Sopra la nostra felicità per un risultato pieno e inatteso, sopra la verosimile emozione di Carlo Ancelotti, col cuore diviso tra le due squadre che più ama e che più gli hanno dato, come allenatore, c’è la tragedia di Valencia. Ancelotti ha ribadito che la Liga avrebbe dovuto sospendere la scorsa tornata di campionato. Sono d’accordo: non è vero e non è bene che debba sempre valere la retorica, di matrice assai capitalistica, dello show must go on.
Sul piano sportivo, invece, mettiamola così, usando un modo di dire un bel po’ ingeneroso verso chi di problemi ne ha molti e non li reputa così facilmente convertibili in altro: nei momenti difficili, lo stolto vede un problema, il saggio un’opportunità.
Perché, per sgombrare il campo da ogni equivoco e dai “ve l’avevo detto” a posteriori, che sono così facili, così innocui, il risultato del Bernabeu era tutto meno che scontato. Non lo era in assoluto, perché si trattava pur sempre di giocare in uno dei templi del calcio di ogni tempo e non lo era, a maggior ragione, vista la fiacca partita contro il Monza, coi tre punti agguantati per un nonnulla e relativo strascico di polemiche per le discutibili scelte arbitrali, in occasione del gol annullato degli avversari.
Del resto, rivangare i precedenti tra Milan e Real Madrid, che sono molti, poteva farci più male che bene, soprattutto se la si guardava in prospettiva: da una parte la nobile decaduta, il Milan, appunto, dall’altra il Real, con una proprietà solida, sempre in vetta, sempre a giocarsela con le più grandi, mai doma, con una panchina da far invidia alla formazione titolare della maggior parte delle altre contendenti al titolo. Un solo incrocio in finale, comunque, tra le undici giocate (fino a ora!) dal Milan: il 28 maggio del 1958, alle ore 18, la partita si disputò allo stadio Heysel di Bruxelles, lo stesso che, nel 1985, sarebbe diventato dolorosamente noto in occasione di un’altra finale, quella tra Liverpool e Juventus.
Quella volta finì per tre gol a due a favore degli spagnoli, ma, per avere il verdetto, i 67mila dell’Heysel dovettero attendere i tempi supplementari (era la prima volta che accadeva di sforare i novanta regolamentari, nella pur breve vita della competizione). Per il Milan di Giuseppe Viani, solo nono, quell’anno, in campionato, andarono a rete Schiaffino e Grillo, per le merengues decisero Di Stefano, Rial e Paco Gento, quest’ultimo a segno al minuto 107. In campo c’era anche Cesare Maldini.
A preoccuparci c’era inoltre la coazione a ripetere di certi modi di stare in campo, divenuti, a un certo punto, almeno nel grado di comprensione possibile per noi tifosi, quasi dei nefasti automatismi.
La situazione percepita in casa Milan, fino a poco prima del fischio di inizio di ieri sera e nei giorni precedenti, è ben rappresentata da un’azione di Rafa Leão, subentrato al sessantatreesimo a Noah Okafor, nella partita contro la squadra allenata da Alessandro Nesta: in mezzo a tre, quattro uomini, Rafa si divincola, salta, sfonda, con la potenza elastica di un dipinto di Francisco Goya. E poi… e poi niente, palla morbida tra le braccia di Turati.
Volendo essere pungenti, si sarebbe potuto usare il titolo di una commedia di William Shakespeare: “Molto rumore per nulla”. Ovvero, molto pressing – matto e disperatissimo, mutuando il concetto dall’Epistolario leopardiano, ma a sprazzi e completamente disorganizzato – per nulla. Purtroppo, dopo qualche intermezzo lucido, qualche buona prestazione complessiva (Inter, di certo, ma, dal mio punto di vista, anche Leverkusen), la squadra, nelle scorse settimane, si è sovente dimostrata involuta, senza schemi intelligibili e tesa alla ricerca della giocata personale che a volte arrivava, a volte no. E, quando arrivava, spesso culminava, come nel caso dell’azione citata poco fa, in una nuvola di fumo. Senza considerare che continuavano a sembrarci mancare le cinghie di connessione tra i reparti. Il risultato è che Morata, per fare l’esempio più eclatante, non si faceva quasi mai trovare in area di rigore perché era costretto a fare da connettore sulla trequarti. Anche qualche scelta – tattica, come più volte ha precisato Fonseca, in conferenza stampa? Punitiva, come dava l’idea di essere? Quién sabe – ci aveva convinti molto poco: lo spostamento del giovane e inesperto Terracciano da sinistra a destra, quando Calabria era tornato disponibile, l’esclusione eterna di un giocatore utile – nel senso proprio della parola, se si guardano le statistiche dello scorso campionato – come Luka Jovic (al di là della pubalgia che è subentrata in seguito alla sostanziale bocciatura settembrina); e poi, ovviamente, lui, Rafa, o meglio la gestione assai enigmatica di uno dei nostri giocatori più talentuosi. Un talento, il suo, magari parzialmente inespresso e incostante, ma evidente – ieri sera lo avranno notato anche i detrattori, presumo – e incontestabile.
