Paris brûle-t-il? Nessun italiano nella top 30, vince, con merito, Rodri. Aitana Bonmatí incoronata, per la seconda volta di seguito, migliore calciatrice dell’anno.
John Ford ce l’ha insegnato in uno dei film più belli di sempre – non solo del genere western, di tutti i generi! – e allora proviamo anche noi a cercare un po’ di leggenda in mezzo ai fatti.
Siamo intorno alla metà degli anni Cinquanta, anno più, anno meno, ché la storia si nutre di passato e lo rimastica nel presente; si prova ancora ad allontanare lo spettro della Grande guerra e della linea Maginot, di Vichy e del massacro di Sétif e Guelma, ma nel frattempo altri moti insurrezionali investono le colonie, dall’Indocina fino all’Egitto, passando per l’Algeria, il Marocco, la Tunisia.
Mentre il potere coloniale francese, progressivamente, si dissolve, immaginiamo l’atmosfera di Parigi. L’aria luccica di un’energia irrequieta, intrisa di qualcosa che non sa ancora darsi il permesso di esplodere. Nei bistrot di Saint-Germain-des-Prés gli intellettuali si confrontano su ciò che sarà, avvolti in una coltre di fumo dal sapore acre e davanti a una distesa di bicchieri di vino che punteggiano i banconi lignei come coriandoli dopo una festa di carnevale. La febbre di possibilità si inerpica tra gli arrondissement: la si avverte nella musica delle cantine, nei colori vivaci dei cartelloni dei cinema d’art et d’essai e in quella tensione sottile che si respira per le strade, quasi l’anticipo di un cambiamento che forse è già in atto, o forse… chissà.
Nel 1954, François Truffaut pubblica quello che potrà essere considerato il manifesto della nuova ondata cinematografica dei cosiddetti Giovani turchi, riuniti intorno ad André Bazin e ai Cahiers du cinéma: “Su una certa tendenza del cinema francese”. La tendenza, ça va sans dire, verrà ripensata e le regole rotte, riassemblate, adattate a nuovo corso culturale che non può che investire ogni aspetto della società, anche il calcio che è in sé pregno di cultura e antropologia (checché ne dicano i detrattori). È una rivoluzione – piccola? Non proprio, anche se forse non così radicale da sovvertire l’odiato assetto borghese. Insomma, una sorta di brunch di gala – che inizia da qualche parte e poi contamina tutto.
Pochi anni prima, ovvero nel 1951, il “Trattato di Parigi” aveva istituito la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) che sarà il primo passo verso quella che oggi chiamiamo Unione Europea. Una nuova mentalità, dunque, sta emergendo, all’insegna della collaborazione tra stati e in direzione ostinata e contraria rispetto alle lacerazioni belliche del recente passato. Le competizioni sportive vengono viste come un’occasione particolarmente proficua per tentare di costruire un’identità comune: dalle Olimpiadi 1952 di Helsinki ai Mondiali del 1954, organizzati in Svizzera, ogni evento diviene un momento di celebrazione condivisa. La Coppa dei Campioni (denominata, dal 1992, Champions League) si pone quindi come una nuova narrazione di proto-unità europea – un’Europa da costruire, in più di un’accezione – applicata al calcio, sport amatissimo e diffuso in ogni luogo del continente.
L’idea nasce da un uomo che aveva vissuto in prima persona la guerra e che voleva provare a pensare il calcio come una modalità nuova per edificare ponti: Gabriel Hanot, già calciatore, con alcune presenze in nazionale, e in seguito giornalista caporedattore di L’Équipe. La scintilla scocca nel dicembre 1954, in seguito a una partita amichevole tra il Wolverhampton e l’Honvéd di Budapest, due delle squadre più blasonate del momento. Nella seconda militava, tra l’altro, un certo Ferenc Puskás… Vincono i britannici e la stampa inglese, in particolare il Daily Mail, titola, grossomodo: “campioni del mondo dei club.” Hanot dapprima è irritato: con quale arroganza si può, sulla base di un’unica partita, stabilire che una squadra sia migliore di ogni altra? Poi si illumina e, come talvolta succede, da un particolare, che per la maggior parte delle persone è irrilevante, scaturisce un’intuizione che cambia la storia, in questo caso la storia del calcio. Parla con il collega, Jacques Ferran, anche lui particolarmente sensibile ai temi europeisti, e il resto, è il caso di dirlo, è storia.
