“Se il calcio si potesse insegnare allora gli stadi dovrebbero essere pieni di calciatori, ma sappiamo bene invece qual’è la dura realtà: che sono pieni di gradinate, di striscioni e di pubblicità e così vuoti di giocatori. (D.Panzeri)”
Se c’è qualcosa che differenzia il Calcio dagli altri giochi e sport, e lo ha reso così popolare nel mondo, è perchè poteva essere giocato dovunque e da chiunque ma soprattutto non faceva riferimento a protocolli “metodologici” e/o “didattici” per poter essere appreso, bastava solo giocarlo, così come avviene oggi con i moderni giochi come la Play Station.
Questa affermazione non è banale ne tantomeno superficiale perchè se si potesse fare un sondaggio e chiedere ai grandi giocatori del passato “come hanno imparato a giocare” nessuno di loro risponderebbe o sosterrebbe di averlo appreso perchè qualcuno glielo avrebbe insegnato (al massimo giocando con amici o fratelli più grandi che sapevano già giocare) o perchè si erano “allenati” facendo esercitazioni decontestualizzate dal gioco, o prendendo parte a “lezioni private” dove si “impara” attraverso esercizi che vengono soprannominati specifici e individualizzati.
“I tempi sono cambiati! noi apprendevamo a giocare a calcio giocando; oggi invece si pretende, soprattutto con i bambini, di insegnargli a giocare senza giocarlo. Viviamo un periodo dove il bambino deve apprendere senza giocare. (Rivelino)”
Quello che, a oggi, nel calcio giovanile, non è più sostenibile è proprio questa mancanza di gioco, quella libera e spontanea attività che spingeva le persone ad associarsi e ritrovarsi per trovare una via di svago dalla vita quotidiana e che aiutava, soprattutto i bambini, ad apprendere la vita stessa, le sue regole, i suoi valori e ad assumere una partecipazione attiva dentro un contesto, in questo caso un gioco, ma che in fin dei conti rappresenta la vita in comunità, avvicinandoli a quell’idea di solidarietà che deve essere alla base della società umana. Cosa c’è di meglio al mondo se non il gioco per lo sviluppo di un bambino?
Viene spontaneo domandarsi: perchè se i grandi giocatori del passato hanno appreso a giocare giocando oggi invece si pretende che i piccoli calciatori apprendano a giocare “lavorando”?
La verità è che nessuno riesce a dare una risposta a questo mistero pedagogico; ma il gioco dovrebbe rimanere la forma primaria su cui si deve basare l’apprendimento perchè è quello “spazio” dove intervengono tutti i sistemi e le strutture del bambino, il gioco gli propone quelle difficoltà che lo stimolano a risolvere le azioni in accordo con la sua “furbizia”, immaginazione, creatività e lo spinge a prendere decisioni, ad avere iniziativa, intenzionalità: “il voglio fare”.
“Si produce di tutto, teoricamente, perchè sappiamo com’è il sistema universitario chi non scrive non ottiene punteggio; ma non ci sono ricerche che spieghino come si impara a giocare a calcio. Curioso? Pensando soprattutto ai tanti paesi dove il calcio è lo sport nazionale. La domanda è: perché non ci sono queste ricerche? Non ci sono perchè se ci fossero distruggerebbero la teoria ufficiale di come si impara. Perchè nessun calciatore, nessun bambino ha imparato a giocare a calcio con esercizi analitici, con un maestro, con un professore. (J.Velasco)”
È così che si sono sviluppati i migliori giocatori del passato: “formandosi” in quelle circostanze in cui mancava una “pedagogia formale” e, a dire il vero, la mancanza di questa “formazione senza formatori” ha consentito loro di avere una ricchezza di risorse, puramente calcistiche, che li hanno poi resi popolari e ammirati in tutto il mondo.
Da bambini giocavano nei loro quartieri e si distinguevano per lo straordinario rapporto che avevano con il pallone, che dominavano come se fosse una parte del loro corpo perchè era il loro “giocattolo” e questo costante utilizzo li rendeva “prestigiosi” e gli consentiva di dare libero sfogo a quel “talento umile” che li distingueva dagli altri.
Giocavano e basta! ore e ore di gioco spontaneo, creativo, immaginato, libero, in una sola parola: sostenibile.
