Ci sono alcune ragioni pratiche – l’aria calda e umida viene risucchiata verso l’alto dal sistema temporalesco, creando una zona di calma relativa vicino al suolo – e altrettante simboliche, dietro la nota espressione “quiete prima della tempesta”. In generale, quella che definiamo quiete è più l’attesa dell’indefinito, quel momento, simile all’infanzia, in cui tutto potrebbe essere, ma ancora non è (e forse non sarà).
Per il Milan, in questa fase del campionato e del percorso in Champions League, vale un principio, in un certo senso, analogo: siamo fermi, un attimo prima di qualcosa che non sappiamo ancora definire perché potrebbe corrispondere al definitivo consolidamento dei principi tattici di Fonseca oppure virare verso una delusione con relativi ripensamenti a posteriori e aggiustamenti in corsa. Siamo di nuovo al crocevia. Lo siamo a ogni partita e questo comincia a essere “preoccupante”: abbiamo di fronte una tempesta o sta per uscire l’arcobaleno? I dati sono molti e sono mutevoli e anche se, in analogia con i fast-food, ci piacerebbe avere fast-answer per ogni cosa – ormai davvero, ahimè, per ogni cosa – a dispetto di chi confonde la chiarezza d’analisi con la banalità, be’, non lo sappiamo. Possiamo fare alcune ipotesi, mai ipotesi definitive, comunque, anche per il semplice fatto che la nostra conoscenza di dinamiche e situazioni (e delle condizioni dei giocatori: ma davvero Jovic, convocato in nazionale, non può giocare per il suo club?) è minima e filtrata dalle evasive dichiarazioni societarie.
Ci sono stati eventi, nella storia del pallone, che rendono tragicamente evidente il detto citato poco fa. Nel 1958 il Manchester United volava sia in campionato – non ancora Premier League – sia in Coppa dei Campioni – ben lungi dall’essere chiamata Champions League – nonostante l’ostracismo della Football League: lo scozzese Matt Busby era un visionario ed era stato capace, con l’aiuto del fidato Jimmy Murphy, di assemblare una squadra di giovanissimi talenti, spesso scovati in luoghi in cui oggi troveremmo distese di asfalto o il parcheggio di qualche centro commerciale. Ovunque ci fosse un pezzo di terra per poter giocare a calcio, lì era il posto giusto per la caccia. Nacque la leggenda dei Busby Babes, i ragazzini di Busby, una leggenda destinata a finire in tragedia dopo il pareggio, per 3 a 3, in un luogo che anche ai tifosi milanisti evoca sinistri ricordi, presagi frastornanti, fitti come una coltre di nebbia che non permette di vedere a un palmo dal naso: Belgrado.
La vittoria all’Old Trafford garantiva l’approdo in semifinale e c’era da sbrigarsi a tornare in patria perché la partita successiva sarebbe stata disputata contro il fortissimo Wolverhampton, la squadra con l’impianto di illuminazione migliore di tutto il regno. La lega non ammetteva ritardi sulla tabella di marcia, pena una multa salata e la penalizzazione del club. A giocare quel match, come è noto, i Babes non sarebbero mai arrivati: l’aereo della British Airways sul quale la squadra e alcuni accompagnatori, fra cui dei giornalisti, stava viaggiando, si schiantò, probabilmente a causa di condizioni meteo che avrebbero dovuto far optare per una scelta più prudente, al terzo tentativo di decollo, presso lo scalo aeroportuale di Monaco-Riem. Tra i quarantaquattro passeggeri a bordo del velivolo, ventitré morirono sul colpo: otto erano giocatori dei Red Devils (tra i sopravvissuti, c’era Bobby Charlton, scomparso poco più di un anno fa).
