Nel calcio, si sente spesso parlare di “sacrificio”, un termine che racchiude impegno, dedizione e rinunce. Tuttavia, questo concetto viene troppo spesso travisato o svilito. È bene allora mettere ordine e chiamare le cose col loro nome, con la chiarezza che il gioco più bello del mondo merita.
Talento senza sacrificio: la parabola spezzata
Quanti calciatori, baciati da un talento purissimo, hanno buttato via carriere che promettevano gloria eterna? Cassano e Balotelli sono due esempi lampanti. Il primo dotato di genialità senza eguali, il secondo di capacità balistiche più uniche che rare. Doti innate, eppure accompagnate da un’indolenza cronica, da una mancanza di quella fatica quotidiana necessaria per sostenere il peso del talento. Non basta saper dipingere: bisogna saper resistere al pennello, alla pressione della tela, e accettare di rifare lo stesso quadro ogni giorno. Cassano e Balotelli hanno incantato per frammenti di stagione, lampi troppo brevi nel temporale del calcio moderno. E il risultato? Rimpianti e una lunga ombra di “potevano essere”.
Il sacrificio dei campioni: una lezione di ferro e sudore
Poi c’è l’altra faccia della medaglia: quella dei professionisti esemplari, gente che ha fatto del sacrificio un credo, un’etica incrollabile. Franco Baresi, Paolo Maldini e Mauro Tassotti: non solo simboli del Milan, ma esempi universali di dedizione assoluta. Sin da ragazzi hanno capito che il talento non basta. Hanno lavorato con umiltà, sudato ogni conquista e mantenuto una longevità invidiabile. I trofei sono stati la naturale conseguenza di un impegno quotidiano, fatto di rinunce e disciplina. Un trittico di difensori iconici che è il prototipo del sacrificio elevato all’arte: sempre al massimo, mai una polemica fuori posto, mai un cedimento alla vanità.
Il sacrificio non è un insulto
E qui veniamo alla retorica spicciola, quella che pretende di svilire il sacrificio dei calciatori con frasi del tipo: “Il sacrificio lo fa chi lavora in fabbrica, non certo chi gioca a pallone”. Verissimo: chi lavora in fabbrica merita rispetto assoluto e sarebbe irriguardoso svilire un mestiere. Ma è altrettanto vero che il termine “sacrificio” non è un lusso concesso a pochi. Esiste in ogni ambito in cui ci sia impegno, fatica e rinunce. Molti calciatori hanno raggiunto i massimi livelli proprio perché hanno lavorato sodo, resistendo alle lusinghe della strada o all’indolenza. Quanti, al contrario, hanno dovuto ripiegare su lavori più duri e meno gratificanti perché non hanno saputo cogliere l’occasione? Stigmatizzare l’uso del termine “sacrificio” in questo contesto è una semplificazione superficiale, spesso dettata da invidia o rancore.
Spesso si ode il dire che chi calcia il pallone sia semplicemente baciato dalla sorte, poiché trova agi e ristoro per sé e per la famiglia. E già un giovinotto che calchi i campi di un vivaio viene tacciato di ventura. Visione assolutamente superficiale! Non fu certo il medico a ingiungere la via del settore giovanile, per giunta in un club professionistico: una scelta che, per chi viene da lontano (di solito dai 14 anni in su), comporta già un precoce assaggio delle fatiche adulte. Si tratta di determinazione, altro che fortuna. Non è propriamente un sacrificio, ma nemmeno un “gioco da ragazzi”.
Sacrificio: il filo rosso che unisce
Sacrificio è una parola sacra, che unisce chi suda sui campi di calcio e chi lavora in fabbrica. È lo sforzo continuo per dare il meglio di sé, indipendentemente dall’ambito. Ridicolizzarlo nel calcio è un errore, perché senza sacrificio non esistono campioni, e senza campioni non esiste il calcio che tanto amiamo.
