per non parlare di Lorenzo Lucca, il gigante che tutti aspettavano come la grande speranza: è fermo a tre, e per un colosso come lui è un bottino non eccelso, benché promettente.

Eppure, mi chiedo: dove siamo finiti noi italiani che eravamo i maestri del centravanti? Un tempo sapevamo sfornare un Vieri, un Toni, un Inzaghi quasi senza pensarci. Ho recentemente visto un video che raccontava le gesta di Marco Negri, bomber milanese che ha deliziato Ibrox Park e che sarebbe attualmente titolare indiscusso degli Azzurri. Oggi sembriamo aver dimenticato i rudimenti stessi della produzione di punte. Piccoli, con due reti, è il giovane che ancora si sta cercando, un ragazzo che ha fisico e cuore, ma a cui manca l’istinto primordiale del cannoniere. È un segnale positivo, d’accordo, ma non illudiamoci che questo basti.

C’è un errore metodologico in tutto ciò, e viene da lontano. Per anni, a livello giovanile, abbiamo commesso errori di ogni sorta. E così, mentre noi sfornavamo mezzali palleggianti e dalla buona visione (che non guastano, attenzione), ci siamo dimenticati di formare il più importante: l’attaccante puro. Il centravanti, in Italia, non si fa più. I nostri settori giovanili sono infarciti di attaccanti discreti un po’ in tutto ma privi dell’eccellenza richiesta a determinati livelli. Manca la fame del gol, quella che ti sveglia nel cuore della notte col pensiero fisso del pallone da spingere in rete. Si è preferito celebrare il regista arretrato, quel Pirlo a metà campo che sapeva incantare le platee, ma così facendo abbiamo perso per strada il battitore d’area. E, purtroppo, nemmeno l’ombra nemmeno degli eredi di Pirlo. È un errore strutturale, una deviazione di percorso che ha prodotto solo mezzepunte e ali, e che ora si riflette nella crisi dell’attacco della Nazionale.

L’apice di questo smarrimento offensivo lo si vede nella costruzione stessa del gioco moderno. L’ossessione per il possesso palla, la ricerca della perfezione nelle trame – che apprezzo, attenzione – hanno distolto l’attenzione dalla creazione del più classico dei bomber. Reti segnate, non passaggi. Gli allenatori di oggi predicano l’equilibrio e la versatilità tattica, e in questo calcio orizzontale il centravanti ha perso la sua importanza, relegato a pedina di un sistema complesso, piuttosto che a killer solitario. Così si spiega come mai, nella Nazionale che fu di Riva e Paolo Rossi, ci si aggrappi ora a un oriundo che non ha mai calpestato un campo da gioco italiano fino a poco più di un anno fa.

Sì, certo, ci sono segnali di ripresa. Ma sono fiammate isolate in un deserto che rimane tale. I settori giovanili devono tornare a produrre attaccanti, calciatori che sappiano vivere e morire nei sedici metri avversari, e non solo dei raffinati portatori di palla. Bisogna tornare a insegnare l’istinto del gol, quello che fa la differenza tra una buona squadra e una squadra vincente.

Perché, amici, senza centravanti non si vince. Senza quella malizia sotto porta, senza quella fame ancestrale, il calcio italiano continuerà a inseguire le ombre del passato. E anche Retegui, Cutrone, Lucca e Piccoli, per quanto abbiano mostrato qualche sprazzo di luce, sono ancora lontani dall’essere l’erede di chi, con il numero nove sulle spalle, ha fatto tremare le difese di mezzo mondo.

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

2 risposte

  1. Concordo su tutto Vincenzo ed aggiungo una sottolineatura, la tanto di moda “Costruzione dal basso” che ha spostato il baricentro del gioco quasi a sopperire la vedovanza di quei geniali propositori dell’azione da centrocampo, alias Pirlo, ed ora invece postulate su irritanti lunghi lanci del portiere, ma il gioco del calcio non è un tiro al piattello e così continueremo soltanto a rimpiangere i veri numeri 9 di una volta centravanti fisici alla Chinaglia, Vieri piuttosto che degli autentici cecchini Starfighter alla Pippo Inzaghi!…. si dice che il mondo tecnologicamente avanzi ma nella sfera del calcio a me sinceramente non pare di certo!
    Un caro abbraccio.

    Massimo 48

    1. Ciao Massimo, quando sento il termine moda accostato alla costruzione dal basso mi viene spontaneo sottolineare che non si tratti di una moda ma di uno strumento che può essere utilizzato e come tale può essere buono o cattivo in base a come appunto viene, prima compreso, e poi utilizzato.Costruire dal basso significa giocare a calcio, nulla più, se non cominciamo a considerarla una normale fase di gioco non ne riusciremo mai a coglierne fino in fondo il valore soprattutto in riferimento agli aspetti pedagogici legati ai settori giovanili.
      Un abbraccio

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