“Maledetti toscani”, recitava il titolo di uno strepitoso, dissacrante pamphlet di Curzio Malaparte: “Nessuno ci vuol bene (e a dirla fra noi non ce ne importa nulla)”! Parafrasandolo, dovremmo dire “maledetti inglesi”! Già, perché oltre ad avere “inventato” il calcio, cioè ad averlo reso uno sport con dei tratti riconoscibili e riconosciuto come tale, hanno pure inventato, anzi fondato, il Milan, o, per esteso, il Milan Cricket and Foot-ball Club. Sono la bellezza di centoventicinque anni, giorno più, giorno meno: dal 13 (o 16) dicembre 1899 fino a oggi. Come ci ricorda il sito Pianeta Milan[1], la prima data, ovvero quella di mercoledì 13 dicembre, presso l’ex Hotel Du Nord et des Anglais, di Piazza delle Repubblica, è probabilmente la più accreditata a essere quella corretta, almeno secondo fonti storiche senz’altro attendibili quali l’”Annuale della Famiglia Meneghina”. La seconda, ovvero il 16, potrebbe dipendere dal ritardo di un paio di giorni per la comunicazione della lieta novella a mezzo stampa (la Gazzetta dello Sport non usciva all’epoca con cadenza quotidiana, ma bisettimanale) come pure da una scelta pratica, ovvero quella di voler attendere il sabato successivo per una celebrazione vera e propria. In ogni caso, il bel documentario dedicato a Kilpin, The Lord of Milan (2017), seguito di un anno al libro omonimo di Robert Nieri, riporta più volte la data del 16.
Fatto sta che non tutto gira intorno alla perfida Albione: c’è di certo il padre fondatore, Herbert Kilpin, originario di Nottingham. Il luogo di nascita non stupisce, dato che il Notts County, attualmente in Football League Two, ovvero la quarta divisione inglese, è stato fondato nel 1862, un anno prima della Football Association, e il Nottingham Forest nel 1865. Insieme allo Stoke City (1863), si tratta dei due club, tra quelli che avrebbero adottato il professionismo (ufficialmente riconosciuto dalla FA nel 1885, anche se con alcune restrizioni), più antichi del mondo. Insomma, Nottingham era un luogo dove si respirava calcio, anche grazie a una nuova concezione urbanistica che prevedeva di adibire a scopi ricreativi le arterie verdi che circondavano il cuore industriale e abitato della città: decisioni lungimiranti, il cui impatto non è sempre percepibile sul momento, sottendono la fioritura di quella o quell’altra abilità (che prima era stata passione, magari inespressa per cause di forza maggiore). Calcio e manifattura tessile, in specie pizzi e merletti, ovvero il settore nel quale Kilpin lavorava e che lo porterà in Italia, a Torino, nel 1891, su richiesta dell’imprenditore Edoardo Bosio, con il compito di insegnare agli operai l’uso dei telai inglesi: dal Lace Market all’Italia. Proprio Bosio darà vita a una delle prima squadre calcistiche italiane (sopravvivrà però pochissimo, solo nove anni), l’Internazionale Torino, nella quale Kilpin avrà modo di esibirsi… e di perdere, due volte, in finale, contro il Genoa!
In tema di rievocazioni, bello ricordare come un’altra figura sia legata a Nottingham: Mark Hateley è cresciuto calcisticamente nel Nottingham Forest, dove cominciò a giocare da ragazzino, per poi essere scartato da Brian Clough che non lo considerò abbastanza talentuoso. A noi piace immaginarlo ancora sospeso in aria, a fare ombra alle spalle di Collovati, quel 28 ottobre del 1984…
Sono anglosassoni, nel Milan Cricket and Foot-ball Club, il primo presidente e il vicepresidente, rispettivamente, Alfred Edwards, già vice console di Sua Maestà, ed Edward Berra Nathan. In particolare la figura di Edwards fu rilevante per riuscire a trovare legittimazione pubblica e a tessere una fondamentale rete di relazioni presso famiglie prestigiose di industriali quali i fratelli Pirelli. Anche il segretario aveva la stessa origine: si chiamava Samuel Richard Davies. Vi sono tuttavia anche diversi italiani coinvolti, in modo più o meno ufficiale, più o meno riconosciuto, nella nascita dell’ottocentesco Milan: oltre ai citati Pirelli, Giannino Camperio e Guido Valerio, fra gli altri.