Nicola Roggero, nel suo splendido testo, Premier League, edito da Rizzoli, ricorda anche la morte, dopo due settimane dall’incidente, di Duncan Edwards, talentuoso mediano-tuttocampista, scoperto a Dudley, in provincia – vedi che scherzacci, il fato – di Wolverhampton. Pare che, già delirante, abbia pronunciato una frase che, a leggerla oggi, e a sentirla al tempo, per il povero Jimmy Murphy, fa rabbrividire: «a che ora si gioca sabato? Sarò pronto.»
Ci sono poi dei fatti, prima della (di una) tempesta, che non hanno nemmeno lontanamente la portata della tragedia di Monaco. Sono fatti piccoli, magari gloriosi, ma piccoli, minuscoli, se paragonati all’accanimento del destino contro una squadra di giovani fenomeni. Tuttavia sono circostanze che un tifoso milanista ha piacere a rievocare, quando capita. Si tratta, per esempio, della finale tra Milan e Juventus nel 2003, prima finale di Coppa dei Campioni/Champions League tra due squadre italiane (e con tre semifinaliste, compresa l’Inter). Si giocò il 28 maggio all’Old Trafford, proprio lo stadio del Manchester United, e fu vinta ai rigori – di Shevchenko, quello decisivo – per 3 a 2, dai rossoneri. La Juventus, in quell’occasione, non aveva potuto schierare il giocatore che, nel bene e nel male – così si disse, con una leggera vena dispregiativa nei confronti dei vincitori – ne determinava le sorti: Pavel Nedvěd, squalificato per somma di ammonizioni dopo la semifinale contro il Real Madrid. Peraltro il giocatore vinse, proprio quell’anno e non senza un lungo – lungo, lungo, eh – strascico di polemiche da parte di chi avrebbe preferito che il premio fosse andato a Thierry Henry, il Pallone d’Oro.
La quiete prima della tempesta, appunto, quella di Offside, della Procura di Napoli, seguita dalla buriana di Calciopoli. Sono passati vent’anni e il campionato italiano ha provato, con alterne fortune, a ritrovare la propria credibilità sulle piazze internazionali. Di certo, anche negli anni successivi a quel non così imprevedibile tumulto, non sono mancati episodi controversi, uno su tutti il celeberrimo gol di Sulley Muntari, nella stagione 2011/’12, precisamente in un Milan-Juve del 25 febbraio 2012. L’episodio, arcinoto, è clamoroso per l’evidenza con la quale la palla aveva oltrepassato la linea di porta, nonché per una risposta, forse umana, ma sportivamente assai infelice, di Gigi Buffon a Ilaria D’Amico, durante le interviste post-partita. Grossomodo suonava come un: se anche mi fossi accorto che il pallone era dentro, non lo avrei fatto presente. L’accadimento rimane ancora più emblematico perché sembra rappresentare come una sliding door,sia per la Juventus, sia per il Milan: da una parte una squadra, i bianconeri, che si avviano a vincere il campionato e a ritrovare, almeno su scala nazionale, un’ottima continuità di prestazioni e dall’altra, i rossoneri, ormai in bilico, denotati da un’identità frastagliata e poco riconoscibile, o più precisamente, come avrebbe magari sferzato Ennio Flaiano (e come titola la bella autobiografia di Vittorio Gassman), “con un grande avvenire dietro le spalle”.
Nel frattempo, sono cambiati allenatori e assetti societari e, a oggi, sia Milan che Juventus, entrambe con un nuovo mister, hanno la necessità di ritrovare una strategia convincente e di consolidare, anche dal punto di vista dei risultati, la propria posizione (ché, se si vuole essere big, non si può credere davvero che basti puntare al quarto posto). Messa poco meglio, almeno per quanto concerne la classifica, la squadra allenata da Thiago Motta: una sola posizione e una manciata di punti – l’una è sesta, l’altra settima, alla vigilia, con le prime cinque racchiuse in tre punti: finalmente un campionato aperto! – la dividono dal Milan che deve tuttavia ancora recuperare la partita contro il Bologna.