La competizione fa il suo esordio con il sorteggio del 4 settembre 1955 – la prima partita ufficiale fu disputata il 7, tra lo Sporting Lisbona e il Partizan Belgrado – con sedici squadre (già nel 1956-’57 si passa a ventidue) pronte a contendersi il trofeo dalle grandi orecchie che, nel corso del tempo, sarebbe diventato un simbolo di eccellenza sportiva. La prima squadra in assoluto a sollevare la coppa fu il Real Madrid, che la vinse nel 1956 e poi per ulteriori quattro anni di seguito, fino al 1960. La prima squadra italiana a trionfare fu invece il Milan nel 1963, seguita dall’Inter che ebbe la meglio nel ’64 e nel ’65.
Nel suo ufficio con la porta a vetri zigrinati e screziato da una luce giallastra – o forse è gialla la nostra immagine di ciò che avvertiamo come lontano – Gabriel Hanot osserva i commenti ai match della “sua” Coppa dei Campioni. È fiero e soddisfatto. Magari non è un uomo da grandi gesti o parole solenni, ma ha dimostrato di saper riconoscere i dettagli che contano, le sfumature che fanno la differenza. Sorride fra sé e si chiede perché nello sport che ama non ci sia ancora un modo per riconoscere l’apporto dei singoli. Sì, d’accordo, sempre di un’orchestra si parla, eppure si domanda se non sia venuto il momento di celebrare quel giocatore capace di andare oltre l’ensemble, di risolvere una partita con quel gesto unico, irripetibile che i posteri ricorderanno come se l’avessero vissuto di persona: i gol, i movimenti, i lanci formidabili, la capacità di contrarre lo spazio-tempo della gara a proprio piacimento. Non si trattava di talento – che poi, come lo racchiudi il talento? Mica è facile – ma dell’influenza complessiva, del carisma in campo, una rara dote ispiratrice, in grado di trascendere il tempo presente. Il duo Hanot-Ferran è pronto per perorare una nuova causa: sotto l’egida di France Football, rivista appartenente allo stesso gruppo editoriale de L’Équipe, ma meno vincolata alle necessità cronachistiche di una pubblicazione a cadenza quotidiana, nasce, nel 1956, il Ballon d’Or, riservato, fino al 1995, ai giocatori europei (il primo giocatore non europeo ad aggiudicarselo è stato il liberiano George Weah).
Il primo vincitore in assoluto, nel 1956, fu Stanley Matthews, ala destra a dir poco leggendaria, nella terra d’Albione: il soprannome che si portava dietro come un vessillo era The Wizard of the Dribble, cioè il mago del dribbling, per la sua straordinaria capacità di saltare gli avversari, palla al piede. Non serve aggiungere altro, se non che leggendario lo è stato davvero, anche solo per la sua costanza a ottimi livelli agonistici. Matthews aveva infatti quarantuno anni al momento del premio, un’età piuttosto eccezionale per un calciatore, ed era considerato un esempio di classe e, naturalmente, di longevità sportiva (proseguì poi la carriera professionistica fino a circa cinquant’anni… un calcio diverso, certo, ma si tratta comunque di un traguardo considerevole). Nonostante avesse centrato, di fatto, due soli obiettivi importanti, la Football League First Division Championship, antesignana dell’attuale Premier League, nel ’47, con lo Stoke City, e la FA Cup del 1953, nelle fila del Blackpool, Matthews incarnava il calcio, giocato con eleganza e dedizione. Così la sua vittoria segnò l’inizio della tradizione, almeno da un punto di vista ideale, si capisce, del Pallone d’Oro: celebrare non solo il successo, in quanto tale, ma soprattutto la maestria e l’influenza di un giocatore sul gioco stesso. Un’influenza che è persino, nel caso del buon Stanley, onomastica, se si pensa che proprio la succitata Coppa d’Inghilterra è meglio nota come la Matthews Final, in virtù dell’impatto fondamentale che il giocatore ebbe nel ribaltamento di un risultato sfavorevole ai suoi (dal 3 a 1 per il Bolton Wanderers al 4-3 per il Blackpool, con due gol segnati da Mortensen – sua anche la prima rete, in un bel hat-trick – e uno da Bill Perry, il tutto in una ventina di minuti).
Arriviamo con un balzo ai nostri giorni: molto è cambiato, in un certo senso troppo, se si considera che, lungi dal premiare il valore assoluto, ammesso di poterlo identificare con ragionevole certezza, si è spesso preferito assecondare il potere dei club o, in modo semplice e purtroppo semplicistico, assegnare il riconoscimento a ruoli ben definiti, in molti casi, ruoli offensivi. Perché, se si pensa ai criteri stabiliti per il conferimento (tra i quali, ricordiamolo, c’è anche il fair play), è davvero arduo comprendere come mai, nel palmarès, manchino nomi quali Andrés Iniesta, Xavi Hernández, Paolo Maldini, Franco Baresi, eccetera. Stiamo parlando, e lo dico senza tema di smentita, del gotha del calcio di ogni epoca. Tra gli assenti illustri, a onor del vero, ci sono anche almeno due grandissimi attaccanti puri: Thierry Henry e Robert Lewandowski (ma vista la stagione che sta facendo… mai dire mai!). I motivi? Come canta Bob Dylan, the answer, my friend, is blowin’ in the wind.