Tuttavia, come si suol dire, se Atene piange, Sparta non ride. Non si tratta tanto della debacle contro il Barcellona – in questo senso ha detto bene Ancelotti, alla vigilia, rilevando come sia stata peggiore, dal punto di vista qualitativo e mentale, la gara contro il Lille – ma della brutta questione legata all’assegnazione del Pallone d’Oro. L’eco adesso si è smorzata, ma per alcuni giorni non si è parlato d’altro: una figuraccia, senza ombra di dubbio, come già abbiamo avuto modo di sottolineare. Ma c’è di più, un qualcosa di epidermico e che riguarda una sorta di connaturata disabitudine a perdere. È erroneo pensare che il più forte sia colui che vince sempre – erroneo e utopistico – perché la forza effettiva risiede casomai nella capacità con cui si è in grado di metabolizzare e reagire alla sconfitta. Florentino Pérez, invece di impuntarsi su pretese poco sensate e che non portano onore alla gloriosa tradizione del Real Madrid, farebbe bene a riflettere su questo punto. Certo, che i nemici storici della Catalogna – dietro questa inimicizia sportiva ci sono ragioni profonde, legate anche alla diversa collocazione nel periodo franchista – siano andati a espugnare la fortezza del Santiago Bernabéu sarà stato senza dubbio un boccone difficile da digerire, ma, come dicevo prima, perdere è qualcosa di naturale, di assai più comune del vincere. È il modo in cui lo si fa a marcare la differenza, a dare la misura dei campioni.
Ed eccoci quindi a ieri sera, al saggio Fonseca e a me, stolta, che già avevo decretato una disfatta perché sono una supereroina nella sottile arte del problem making.
Il Milan ieri ha sbagliato davvero pochissimo, per mentalità, temperamento e precisione. Anzi, preferisco pensare che abbia sbagliato qualcosa (per esempio l’ingenuità di Emerson sul calcio di rigore – sacrosanto, per dinamica – ottenuto da Vini Jr., mai pago di simulazioni e provocazioni) e abbia però saputo rimediare, perché pedagogicamente è molto più sano così. Ha giocato, di nuovo, da squadra, ciò che era mancato nelle sue partite peggiori (e ce ne sono state di davvero brutte, inutile nascondersi dietro un dito). Da “Molto rumore per nulla” a “Uno, nessuno e centomila” è un attimo! La formazione ci è stata presentata come un 1-4-2-3-1 virato all’1-4-3-3 – nel pre-partita si era parlato di un 1-3-4-3 – ma la costante da tenere presente è che le disposizioni tattiche contemporanee sono più simili a stormi in migrazione o, quando le cose vanno bene, e ieri sono andate molto bene, a macchie di Rorschach particolarmente complesse da decifrare: sono macchie, ma non sono solo macchie. Cosa sono? Così, la difesa, presentata a quattro – da sinistra, Hernández, in stato di grazia, Tomori, Thiaw ed Emerson Royal – era in realtà, quasi sempre, una saetta di cinque giocatori che tranciava il campo da parte a parte, non concedendo spazio per le imbucate dei rapidi esterni del Real. Musah – ottima partita la sua… una prestazione finalmente disciplinata – creava infatti, forte di compiti ibridi, un raddoppio posizionale con Emerson, facendo muro alle possibili incursioni di Vinicius. D’altro canto Pulisic e Fofana restavano morbidi, lambendo la zona che va dal centrocampo alla trequarti e lasciando libertà di movimento tra le linee a Reijnders, folletto confondente di classe e di tecnica e ormai anche molto preciso quando si tratta di andare a rete. Così facendo, ed è qui che si manifesta una buona dose di saggezza, Fonseca non ha avuto bisogno di chiedere a Leão di occuparsi della copertura: capace di scattare in qualunque momento, l’esterno portoghese costituiva una spina nel fianco per la compagine madrilena, orfana di Carvajal, principalmente se restava alto e rinunciava a coprire. Necessario spendere una parola anche per Álvaro Morata. Fischiatissimo dai tifosi di casa, il capitano della nazionale spagnola, per l’ennesima volta, ha dato prova di possedere qualità da leader calmo, un punto di riferimento che dà stabilità e sicurezza ai compagni, senza bisogno di sbracare. Presente ovunque, con enorme generosità, in fase di ripiegamento, di costruzione, di finalizzazione, ieri è arrivato, e non poteva succedere in un momento migliore, anche il gol.
Se il Real poteva contare, sulla carta, su ottime individualità, il Milan ha giocato come un’orchestra rodata e a tempo. Parola d’ordine: compattezza. E se un centravanti puro non c’è, perché non c’è, vorrà dire che tutti, all’occorrenza, saranno centravanti.
