Ringrazio Filippo Galli, campione e amico, sempre e per sempre, per donarmi questo spazio nel suo prestigioso blog, dove il calcio trova la sua accogliente casa. Una casa fatta di memorie e di storie e di critiche (costruttive). Filippo, con molta generosità, ha molto apprezzato il mio ultimo romanzo, dedicato alle ragazze e ai ragazzi, ma anche agli adulti: “Eravamo piccoli Pelé”, prefazione di Alessandro Di Nuzzo, Aliberti JUNIOR.
È una storia che parla dei nostri tempi e di quelle lunghe stagioni di quando eravamo noi italiani a partire, in lunghi viaggi in nave, terza classe, verso l’infinito, alla scoperta, tra nostalgia e speranza, di terre che rappresentavano una suggestione, un’ipotesi, una salvezza, nel contesto di un’avventura decisamente salgariana.
Io dico sempre di essere, con orgoglio, nato in Brasile, a San Paolo, figlio nipote e pronipote di emigranti veneti. I primi a partire furono, da Santa Maria di Sala, nel veneziano, i miei bisnonni, con mio nonno bambino, alla fine dell’Ottocento verso i campi verdi del Minas Gerais e, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ecco prendere la via brasiliana i miei genitori, con mio fratello Lamberto, zii e nonni: destinazione San Paolo, la Milano del Sudamerica. Io nasco nel quartiere Cambuci il 18 settembre del 1955. In quello stesso giorno, mese e anno debutta nella nazionale brasiliana, contro il Cile, a Rio de Janeiro, Mané Garrincha, “l’angelo dalle gambe storte”, il fuoriclasse che sapeva interpretare il canto dei passerotti, l’eroe tragico che regalò allegria e consapevolezza ai poveri, agli emarginati e agli invisibili delle favelas.
Scrisse di lui Edilberto Coutinho: “Perché lo scrittore scrive sempre delle sue passioni. E l’uso che in certi casi le dittature fanno del calcio non invalida il gioco, la forza magica della sua bellezza e della sua emozione, che continuano a prevalere. Perché il calcio, come la letteratura, se ben praticato, è forza di popolo. I dittatori passano. Passeranno sempre. Ma un gol di di Garrincha è un momento eterno. Non lo dimentica nessuno”. Giocavo per strada con miei coetanei, che erano ebrei mulatti musulmani giapponesi. Non importava il colore della nostra pelle o la religione dei nostri genitori. Eravamo bimbi, semplicemente felici, che dietro a quel pallone o a quell’aquilone inseguivamo la vita. E quegli anni della mia infanzia mi hanno insegnato, subito, con chiarezza, che esiste una cosa stupida e assurda nel mondo: il razzismo.
Ecco: “Eravamo piccoli Pelé”, racconta di emigrazione e di coraggio: una piccola squadretta “a cinque”, composta dal portiere, dalle radici italiane, Giovanni (il narratore, che oggi ha sessant’anni e rievoca questa vicenda alla sua nipotina Giada, innamorata di Cristiano Ronaldo e di Sara Gama), David, figlio di ebrei, Edson, un mulatto originario del Burkina Faso, Nizar, figlio di musulmani egiziani e dalla più brava di tutti: una bambina, di origini giapponesi, che si chiama Murata e realizza gol funambolici.
Ora tocca a voi, care lettrici e cari lettori, scoprire come finirà la disfida a futebol contro la terribile “banda dei Pedro”… Queste pagine rappresentano un ponte tra il passato e il presente e il domani: per non dimenticare, per capire, una volta per sempre, che il messaggio rivoluzionario più forte e struggente rimane quello di un nazareno morto in croce: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.
BIO: Darwin Pastorin è nato a San Paolo del Brasile il 18 settembre 1955, figlio nipote e pronipote di emigranti veneti. Giornalista professionista, laureato in Lettere. È stato redattore del Guerin Sportivo, inviato speciale e vicedirettore di Tuttosport, direttore di Tele+, direttore di Stream Tv, direttore ai Nuovi Programmi di Sky Sport, direttore di La7 Sport, direttore di Quartarete Tv. Ha scritto numerosi libri mettendo insieme calcio e letteratura, calcio e memorie personali e collettive. Giovanni Arpino il suo maestro di letteratura, Vladimiro Caminiti il suo maestro di giornalismo.