Eppure, proprio quando credevamo che nulla potesse più sorprenderci, di un conferimento ormai abbastanza paludato, diciamo pure telefonato, ben distante dalle auliche intenzioni dei padri fondatori, Parigi s’infiamma!
Nella prima edizione dell’era post Messi e CR7, El Chiringuito spara la notizia intorno all’ora della siesta: la delegazione madrilena, della quale fanno parte il presidente, Florentino Perez, Emilio Butragueño, Carlo Ancelotti, Jude Bellingham e Dani Carvajal, non partirà alla volta della Francia, irritata dalla mancata onorificenza a Vinicius Jr., il superfavorito della vigilia. Al termine del disgraziato Clásico di sabato scorso, qualcuno aveva interpretato il labiale di Vini verso Gavi come un “intanto lunedì mi vado a prendere il Pallone d’Oro”: ne era certo che lui. Be’, mal gliene incolse. Fatto sta che, in pochi minuti, il lancio del programma spagnolo fa il giro d’Europa. La presa di posizione della Casa Blanca è tanto netta quanto, spiace sottolinearlo, senza conoscere ulteriori retroscena, scarsamente sportiva, improntata all’esibizione di una sorta di privilegio atavico, scambiato per rispetto: “Se i criteri di assegnazione non designano Vinicius come vincitore, gli stessi criteri dovrebbero designare Carvajal. Poiché non è stato così, è chiaro che il Pallone d’Oro non rispetta il Real Madrid. E il Real Madrid non va dove non è rispettato.”
Senza perifrasi: per quanto mi riguarda, una pessima figura.
Intendiamoci, Vincius Jr., ala sinistra d’elezione, ma in realtà giocatore versatilissimo dell’attacco del Real Madrid di Ancelotti ha le statistiche dalla sua parte: nella stagione ’23-’24, si parla di trentanove presenze tra Liga, Champions League, Supercopa de España e Coppa del Re, con undici assist e ventiquattro reti segnate. Di queste vanno sottolineate, in modo particolare, la splendida doppietta nella semifinale di Champions, giocata contro il Bayern Monaco e, ovviamente, il gol nella finale di Wembley contro il Borussia.
Lo stesso stato di grazia non si può tuttavia rilevare in modo incontrovertibile, se si prende in considerazione il rendimento di Vini nella nazionale brasiliana (non solo per sue responsabilità individuali, ma se questo vale nel “male”, deve valere anche nel “bene”). In Copa América, i Verdeoro vengono eliminati ai quarti dall’Uruguay di Marcelo Bielsa: Vinicius Jr. è assente, poiché squalificato per somma di ammonizioni.
Inutile confrontare i numeri, senza contesto: quelli di Rodrigo Hernández Cascante, meglio conosciuto come Rodri, Pallone d’Oro 2024, sono di altro tenore. Il mediano del City, autore della rete che ha consentito alla squadra di Guardiola di vincere la sua prima Champions League, nel giugno 2023, è un giocatore completo – cinquanta partite giocate con il club, nella passata stagione, hanno fruttato nove gol e quattordici assist, niente male per un centrocampista difensivo – ma non può, per la natura del ruolo che ricopre, essere un bomber. Fondamentale anche il suo apporto in nazionale spagnola, dove si pone come perno del centrocampo, colui che fa da filtro e dà avvio alle azioni offensive. La Roja ha, come tutti ricordiamo, dominato il campionato europeo 2024, dando una lezione di calcio alla stessa Italia di Spalletti (quel risultato è bugiardo, da questo punto di vista), nel match disputato ai gironi.
Credo che abbia ragione Titi Henry, il quale, dopo aver rivelato la propria preferenza per il centrocampista centrale spagnolo, ha affermato sulla CBS: “I always wanted Xavi and Andrés Iniesta to win it when they were performing. People forget about midfielders and what they do. They’re the heart of the team. He is the heart of Manchester City. I know he didn’t win the Champions League, but he won the Euros.” (“Ho sempre voluto che Xavi e Andrés Iniesta vincessero, quando giocavano. La gente si dimentica dei centrocampisti e di quello che fanno. Sono il cuore della squadra. Rodri è il cuore del Manchester City. So che non ha vinto la Champions League [ha però contribuito nell’impresa delle quattro Premier di fila, mai riuscita neppure a Ferguson e al suo United N.d.r.], ma ha vinto gli Europei”.)