“Quando si agisce, e si acquisisce un po’ di expertise, soprattutto motoria, cioè si sanno fare delle cose, non si ha più bisogno di concentrarsi su ogni minimo dettaglio dell’azione perché questa, per così dire, viene da sè; ma viene da sè anche la capacità di cambiare la prospettiva se la situazione cambia. Invece quando un soggetto non è molto capace, è molto lento nell’implementare le variazioni rispetto agli stimoli ambientali, cioè cambia l’ambiente cambia il tipo di azione. È accertato ormai che questo è dovuto dal fatto che, sembra paradossale, ma più diventi esperto e più sei in grado di rappresentare a livello motorio l’azione in generale, il tuo cervello implementa le variazioni online e quindi i tempi di risposta sono molto più rapidi e sei molto più flessibile, e questo ora si riesce a capire perché sappiamo che nel cervello funzionano certe cose. (C.Sinigaglia)”
Il calcio vive una profonda crisi e sta mostrando tutta la sua sofferenza e incapacità di rispondere a problemi che sono di natura sociale, antropologica ed economica, ma questa crisi è anche colpa di un mal funzionamento, in ambito culturale, proprio della formazione e dell’ educazione che stanno alla base dell’evoluzione dell’umanità.
Oggi si educano/formano i giovani a “vivere” situazioni che poi, nella realtà quotidiana o nel gioco, quasi non si hanno; costretti dalla “scuola” a gestire una realtà che resta ferma e non si adegua alla complessità crescente, imbrigliati nel risolvere problemi che non cambiano regole difronte al continuo e vorticoso cambiamento del mondo.
In definitiva il Lavoro ha sostituito il Gioco così come l’intelligenza artificiale sta sostituendo l’umano.
“È la riforma di pensiero che consentirebbe il pieno impiego dell’intelligenza per rispondere alle nuove sfide planetarie. (E.Morin)”
I significati, i concetti sembrano sopravvivere inalterati a generazioni di umani completamenti differenti, una lotta continua al mantenimento del “culto della permanenza” giustificata dalla classica espressione: si è sempre fatto così!, che alimenta quell’ambizione perversa a “congelare” il tempo, termine ormai ampiamente diffuso dai Reality televisivi.
Tutto questo genera una folle necessità di controllo e di astrazione dal vivere assieme fomentando così un’individualismo sfrenato che porterà solo alla disumanizzazione.
La volgarizzazione del pensiero di Darwin per cui il “migliore” si identifica con il più forte o il più astuto sta degenerando in una lotta senza pietà che non alimenta la competizione, che è insita nell’essere umano, ma la rivalità.
La sostituzione del “gioco libero” con un “gioco schiavo” (delle moderne metodologie) ha portato alla totale pianificazione dell’infanzia; in un colpo solo i bambini sono stati privati della loro libertà, della loro creatività e della loro capacità di apprendere nel fare da soli cosi come il mondo moderno sacrifica i sogni, le utopie e le illusioni degli adulti per soddisfare i bisogni della vita consumistica e delle “leggi di mercato”.
La mania del controllo e dell’organizzazione professionale del calcio ha portato tutto sul piano del “prevedibile” quando invece il bambino dovrebbe essere preparato a convivere con l’imprevedibile, perchè se non lo si orienta per questo compito non sarà mai in grado di risolvere dalla propria creatività il tempo e lo spazio d’incertezza con cui dovrà fare i conti per tutta la vita; così come nel gioco del calcio che ha come “caratteristica” l’aleatorietà degli eventi e trova nella decisione rapida e intuitiva la sua miglior risposta.
“Noi non siamo neurologi, non siamo psicologi, tantomeno fisiologi; semplicemente noi siamo allenatori con una sensibilità e che danno molta importanza alle emozioni durante l’allenamento, e allo stesso tempo, cercano di dare una spiegazione al fenomeno della presa di decisione sulla base della Teoria della complessità che ci consenta di avere una metodologia di allenamento che ci permetta di ottimizzare il nostro interscambio con i giocatori. (I. Guerrero)”
Con queste motivazioni, che sono riconosciute e concordate da tutti, come si può pensare di programmare o parcellizzare il gioco? Quale pedagogia è più idonea per sviluppare la creatività di un bambino se non il gioco? Che tipo di “maestro” può apportare o insegnare una tecnica che è intima, individuale e di espressione di una propria motricità?