Non puoi avere la tua torta e mangiarla, dicono gli inglesi: la ciliegina sulla torta del Milan è Rafa. Il suo dribbling, parafrasando il film con Bruce Lee, terrorizza l’occidente: inutile pretendere da lui qualcosa che lo confonde e che, in definitiva, ne limita l’impatto, talvolta lo mortifica. La sinergia con un terzino di spinta come Theo – quando ha voglia, è tra i migliori al mondo – funziona a memoria: usiamo Leão per ciò che può dare, senza elucubrazioni teoriche sulla necessità di tutti i giocatori, a prescindere dal ruolo, di essere, come va di moda oggi, box to box.
Nessuno vuole sminuire l’impresa, ci mancherebbe. Va tuttavia rilevato che di fronte ci siamo trovati una squadra fantasma. Non è facile comprenderne la ragione – il Milan li ha spiazzati? Possibile, ma non così probabile – ma restano negli occhi gli stop a due metri, i passaggi imprecisi, la “svogliatezza” nella manovra, di solito lenta e impacciata. Sono tutti aspetti incredibili per una formazione che ha dalla sua una qualità tecnica sopraffina. Che l’arrivo della star Mbappé – uno dei grandi presenti-assenti della serata, insieme a Jude Bellingham – abbia finito per perturbare un equilibrio, invece di consolidarlo?
Insomma, una vittoria, questa, che ci voleva proprio, e non è un luogo comune.
Ma il Bardo ha sempre ragione, quindi festeggiamo, perché se lo sono/ce lo siamo meritati, dopo tanto tribolare, ma evitiamo di cantare vittoria troppo presto ché tanta è la strada che abbiamo ancora da percorrere: “Queste gioie violente hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo”!
REAL MADRID: Lunin; Vázquez, Rüdiger, Militão, Mendy (dal 74’, García); Valverde (dal 46’, Camavinga), Modrić (dal 63’, Caballos), Tchouaméni (dal 46’, Díaz); Bellingham (dal 74’, Goes); Mbappé, Vinícius Júnior. A disp.: González, Mestre; Fran García, Vallejo; Camavinga, Ceballos, Güler; Díaz, Endrick, Rodrygo. All.: Ancelotti.
MILAN: Maignan; E. Royal (dal 93’, Calabria), Thiaw, Tomori, Hernández; Fofana, Reijnders; Musah (dal 93’, Pavlović) , Pulisic (dal 70’, Loftus-Cheek), Leão (dal 78’, Okafor); Morata (dal 70’, Abraham). A disp.: Sportiello, Torriani; Calabria, Pavlović, Terracciano; Loftus-Cheek; Abraham, Camarda, Chukwueze, Okafor. All.: Fonseca.
Arbitro: Slavko Vinčić (SVN).
BIO: ILARIA MAINARDI
Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita.
Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema.
Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.
Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!
6 risposte
Grande vittoria nel giorno dell’anniversario della scomparsa di Pedro.
I Leoni armati stanno ancora marciando e il Vecchio Cuore batte ancora.
FORZA MILAN 🔴⚫
Hic sunt Leones
Forza Milan!
Solito encomiabile racconto di storia e cronaca Ilaria, complimenti!
Ricordo benissimo quella finale Milan Real Madrid del 1958. Avevo 10 anni e a quei tempi in tutto il condominio c’era un solo televisore e fortunatamente nella casa di Corrado, un mio compagno di classe. Eravamo una quindicina di maschietti stipati in tre poltrone in pelle assieme al capofamiglia, solenne pipa fumante alla Maigret, di fronte ad un nuovissimo tv b/n con il mobile in radica di noce e dei supplì filanti che la signora di casa aveva appena sfornato… ma che tempi!!! Si perse ma eravamo ugualmente pieni di allegria che in fondo in fondo è il vero sale della vita!
Grazie per avermi ricondotto a quella giornata indimenticabile.
Un caro saluto.
Massimo 48
Grazie mille, Massimo! E grazie anche per aver condiviso questo bell’aneddoto di un calcio lontano, ma che ancora ci evoca ricordi e suggestioni.
Uno dei migliori commenti in assoluto che ho potuto leggere su questo stupendo blog di Filippo. E chiamarlo commento è davvero riduttivo, forse meglio considerarla una vera lezione di narrativa applicata al calcio! Applaudo convinto lo stile e soprattutto ammiro il contenuto sul quale anche nei dettagli mi trovo assolutamente rispecchiato. E anch’io penso che sua doveroso prendersi una bella serata da pazza gioia e spumante perché è stata una serata che comunque entra nella nostra storia. Ma da domani rimettiamoci con molta razionalità a seguire questo Milan che difficilmente potrà aver perso improvvisamente tutti i limiti di squadra e individuali mostrati fin qui. Quindi torniamo con i piedi per terra e speriamo che una bella dose di autostima possa servire a fare i miglioramenti indispensabili per raggiungere obiettivo importanti. Forza Milan e complimenti Ilaria!
Grazie mille, Mirko, per questo stupendo e generoso commento! Sono davvero contenta che il pezzo ti sia piaciuto!