Una curiosità: il primo titolo milanista fu conseguito nel 1901, quando i rossoneri si aggiudicarono la finale Tricolore, vincendo per tre a zero contro la squadra della città cantata da Fabrizio de Andrè. Del resto, è nota la ragione dietro alla scelta dei colori della maglia – affermò Kilpin: “Saremo una squadra di diavoli. I nostri colori saranno il rosso come il fuoco e il nero come la paura che incuteremo agli avversari!” – ma pare altresì che il britannico l’avesse, si fa per dire, giurata, in seguito alle due finali perse, al fortissimo Genoa di quegli anni al confine tra due secoli. “Fonderò una squadra che vi batterà”, aveva annunciato il buon Herbert che in Italia, oltre alle proprie ambizioni, aveva portato anche un ordine tattico che ancora ci era sconosciuto. Mantenne la promessa. Lo stesso Genoa, nel gennaio del 1899, aveva cambiato, su spinta di un altro immancabile inglese, il dottor – ma anche portiere, difensore centrale e persino arbitro – James Richardson Spensley, detto “u megu”, il proprio nome. Si era dunque passati dal Genoa Cricket & Athletics Club al moderno, tuttora in uso, Genoa Cricket and Football Club. L’ufficializzazione del circolo sportivo risaliva a una giornata di fine estate del 1893 ed era avvenuta nella sede del consolato britannico di Via Palestro. L’apertura del Canale di Suez, nel novembre del 1963, aveva infatti mutato profondamente le rotte commerciali via mare e il porto di Genova era divenuto uno scalo cruciale per molti sudditi della Regina Vittoria (i quali, di conseguenza, avevano introdotto le loro usanze, sportive e non).
Una gloria, quella di Kilpin, nato al 191 di Mansfield Road (al tempo della sua nascita era il 129, ma in seguito la via è stata rinumerata), misconosciuta per molto tempo. Morto a soli quarantasei anni, forse per le conseguenze dell’abuso di alcol, fu seppellito, lui, anglicano, nella sezione acattolica del Cimitero Maggiore di Milano. In seguito, grazie all’intervento economico di una persona che preferì restare anonima, le sue ceneri evitarono la fossa comune, ma furono traslate in un’urna senza nome. Nel 1998, Luigi la Rocca, tifoso milanista e appassionato di storia, riuscì a rinvenire i resti del fondatore – sui registri, a nome Alberto Kilpin – e a consentire così, grazie all’interessamento della società, una più degna (e visibile) sepoltura nel Cimitero Monumentale nonché la successiva iscrizione, nel 2010, nel Famedio del medesimo camposanto: fama più -edio, dal greco “hēdos” (ἦδος), a indicare un luogo dedicato alla memoria di figure illustri o eroiche. Da pochi giorni, e cioè dalla data del centoventicinquesimo compleanno del Milan, le spoglie di Herbert Kilpin hanno ricevuto l’onore della tumulazione in una cripta del suddetto Famedio, dove riposa, tra gli altri, Giuseppe Meazza.
A Nottingham c’è oggi un pub dedicato a Kilpin, The Kilpin Beer Cafe (10 Bridlesmith Walk), e, al 191 di Mansfield Road, in un fondo dismesso, dietro la pensilina del bus, fermata Huntingdon Street, campeggia uno stemma del suo-nostro Milan. Nello stesso luogo, sulla parete rossa, è stata apposta, il 22 ottobre 2017, con una cerimonia pubblica a cui era presente il sindaco, una targa commemorativa che recita: “Herbert Kilpin, the father of Italian Football and the founder of Milan Foot-ball and Cricket Club (AC MILAN) was born here 24th January 1870.” (Herbert Kilpin, il padre del calcio italiano e fondatore del Milan Foot-ball and Cricket Club (AC MILAN) nasce qui il 24 gennaio 1870.)
Contro il Genoa di Patrick Vieira, subentrato in corsa ad Alberto Gilardino, il Milan si presenta con lo schema che in prevalenza ha adottato, una sorta di 1-4-2-3-1, ma con una formazione per due undicesimi inedita. Non sarebbe una gran notizia, di per sé, se gli inserti non fossero i due giovanissimi, Jiménez e Liberali. Se per quest’ultimo, già apprezzato nel precampionato americano, la scelta è stata soprattutto di natura tattica, con la trequarti orfana temporaneamente dell’infortunato Pulisic e con anche Loftus-Cheek non disponibile, nel caso del diciannovenne, Álex Jiménez, Fonseca ha deciso di provare una soluzione alternativa al poco ispirato – così è parso nelle ultime settimane – Theo Hernández. Difficile stabilire se si tratti di una ragionata opzione, tra le pochissime disponibili, per quel ruolo cruciale, o di una cura d’urto per invogliare alla reazione il terzino sinistro francese: usare i giovani talenti è cosa buona è giusta, ma va fatto cum grano salis, senza mandarli allo sbaraglio per risolvere beghe di spogliatoio. Ci risponderà il tempo. E ce lo dirà anche il campo che ieri ci ha parlato di due ragazzi dotati, intraprendenti e con una buona visione di gioco, come pure di una squadra che, a volte anche per un pizzico di sfortuna (ma la sfortuna aiuta gli audaci…), per esempio la traversa di Morata, occorsa nel secondo tempo, non sa mantenere a lungo la propria dimensione… di squadra. Rispetto a un avversario ben organizzato in difesa – ottima densità loro, in quella fase – ma con molti limiti nelle ripartenze e con, in generale, una fase offensiva impacciata e poco in controllo, il Milan non è stato in grado di attaccare in modo coeso e organizzato, complice una fascia destra non impeccabile, per usare un eufemismo. Certo, a guardare le statistiche, si legge di ventidue tiri totali, ma solo quattro propriamente nello specchio della porta. Si è visto, grazie anche all’energia dei nuovi entrati, un maggiore dinamismo – verrebbe da dire, una maggiore voglia di fare – e qualche volta, su continua sollecitazione (i fischi!) del mister, la squadra è riuscita a restare corta. Tuttavia la capacità di verticalizzazione appare limitata a sporadici guizzi personali ed è facile che, quando si presenta l’occasione di sganciarsi e partire, la squadra, insicura tatticamente, preferisca piuttosto ripiegare su Maignan, in una costruzione dal basso che, in questo caso specifico, diventa un limite e non un plus da sfruttare per dilatare il posizionamento degli opponenti.