Non è peraltro agevole comprendere la ratio o il lasso temporale tenuto in considerazione, al di là dei regolamenti (fino al 2022, l’anno solare, in seguito la stagione): se lo scorso anno fossero state preferite le prestazioni con i club, non si spiegano, o si spiegano, ma in modo farraginoso, il secondo e quarto posto di Erling Haaland e Kevin De Bruyne. Il ManCity, per inciso, non disertò.
E se tutto ha un peso – ossimoricamente imponderabile! – un altro buon nome da spendere sarebbe stato, in effetti, quello di Dani Carvajal: decisivo nel Real Madrid, decisivo con la Spagna e autore, da terzino qual è, di uno dei due gol della finale londinese di Champions.
Rodri, però, insomma, Rodri è qualcosa che trascende il risultato: Rodri è un ritorno all’innocenza per un premio che ritrova, nel ragazzo di Madrid, il ragazzo senza account social, con la maglia infilata nei pantaloncini e una laurea in “Management and Business Administration”, il valore del gregarismo. Un’innocenza comunque milionaria, ma è così necessario ostentare naïveté? Nessuno, tra i candidati, porta avanti le istanze di un calcio proletario, esattamente come, in ambito cinematografico, l’Academy Award non celebra le voci davvero indipendenti.
Premiare Vinicius Jr. o Carvajal non sarebbe stato quindi, ci mancherebbe, né “sbagliato” né ingiusto, perché non si sta parlando di un teorema con un solo risultato possibile e relativa dimostrazione. Stanley Matthews non segnò nessuno dei quattro gol del Blackpool, in finale di FA Cup del ‘53, ma quella partita porta il suo nome. Ecco, è l’impatto, è il singolo che si staglia in mezzo al campo e fa quel gesto, quel passaggio, quel fraseggio che immette una nuova variabile nell’equazione imperfetta della partita. È un impatto nel calcio che Rodri ha come pochissimi altri, al giorno d’oggi. Ed è la ragione per la quale ritengo che questo premio, il terzo a un giocatore spagnolo nella storia del Ballon D’Or, sia non il più “giusto”, ma, senza dubbio alcuno, il più bello. Gli altri due andarono rispettivamente ad Alfredo Di Stéfano (argentino naturalizzato spagnolo), nel 1957, e a Luis Suarez, nel 1960.
Il mediano è il ruolo silenzioso per eccellenza: è il costruttore infaticabile, quello dalle giocate poco appariscenti, ma essenziali, insomma, quello che si nota bene soprattutto quando non ce l’hai a disposizione. Rodrizontal, come lo appellavano malevolmente i detrattori, è divenuto, sotto l’ala di Pep Guardiola, uno a cui si imputa di lavorare solo coi campioni e che invece, più e più volte, è stato capace di sgrezzare diamanti che altri non vedevano, il metronomo di una delle squadre tatticamente più complesse del mondo. Miles Jacobson, del gioco Football Manager, ha spiegato quanto sia complicato riuscire a stare dietro alle innovazioni del catalano: “è geniale, perché non ci abbiamo pensato? Perché noi non abbiamo il talento che ha lui.” (Fonte: FourFourTwo)
Henry dice che si tratti del cuore; dal mio punto di vista, invece, Rodri è il cervello del Manchester City: preciso, solido, per la squadra, sempre.
Dopo aver raccolto la palla dorata dalle mani di Weah, Rodri ha scandito alcune parole di ringraziamento. Queste, in particolare, colpiscono: “Sono un ragazzo normale, gentile con i miei compagni. Puoi avere successo anche essendo normale.”
Quando si dà inizio a una gara, si usa pronunciare una frase: che vinca il migliore. Non so cosa voglia dire, in senso assoluto, essere il migliore, ma questa volta ha vinto chi dà lustro, non solo a sé stesso, ma all’etica profonda di uno sport. E allora: viva il calcio, viva Rodri!
Di seguito tutti i premi della serata al Théâtre du Châtelet di Parigi:
Pallone d’Oro maschile – Rodri
Pallone d’Oro femminile – Aitana Bonmatí
Trofeo Kopa (miglior giocatore under 21) – Lamine Yamal
Trofeo Yashin (miglior portiere) – Damián Emiliano “Dibu” Martínez
Club dell’anno maschile – Real Madrid
Club dell’anno femminile – Barcellona
Allenatore dell’anno maschile – Carlo Ancelotti
Allenatore dell’anno femminile – Emma Hayes
Trofeo Gerd Müller (miglior marcatore) – Harry Kane e Kylian Mbappé
Premio Socrates (per l’impegno sociale) – Jennifer Hermoso
BIO: ILARIA MAINARDI
Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita.
Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema.
Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.
Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!