A poche ore dal match, si segnala l’indisponibilità parziale di Christian Pulisic, in panchina e subentrato nel secondo tempo, mentre già nota da giorni era l’assenza del centravanti juventino, Dusan Vlahovic. La Juventus ha provato a risolvere con la coppia McKennie, in special modo, e Koopmeiners, a contendersi l’area piccola. Con un certo rammarico tocca anche fare presenti le parole rilasciate alla Gazzetta.it da Aldo Kalulu, fratello di Pierre. Pare infatti che il difensore francese, ieri pomeriggio tra i migliori in campo, sia rimasto deluso dal comportamento della società rossonera nei suoi confronti e che ritenga assai improbabile un futuro insieme: un vero peccato (non il solo, lo sappiamo, ma tant’è). Allo stesso modo, resta piuttosto freddo – per quel che è emerso dalla stampa – il trattamento riservato a Davide Calabria, ragazzo cresciuto nelle giovanili del Milan e nostro ex capitano: salvo colpi di scena, a giugno sarà addio. È lecito avere il proprio parere sul giocatore e sulle sue potenzialità – come è lecito chiedersi in quale fondamentale del buon terzino Emerson Royal si sia dimostrato, al momento, superiore – ma ritengo che una grande squadra possa tornare a essere una squadra grande solo se re-impara a trattare con le persone (che mi rifiuto di chiamare con la orrenda locuzione di “capitale umano”). Esempi recenti e meno recenti indicano piuttosto una spersonalizzazione degli individui che diventano monte ingaggi e plusvalenze: potrebbe essere questa una delle chiavi di lettura applicabili alla prestazione di ieri che, come ci è noto, non è un unicum, ma una coazione a ripetere un po’ sfiancante?
Chi lo sa. Fonseca, molto meno ecumenico di Thiago Motta (ma la prospettiva dell’allenatore bianconero è chiaramente diversa perché, tanto per dire, giocava fuori casa), non ha usato giri di parole, quando ha parlato di una partita affrontata con poco coraggio. È anche questa una prospettiva da tenere presente, ma legata a qualcosa che quel coraggio lo possa a un certo punto costruire, al contrario di ciò che affermava Don Abbondio nei Promessi sposi.
Idealmente il Milan si dispone in campo con un 1-4-2-3-1, ma lo schema tattico prevalente assomiglia di più a una sorta di 1-4-4-2 con, in un primo momento, Reijnders esterno a sinistra, Musah a destra (ma molto più bloccato di quanto probabilmente sarebbe servito), in aggiunta a Ruben Loftus-Cheek, giocatore a cui manca purtroppo la creatività tipica del trequartista, e Fofana che giocano centrali. Leão si presenta quindi come punta aggiuntiva, meno vincolato alla fascia e più sganciato in mezzo al campo, rispetto alla non-punta, Morata.
Con l’ingresso (tardivo, verrebbe da dire, vista la qualità e persino la quantità espressa in pochi minuti) di Pulisic al posto di Loftus-Cheek, sarà l’americano a collocarsi a sinistra, con Reijnders che scala verso il centro. Dico non-punta, parlando di Álvaro Morata, perché uno dei problemi – non il solo, ma uno dei più eclatanti – della nostra rosa è l’assenza di un vero centravanti.
Ci sarebbe Abraham, ma non pare avere asceso nella gerarchia dell’allenatore. Si può giocare, nel calcio contemporaneo, senza un centravanti puro? Certo, ma sempre rispettando la regola basilare di questo sport: vince chi segna un gol in più dell’avversario.