Negli ultimi venti anni sono stati compiuti notevoli passi in avanti circa i temi riguardanti il processo apprendimento/insegnamento, soprattutto alla luce delle evidenze delle neuroscienze, e ciò dovrebbe rivoluzionare completamente l’agire “didattico” (che brutta parola) di chi si occupa di “formazione”, in tutti i campi in cui esso si esercita, che sia un’aula scolastica oppure un campo di calcio. Con l’affermarsi della visione ecologica sistemica (personalità, costrutto complesso frutto delle interazioni natura/cultura/contesto) che prende le distanze dal comportamentismo (tutti devono essere in grado di fare tutto allo stesso modo) e dal cognitivismo piagettiano (programmazione per stadi, allievo che esegue il compito assegnatogli dal docente).
Difatti, le neuroscienze stanno ridando dignità a tutte le teorie che mettono al centro i vissuti e le esperienze individuali (ecco perché si deve rivalutare l’apprendimento spontaneo che si generava nel calcio di strada), con la promozione di apprendimenti per libera sperimentazione e per scoperta, dove il docente, attraverso l’organizzazione di ambienti formativi, solleciti l’interesse e la motivazione (unità mente/corpo).
Da qui, i concetti di progettazione sistemica, emergenza, autorganizzazione, enazione, ricorsività. Questi non sono termini astratti. Ciascuno di essi è portatore di azioni e comportamenti consequenziali. Tutto questo si giustìfica se al centro di tutto c’è la persona nella sua accezione autentica e specifica.
È chiaro quindi che ci vuole una “riforma del pensiero” e quindi una riforma dell’insegnamento, si dovrebbe riflettere sull’attuale stato dei saperi che caratterizzano questa epoca: la posta in gioco sono i nuovi problemi posti alla convivenza umana da un’interdipendenza planetaria irreversibile tra tutti gli ambiti e soprattuto qui in Italia, serve una riformulazione dell’organizzazione dei saperi, troppo disgiunti e frazionati, inadeguati ad affrontare problemi che richiedono approcci multidisciplinari.
“Azione e percezione sono due facce della stessa medaglia e sono l’ingrediente essenziale di ciò che chiamiamo cognizione. L’azione influenza e determina la nostra percezione e la percezione è una modalità dell’azione. Il modello basato su questa ipotetica divisione del lavoro tra azione, percezione e cognizione, chiaramente non torna. (V. Gallese)”
Quindi qualsiasi metodologia che viene pensata per il calcio, soprattutto per il settore giovanile, deve avere come fondamento la complessità, l’intelligenza e la creatività e fare affidamento nelle capacità di apprendimento dell’ allievo invece che esaltare quelle dell’insegnante; il fine ultimo è lo sviluppo del talento, dal greco Talanton che significa bilancia, peso, in un certo senso valore. Il reale valore di una società di calcio sono i suoi ragazzi e non quello che è “incasellabile” in una tabella excell o in un algoritmo.
Tutti nasciamo dotati di intelligenza che è una capacità, oltretutto è una capacità in azione, cioè è tale solo se si muove, se agisce. Sarebbe molto più opportuno anche parlare di “intelligenze multiple” ma per comprendere la complessità di questo argomento si invita il lettore a leggere “Teoria delle Intelligenze Multiple” di Howard Gardner.
Le metodologie, soprattutto nel nostro paese, invece di sviluppare le capacità dei giovani calciatori li prepara ad avere delle in-competenze. Nel senso che le competenze a cui fanno riferimento, molti responsabili o maestri, (sbagliando) sono un saper fare ripetitivo e lineare che hanno più a che vedere con il mondo del “lavoro” del passato che con qualcosa che fluisca in un gioco che si proietta nel futuro, e spesso riguardano aspetti tecnici più o meno specialistici inseriti in un contesto predefinito e immutato, totalmente meccanico.
Oggi l’idea di competenza ha superato questa barriera di concetto “di formazione professionale” creata dalla rivoluzione industriale, la competenza nella complessità odierna ha più a che vedere con la costruzione di una conoscenza “intrecciata”, dinamica, incarnata, situata che mobilita l’essere umano a risolvere problemi reali, concreti, ed imprevisti.
Pertanto Una metodologia pertinente deve ambire alla valorizzazione della dimensione umana, a quell’agire personale di ciascuno, basato sulle conoscenze e le abilità acquisite, adeguato per un determinato contesto… quindi a rispondere ad un bisogno, a risolvere un problema, a eseguire un compito, a realizzare, perchè no, un sogno.