D’altronde, lo sappiamo bene: il talento, da solo, è come un cavallo senza briglie, incapace di arrivare lontano. Non basta nemmeno per varcare la soglia del calcio professionistico. E qui entra in gioco la resilienza, nell’accezione vera del termine, non secondo l’evoluzione del linguaggio comune. Si tratta di un concetto nato negli anni ’50 grazie allo psicologo americano Jack Block, ma definito con precisione di recente dal pedagogo spagnolo Oscar Chaptial Colchado: «La resilienza è la capacità di un individuo di attivare risorse biologiche, psicologiche e sociali per resistere, adattarsi e crescere di fronte al rischio, creando un risultato positivo per sé e per la società». Un’arte più che una scienza, che distingue chi riesce davvero a lasciare il segno.
La resilienza, nell’accezione oggi tanto decantata, viene sovente interpretata come un “mi piego ma non mi spezzo”. Tuttavia, nel piegarsi, troppo spesso si abdica a valori, pensieri e convinzioni, sacrificati sull’altare di un ruolo o di un posto da conservare. Così, questo termine nobile, carico di forza e resistenza morale, si contorce in un significato ben diverso, quasi svilente: un’espressione che sembra giustificare la resa silente e l’adattamento servile. Sarebbe opportuno prendere le distanze da tale interpretazione, che non esalta più l’indomita capacità di rialzarsi, ma scivola verso una forma subdola di autocompromissione.
Si tratta, al contrario, di quello spirito indomito che emerge nei momenti più bui, quando la vita ti mette davanti a un bivio. Prendiamo un calciatore brasiliano, di quelli che nascono nei sobborghi e sognano il grande salto: notato da una big, si sobbarca 3-4 ore di autobus al giorno solo per allenarsi. Una storia che il calcio ci ha consegnato più volte, tra chi ha scelto di stringere i denti ed è diventato una stella e chi, piegato dalla fatica, ha lasciato il pallone per un lavoro manuale, dignitoso ma lontano dai riflettori. E poi ci sono i talenti spezzati dagli infortuni, proprio quando il sogno sembrava a portata di mano. A quel punto, la scelta è chiara e crudele: combattere per tornare più forti o lasciar perdere, con una stretta al cuore che sa di resa.
Ai massimi livelli, non c’è spazio per la resa. Nemmeno per i più grandi. Maradona, Messi, Ronaldo, Cristiano Ronaldo, Pelé: il loro talento è indiscutibile, quasi divino, ma non basta. Anche loro hanno dovuto attraversare tempeste, cadere e rialzarsi con una resilienza che li ha resi leggendari. Prendiamo Pelé: nel 1966, il Brasile sembrava alla deriva, eliminato al primo turno, e lui infortunato, dato per finito. Ma quattro anni dopo, a 30 anni, “O Rei” ha conquistato un altro Mondiale, dominando come un sovrano. O Maradona: ventenne, giocava con una caviglia a pezzi. Eppure, da quelle stagioni difficili, è emerso come il padrone del calcio. Questo è il segreto dei grandi: non solo il talento, ma il cuore e la forza di non arrendersi mai.
BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.
2 risposte
“D’altronde, lo sappiamo bene: il talento, da solo, è come un cavallo senza briglie, incapace di arrivare lontano.” Parole Sante Vincenzo! Gran bell’articolo, lo condivido in pieno.
Buona giornata
Massimo 48
Dal latino: sacrificare, composto da sacrum (azione sacra) e -ficium (per facere fare). Platone nell’Eutifrone, è quello di un «dono agli dei»: il sacrificio è cioè un rito con il quale l’uomo stabilisce un rapporto con la divinità mediante l’istituto del dono.
In psicologia, Immolare, offrire in sacrificio la propria vita o un proprio interesse morale e materiale per il bene della patria, della società o di altri, per una fede o un ideale, o anche trascurare le proprie esigenze, i proprî interessi materiali e morali a vantaggio altrui.
Appare evidente che “sacrificarsi” è tutta altra cosa rispetto a ciò che fa il calciatore per arrivare al successo, che come giustamente metti in evidenza nell’articolo, viene spesso banalizzata. Certo, impegno, abnegazione, dedizione, dolorose rinunce, ma per ottenere un personale vantaggio. Nulla di eroico o di poetico, ma solo una grandissima azione di ” resilienza “, e su questo sono assolutamente d’accordo.