LIBERI? SI…MA DI PENSARE E DI SCEGLIERE

Negli ultimi tempi le discussioni calcistiche risultano sempre più infarcite di anatemi contro la poca libertà di esprimersi sul campo di cui godrebbero i calciatori in Italia.

Sta crescendo in maniera esponenziale il consenso nei confronti di una corrente di pensiero secondo cui lo scarso numero di giocatori “importanti” presenti nel nostro paese andrebbe ascritto ad un eccesso di schematizzazione e di oppressione tattica nella formazione dei giovani talenti.

Ad avviso di molti opinionisti ed addetti a lavori, nei campi dei settori giovanili si dà troppa importanza alla tattica e si tende a limitare l’espressione della fantasia delle ragazze e dei ragazzi.

Coloro i quali puntano il dito contro la mancanza di libertà ci tengono a far sapere, in ogni occasione loro consentita, che i grandi campioni del passato provenivano calcisticamente da situazioni diverse.

Che un tempo sin da bambini si giocava per strada, all’oratorio, nei campetti e si era liberi di esprimersi.

In contesti così poco ordinati, e poco inclini allo schema, la libertà di gioco aveva il sopravvento ed il talento cominciava a formarsi.

Dopo di che traslare il concetto dai settori giovanili al calcio professionistico è naturale tanto che qualcuno è arrivato ad affermare con convinzione che la Spagna ha trionfato all’Europeo perchè i suoi protagonisti erano liberi di giocare, senza l’assillo dei movimenti sincronizzati.

Ma cosa si intende per essere “liberi di giocare”?

Siamo davvero sicuri che nelle partite che da bambini organizzavamo per strada, all’oratorio od in qualsiasi spazio (magari con i pali delle porte approntati come capitava) vi fosse libertà di espressione?

Proviamo ad andare per gradi.

Partiamo dal dribbling, elemento basilare dell’inflazionato e opinabile concetto di “uno contro uno”.

Tentare un dribbling sull’asfalto o sul cemento è tutto fuorchè un gesto che si compie in libertà.

Rappresenta una condizione estremamente restrittiva poichè un’eventuale caduta a terra provocherebbe escoriazioni, abrasioni e dolore.

La scaltrezza, la coordinazione, la capacità di sfuggire al proprio avversario e l’equilibrio del corpo nel non perdere il pallone si rafforzano e migliorano, di volta in volta, proprio per l’esigenza di non cadere a terra. Se si gioca sull’asfalto la libertà di movimento risulta giocoforza limitata dalla necessità di non dover cadere ed è questo che fa migliorare il gesto tecnico.

E’ l’impedimento (ossia la mancanza di libertà) che induce a velocizzare il movimento e/o ad ottimizzare il tempo di gioco, non viceversa.

Non solo ci si deve porre l’obiettivo di dribblare il diretto avversario ma anche di non subire un eventuale intervento falloso poichè una caduta sul cemento o su una superficie pesante potrebbe comportare menomazioni dolorose.

Lo stesso dicasi per il modo di calciare.

Tanto più si gioca in condizioni disagiate (e non libere) tanto più possiamo approntare modi diversi di colpire la palla.

Alcuni gesti tecnici peculiari con cui i calciatori di origine brasiliana trattano la sfera (interno dal basso verso l’alto, calcio a tre dita ecc.) sono frutto della circostanza secondo cui, da piccoli, la situazione economica delle loro famiglie costringeva loro a calcare terreni pericolosi, talvolta a piedi nudi, con il pericolo di sfregiarsi nel momento in cui colpivano la palla.

Emblematica, da questo punto di vista, la rete siglata da David Luiz contro la Colombia in occasione dei quarti di finale della Coppa del Mondo 2014.

Nell’occasione, l’aver battuto un calcio di punizione diretto calciando con l’interno piede, per quanto il gesto risulti anomalo, trae origine dall’esigenza di non impattare il collo piede al terreno nel momento in cui, da giovane, era costretto a giocare senza scarpe.

Anche in questo caso è l’elemento privativo della libertà a condizionare il gesto.

Altro motivo di sdegno da parte dei “libertari” della formazione calcistica, è il continuo rifarsi all’idea secondo cui, quando si giocava “con le sponde”, i ragazzi sviluppavano i riflessi e capivano in anticipo dove la palla sarebbe finita grazie alla libertà loro concesso dall’uso della sponda.