La parola individuo, dal latino Individuus: significa Indivisibile, essere umano che ha caratteristiche tali (individualità) che lo rendono unico e lo differenziano da tutti gli altri esseri della stessa specie, e che quindi non si può basare solo ed esclusivamente sulle sue possibilità ma deve entrare in relazione con l’altro e con l’ambiente in cui è immerso. Invece quello che disgraziatamente si sta facendo oggi è l’esatto opposto; si isola il giocatore dal gioco, dai compagni e dal contesto pensando così di svilupparlo “individualmente”.
“Io adoro il dettaglio perchè un buon controllo di Modric, il primo contatto di Iniesta o di Pedri o un’arresto improvviso di Benzema o che semplicemente Kross alzi la testa per guardare il compagno lontano… hanno tutti un significato che è potenzialmente più ricco che qualsiasi cosa noi allenatori possiamo offrirgli. Però quello che sta succedendo oggi con l’allenamento analitico è che estrae questi gesti dal contesto dove avvengono e dove dovrebbero rimanere per allenarli in maniera isolata e chiamano tutto ciò allenamento specifico, allenamento individualizzato. Ma ciò che stanno facendo non è allenare un giocatore in forma individualizzata ma allenarlo solo e per di più non è nemmeno specifico perchè la specificità del calcio è giocarlo. (O.Cano)”
Il compito principale in un settore giovanile, arrivati a questo punto, delll’attività di base (che è quella finestra temporale che comprende i bambini sino ai dodici/tredici anni) è, senza neanche dover aprire un dibattito plenario tra “addetti ai lavori”, quello di far apprendere a giocare a pallone. È un’età molto importante perchè questa rappresenta il tempo in cui il bambino apprende e sviluppa i fondamentali della tecnica e come poi utilizzarli per giocare e compiere tutte le diverse e imprevedibili azioni che il gioco gli pone.
Il bambino deve essere visto come un giocatore, nel vero senso della parola, cioè colui che gioca, l’unico protagonista, l’attore più importante, che gioca perchè gli piace, perchè si diverte, perchè è mosso dalla passione verso il gioco ed è felice di giocare con i suoi amici/compagni e che ha una gran voglia di imparare, di essere il migliore, di volere sempre la palla, perchè sà che senza il suo controllo nulla è possibile.
Nessun bambino al mondo nasce o non ha nessuna possibilità di poter giocare, anche nelle condizioni di estrema povertà, perchè il gioco anticipa qualsiasi cultura umana o idea di pedagogia comprovata; il gioco nasce perchè è spontaneo, perchè è un’esigenza, perchè è insito nella natura umana e animale, perchè può essere inventato e creato a prescindere delle condizioni e degli strumenti che si hanno e non ha bisogno di nessun metodo ma solamente quello stimolo naturale a voler fare, della libertà di poterlo fare, al voler scoprire, al voler apprendere e al piacere che apporta il giocare; si può affermare con certezza che il bambino che non gioca è la vera anomalia. Partendo da qui gli adulti che sono coinvolti in questa fase, usando il buon senso e la ragione, dovrebbero comprendere che non serve alcun tipo di insegnamento specifico ma più che altro una sorta di forma di “incoraggiamento”.
(Per eventuali approfondimenti su questo argomento si rimanda il lettore ad una lettura degli studi di Sugata Mitra)
L’ adulto che si occupa di formazione in ambito infantile dovrebbe riflettere, cosa che non fa più, e ricordarsi che nei giochi della sua infanzia non ha avuto nessun insegnante che gli diceva come giocare al gioco delle figurine, per esempio, o un maestro che gli argomentasse le “tecniche” del nascondino, nessun docente per nessun tipo di gioco di cui possa avere memoria, ma solo il ricordo di quanto era esperto in queste attività.
Quindi, se il calcio viene concepito e nasce come un gioco, perchè si pretende insegnarlo? Perchè tutta questa esigenza di indossare i panni dell’ insegnante, del maestro, quando in realtà chi vuole apprendere non ha bisogno di noi, se non per altre problematiche ma che non hanno nulla a che vedere con il gioco, e non mostra nessun interesse alle regole pedagogiche e tantomeno alle loro teorie.