La partita di ieri, che non è un prototipo, senza dubbio, ma fa statistica, ci dice che, se il Milan ha una fase difensiva talvolta pasticciona – ieri un buon tentativo nel trovare la quadra con la coppia di centrali difensivi, Thiaw e Gabbia – la fase offensiva sembra persino più rigida, specie se si hanno di fronte squadre chiuse come la Juventus. Perché è vero che ci hanno superato nel palleggio e nella capacità di trovare spazi, ma è anche abbastanza inconfutabile come la squadra che è scesa in campo, cercando in prima istanza un pareggio, sia stata proprio quella bianconera. Asserragliarsi dietro e ripartire è una strategia che può pagare, in base agli obiettivi specifici che si hanno di volta in volta, ma non è sinonimo di “giocare in venti metri”, abilità che caratterizza piuttosto l’Arsenal di Arteta, nelle sue partite migliori.
Dobbiamo tuttavia essere onesti: il Milan non ha costruito quasi nulla e i cross in area erano prediche nel deserto, proprio a causa del fatto che Morata, impagabile e incriticabile, perché presente in fase di costruzione, di copertura, di rifinitura, non può mai essere nel luogo dove si creano la maggior parte delle azioni da gol, in area di rigore, appunto. E a mio avviso imbrigliare Rafa non è mai una buona idea: abilissimo nell’ 1 vs 1, la sua fisicità, che non è quella brevilinea di Conceição, si esalta nella rincorsa e non nella minuzia del microgesto tecnico.
Una partita timida, contratta, per certi versi paurosa, quella del Milan, ma per paura di chi? Questo potrebbe essere un punto. Perché ci sono ruoli, inutile nascondersi dietro il proverbiale dito, nei quali servirebbe un urgente rinforzo, nonostante il D.T. Moncada abbia chiarito in una recente intervista che a gennaio non ci sarà mercato: scelta quantomeno curiosa. Eppure a volte i ragazzi sembrano congelati da qualcos’altro, qualcosa che prescinde dagli avversari e dagli schemi, tra l’altro, non di rado, poco intelligibili, per chi guarda la partita.
Talvolta appaiono tali e quali a dei funamboli che temono di fare il passo successivo sulla corda tesa perché sanno che sotto di loro non c’è una rete di protezione abbastanza solida a salvarli dal richiamo dalla forza di gravità…
MILAN (1-4-2-3-1): Maignan; E. Royal (dall’84’, Calabria), Thiaw, Gabbia (dall’84’, Pavlović), Hernández; Fofana, Reijnders; Musah (dall’80’, Chukwueze), Loftus-Cheek (dal 70’, Pulisic), Leão; Morata. A disp.: Raveyre, Sportiello; Calabria, Pavlović, Terracciano, Tomori; Pulisic; Abraham, Camarda, Chukwueze, Okafor. All.: Fonseca.
JUVENTUS (1-4-2-3-1): Di Gregorio; Savona (dal 91’, Danilo), Kalulu, Gatti, Cambiaso; Locatelli, Thuram; Conceição (dall’80’, Weah), Koopmeiners, Yıldız (dal 91’, Mbangula); McKennie (dall’80’, Fagioli). A disp.: Perin, Pinsoglio; Danilo, Rouhi; Fagioli; Mbangula, Weah. All.: Thiago Motta.
Arbitro: Chiffi di Padova.
BIO: ILARIA MAINARDI
Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita.
Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema.
Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.
Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!
Una risposta
Eccellente commento! Complimenti davvero a Ilaria! Come sempre una semplice partita di calcio può diventare un’opportunità di fare storia e cultura e non solo in senso sportivo. Ilaria ha scritto qualcosa di più .
Bello specifico del match di ieri…che delusione.
Era il Milan a dover fare di più, per la situazione in classifica e per le assenze bianconere , in particolare quella di Vlahoivic.E anche se questo ha orientato Motta ad uno schieramento più difensivo l’atteggiamento del Milan doveva essere più coraggioso.
Poi ogni volta tornano i limiti tecnici dei giocatori. Emerson Royal è davvero impresentabile. E mi fermo qui perché ha già detto tutto Ilaria.
Un ultima nota….il giubbotto di Fonseca. Anche un questi dettagli facciamo davvero ridere.
Forza Milan, la tempesta non è ancora arrivata…ma copriamoci bene!