In realtà, giocare con le sponde presuppone tutto tranne una situazione di libertà considerato come immetta nel gioco un elemento fisso che, per quanto sfruttato a vantaggio di chi è in possesso della sfera e dagli effetti imprevedibili, esula dalla libertà dei calciatori.

Senza considerare come anche la precisione nel tiro, nelle partitelle che in passato si organizzavano tra amici, veniva affinata grazie alla poca libertà concessa. Non era, infatti, inusuale che al momento di battere a rete i ragazzi dovessero stare attenti alle finestre delle palazzine vicine, alle macchine che transitavano, ai passanti.

Tutte circostanze limitative e privative che imponevano assoluta precisione al tiro.

E che dire riguardo all’utilizzo del termine “veneziano” nei confronti dei calciatori che eccedono nel dribbling e sono poco inclini a dialogare con i compagni?

Detta espressione trae origine dal fatto che i ragazzi che giocavano a Venezia limitavano al massimo i passaggi per il timore che la palla finisse nei canali. Affinavano così l’abilità nel dribbling grazie ad una situazione di disagio logistico.

Quanto sopra, dimostra come a migliorare il talento non sia tanto la “libertà” concessa ma le privazioni situazionali della stessa.

C’è davvero qualcuno convinto che gli spagnoli abbiano trionfato al campionato europeo perchè lasciati “liberi” di agire?

La libertà che dev’essere perseguita è quella di pensiero.

Il compito dei formatori è quello di indurre le giovani calciatrici e i giovani calciatori a risultare “libere e liberi” nel momento in cui saranno chiamate/i ad opzionare la scelta in campo.

La buona abitudine di allenare “in situazionale” ovvero cercando di riprodurre, per quanto possibile, le situazioni che i ragazzi troveranno nel corso della gara, non dev’essere intesa come un esercizio in cui ognuno fa come gli pare.

Certo che a lasciare i calciatori liberi di muoversi a proprio piacimento quelli da giovani più dotati sapranno elavarsi e dominare il gioco ma, se mantenuti in questa condizione, arriverà un momento in cui troveranno un avversario più forte di loro e/o, completato il processo di crescita, incontreranno pari grado a loro volta formatisi rispetto ai quali non riusciranno più ad elevarsi come capitava qualche tempo addietro.         

Si spiega così il sempre più frequente fenomeno di giovani che all’età di quinidici-sedici anni fanno la differenza e, a distanza di poco tempo, lasciano il calcio perchè intristiti e demoralizzati dal vedere che non riesce più loro quello che prima gli veniva semplice.

E’ il pensiero calcistico che deve rincorrere la libertà.

Non l’esecuzione del gesto tecnico.

Il giocatore sarà tanto più libero quante più conoscenze avrà ricevuto in dono.

E non lo sarà secondo il rapporto alunno-docente di stampo scolastico, in seno al quale il primo riceve nozioni da apprendere, ma grazie ad una corrispondenza biunivoca che porta anche l’allenatore ad ereditare informazioni dai propri calciatori da rielaborare di volta in volta.

Non c’è libertà senza conoscenza.

Vale nella vita ed anche nel calcio.

L’espressione della libertà, e con essa la valorizzazione del talento, avverrà nel momento in cui il calciatore sarà posto nella condizioni migliori per opzionare la scelta corretta in modo tale che la squadra valorizzi il singolo e viceversa.

Concetto, si badi bene, totalmente diverso da quello di esecutore quale ingranaggio di una squadra che gioca a memoria.

Non è nel Barcellona che Messi è diventato Messi?

Non è con Guardiola che Xavi ed Iniesta hanno elavato all’estremo le loro prestazioni?

Saper scegliere è il vero punto d’arrivo di un percorso atto a rendere liberi i calciatori.

Se si gioca a memoria non si è liberi perchè si è indotti a muoversi su un binario definito dal quale è facile uscire nel momento in cui una variabile si mette di traverso

Tante sono le variabili nel calcio che rendono ogni situazione di gioco diversa da un’altra.

Tanto più si è liberi quanto si è nella condizione di affrontarne il maggior numero possibile.

Alessio Rui e Filippo Galli

BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.

Una risposta

  1. Non c’è libertà senza conoscenza, così come nel calcio e nella vita
    scambio reciproco di informazioni fra giocatore ed allenatore
    sono carezze al cuore di chi allena e per chi riceve la fortuna di essere preparato al calcio e alla vita, avendo questa sensibilità e conoscenza
    grazie come sempre

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