Nel calcio giovanile c’è un enorme impegno e ostinazione a voler insegnare senza tenere in considerazione un dato di fatto evidente: che nessun insegnante, anche il più informato, lo sà fare con certezza. Tutto questo impegno nei confronti della formazione giovanile, però, dovrebbe avere come punto di partenza un paradigma che tenga in considerazione il processo di apprendimento, perchè l’unico dato di fatto evidente e certo è che ogni bambino quello che sà fare meglio è imparare. Quindi questa eccessiva e molesta partecipazione dell’adulto nello spazio e nel tempo della formazione dei bambini può rendere difficile o ostacolare questo processo di apprendimento, che è spontaneo e istintivo, e che è stato nel passato la pietra miliare di coloro che poi sono diventati i calciatori più famosi al mondo.
Alla luce di tutto quello che è stato scritto sopra, il gran “lavoro” di chi si occupa di formazione giovanile dovrebbe essere quello di conoscere il gioco in profondità ma non per insegnarlo metodologicamente o addirittura ridurlo ad una serie di esercizi o compiti da eseguire, ma per poter creare o ricreare ambienti di apprendimento in cui il bambino giocando possa sviluppare le sue capacità e abilità con quello che ha e che già sa fare; entrare nel mondo del gioco, cosicchè dall’interno di esso si possa aiutarli a crescere e ad apprendere a giocare e non commettere l’errore di fare in modo che siano costretti a doverne uscire per provare a soddisfare le nostre ambizioni di “allenatori”.
Le metodologie dovrebbero essere al servizio dei bambini e non i bambini al servizio delle metodologie.
BIO: Francesco Quaranta, classe 1980 laureato in Scienze Motorie presso Università di Torvergata, licenza Uefa B, attualmente è allenatore in un settore giovanile professionistico. Appassionato di metodologia e attento osservatore dell’evoluzione del gioco del calcio e dei giocatori. La sua visione umanista del mondo lo rendono un libero pensatore.
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Le riflessioni che fa Francesco meritano grande attenzione. L’articolo mette in evidenza alcune questioni sulle quali, prima o poi, tutto l’ambiente calcistico si dovrà misurare. Al momento, la posizione che si sostiene appare ancora minoritaria, ma questo non significa che gli altri abbiano ragione. Niente affatto! Se il calcio, specie quello giovanile, attraversa un brutto momento un motivo ci sarà. E sicuramente sarà responsabilità di chi fino a ora è stato protagonista del modo di come è stato affrontato. A cominciare dai luoghi dove si fa la cosiddetta ” formazione “Per uscirne fuori occorre una grande e complessiva azione trasformatrice: teoretica, metodologica, didattica. Facciamo la nostra parte, senza indugi e incertezze
C’è tanto bisogno di questo… anche se a volte nel mondo del calcio giovanile proporlo, anche agli stessi allenatori che si coordina, sembra una lotta contro i mulini a vento.
Grazie per il prezioso contributo alla causa!!
A dire il vero negli anni 60, 70 e 80 il calcio si fondava essenzialmente sul metodo analitico. Col nascere delle scuole calcio si assisteva a svariate stazioni di pura e sola tecnica calcistica. Ciò che è cambiato è l’esposizione allo sport ed al tempo libero impegnato nel gioco del calcio ed in svariati altri giochi che arricchivano la nostra memoria e sviluppavano la creatività. Solo a metà degli anni 80 si è sviluppato e applicato il metodo globale, forse derivante dalle scuole californiane di Palo Alto. La domanda sarebbe, il gioco di strada non esiste più come completiamo l’attività motoria ed il calcio?
Ciao Sergio, ciò che affermi è vero. La nostra cultura riduzionista ha fatto il resto: anzichè attribuire al gioco (strada, cortile, oratorio ecc) l’apprendimento, lo abbiamo attribuito al lavoro analitico sviluppando, in estrema sintesi, convinzioni errate. Alla tua domanda rispondo dicendo che dobbiamo far giocare a calcio i nostri ragazzi/bambini e le nostre ragazze/bambine.
A presto e grazie per il contributo.
Filippo dice una sacrosanta verità. Erano così tante le ore quotidiane di apprendimento esperienziale ( tra pari, coi compagni più grandi e più abili, negli spazi e luoghi più variegati, con regole ( vincoli) adattate al contesto) da neutralizzare completamente ” l’approccio dominante ( senza esagerare, con il senno del poi, avevano più un valore integrativo piuttosto che fondativo). Infatti, ora che tale approccio non è più accompagnato da quel tipo di esperienze, il problema è deflagrato completamente. Che fare? È necessaria una grande operazione dal basso e deve essere così forte e estesa da riuscire a condizionare i criteri di formazione ufficiale. Certo, la questione è complessa, afferisce a più ambiti che si influenzano reciprocamente. Ma ciò non deve essere un alibi: cominciamo da qui!
La visione di Francesco qui sopra brillantemente riportata, è in contrasto apparente con quella dominante su questo blog, perdonatemi l’esagerazione; ovvero, “la professionalizzazione del bambino/giovane” e l’inquadramento in un habitat di gioco più ampio.
Io credo che queste due visioni debbano convergere con il giusto approccio dalla “totale libertà del bambino di strada” alla “maturazione tattica e all’inquadramento in gioco di squadra”.
Faccio un esempio, quante volte ho visto calciatori dotati di dribbling e scatto a breve, rinunciare a saltare l’uomo e dare palla indietro, facendo perdere alla squadra il tempo di gioco di un’azione di contrattacco veloce.
Perchè quel giocatore non ha tentato il dribbling, che forse portava al tiro in porta? Se faceva il giocatore di strada il dribbling lo avrebbe fatto sicuramente, ma inquadrato non lo ha fatto? Probabilmente nella sua formazione gli si è generato un blocco psicologico per la paura di perdere la palla.
Ecco le due visioni, fatte combaciare con il giusto approccio e con le dosi giuste per entrambe, avrebbe fatto gestire quella situazione anzidetta, finalizzata all’efficienza del gioco di squadra e non alla paura di sbagliare.
Ciao Giuseppe, perdonami ma questo blog porta da sempre avanti l’idea che il giovane calciatore sia il protagonista del suo processo di apprendimento e l’allenatore lo debba accompagnare, sostenere nell’errore, debba fungere da facilitatore. Lo definiamo approccio psico-sociale con un’idea di apprendimento socio-costruttivista se vogliamo definirlo in termini scientifici. Grazie per i tuoi preziosi contributi.
Filippo
Ciao Filippo,
questo blog non ho difficoltà a chiamarlo l’Università dell’apprendimento calcistico”.
Il livello è molto elevato e soprattutto, in continuo aggiornamento. Ti dico questo da ex docente universitario a contratto di economia bancaria, quindi comprendo quando il livello si alza e si va avanti nell’aggiornamento delle idee.
Se inizialmente avevo delle differenze con Alessio, poi, frequentando questo blog e discutendone con lui, ho sicuramente fatto un bagno in Arno e aggiornato le mie idee. Ovviamente aggiornate e ammodernate, non cambiate; ognuno è portatore di un vissuto di esperienze che si stratificano e si è portati ad aggiornare e migliorare e difficilmente a cancellare.
Ora non avendo le basi tecniche e teoriche sulle quali si discute nel blog, può rimanere in me una memoria distorta di alcune situazioni.
Questo spiega la mia fissazione sul differenziare la scuola calcio in funzione dell’età e del professionismo di chi la gestisce. Ma la professionalità se fornisce il reddito per vivere (anche se integrativo), difficilmente viene regalata. Questo lo trovo più che giusto: tutti abbiamo diritto di vivere grazie alla professionalità che mettiamo nel nostro lavoro. Ma questo comporta a sua volta una soglia di accesso economica alla scuola calcio, forse non sostenibile da tutti.
Ciò premesso io volevo solo dire che, se da un lato c’è un apprendimento spontaneo del bambino, che diventa ragazzo e poi adulto, ci deve essere una progressione nel “trade off”, tra “apprendimento spontaneo” e “istruzione da insegnamento”, in virtù del quale posto 10 (un numero a caso) il livello di apprendimento, quello spontaneo calerà nel tempo da nove ad 1 e quello da insegnamento salirà da 1 a nove, con la somma che è sempre dieci.
Comunque, sono d’accordo con la tua risposta al mio intervento, solo che per semplificare e ridurre il numero di parole ed anche perchè non ho il vostro livello tecnico (non solo il tuo ma anche quello degli interventi) , sono stato parzialmente infelice nell’esprimermi.
Ma questo livello tecnico teorico-pratico che leggo in questo blog, non esisteva ai miei tempi. Il problema mentale, per chi lo aveva, veniva trattato quando si presentava, oggi fortunatamente leggo che si tiene presente anche la pedagogia.
Personalmente se qualcuno mi riprende (educatamente e bonariamente) lo ringrazio, perchè quella eventuale cretinata non la dico o la scrivo più.
Con stima a te e a quelli che intervengono.