Permane inoltre l’annosa questione dei rinforzi per il centrocampo: Reijnders e Fofana – ieri onnipresente, anche in copertura, ma a un certo punto in chiaro affanno – sono due pilastri, ma non possono essere insostituibili come invece risultano al momento.
Da una parte il passato, dall’altra il presente di celebrazioni macchiate dai brusii per i mancati inviti – Boban ha fatto sapere di non essere stato interpellato – e le presenze negate, comprensibili, umanamente, tuttavia dolorose perché il tributo era al Milan, non a una specifica proprietà. Chi potrebbe pensare a una festa della Juventus senza Del Piero? Insomma, ci siamo capiti. Di contro, sarei ipocrita, se dicessi di non essermi emozionata, mentre si omaggiavano alcuni dei personaggi che questa lunga storia l’hanno impressa in un marmo che nessuno potrà profanare, nemmeno tra altri centoventicinque anni. Ricordi, niente più che ricordi, ma non è poco, perché il ricordo può indulgere nella passiva nostalgia o essere spinta propulsiva a volare ancora.
E poi c’è lui, Paulo Fonseca, ormai una specie di condottiero a cui hanno rubato le lance, ma soprattutto l’elmo di protezione. Dopo la dimenticabile prestazione contro la Stella Rossa (ma sul finale i ragazzi sono stati bravi a riagguantarla, spuntandola con un 2 a 1) aveva parlato chiaramente di impegno carente da parte di alcuni giocatori, preferendo non fare nomi, ma lasciandoli intendere a chi voleva capire. Sono seguiti dibattiti sull’opportunità di simili dichiarazioni pubbliche e polemiche, ché quelle sono il sale della vita, proprio, e paiono non dover mancare mai. Se si guarda alla leadership e alle sue teorie, c’è una sostanziale differenza tra “un cavallo, un cavallo, il mio regno, per un cavallo” e “Noi pochi, noi felici pochi, noi fratelli in armi. Poiché chi oggi verserà il suo sangue con me sarà mio fratello”. Da un lato la solitudine del tiranno (che però è nato solo: “Enter Richard, Duke of Gloucester, solus”), di là l’intelligenza strategica di un re, Enrico V, che sa di non poter affrontare la battaglia, se non con l’aiuto di chi gli è fedele. Ma lo sfogo del nostro allenatore, perché di uno sfogo, volendo un po’ disperato, si è trattato, tale e quale alle invettive contro l’arbitro La Penna, non attiene al dispotismo di chi pensa di bastare a sé stesso. Il punto sembra essere un altro, più drammatico, se vogliamo, perché di difficile risoluzione. Fonseca è davvero isolato, solo a parlare, solo a gestire, solo a prendersi la responsabilità di qualunque errore, suo o di altri: “I am myself alone”. È lecito, in tutta coscienza, pensare che possa funzionare una gestione di questo tipo? C’è una differenza enorme tra una squadra che non vince – capita anche ai migliori – e una squadra che ha rinunciato a vincere. Le parole di circostanza di Ibra, nel pre-partita, non bastano.
È solo Fonseca, ma, a ben vedere, non è il solo. Perché, a prescindere dai singoli risultati, buoni o meno buoni, accompagnati da performance convincenti o svogliate, la netta impressione – da tempo, troppo – è che valga, come bisticcio giocoso, ciò che scriveva Salvatore Quasimodo: “Ognuno sta solo sul cuor… dell’AC Milan.”
MILAN (1-4-2-3-1): Maignan; E. Royal, Gabbia, Thiaw, Jiménez; Fofana, Reijnders; Chukwueze (Okafor, dal 76’), Liberali (Camarda dal 62’), Leão; Abraham (Morata dal 46’). A disp.: Sportiello, Torriani; Bartesaghi, Calabria, Hernández, Pavlović, Terracciano, Tomori; Vos; Camarda, Morata, Okafor. All.: Fonseca.
GENOA (1-4-3-3): Leali; Vogliacco (Sabelli dal 46’), Bani, Vásquez, Martín; Thorsby, Badelj, Frendrup; Zanoli (Norton-Cuffy, dal 91’), Pinamonti, Miretti (Vitinha, dall’80’). A disp.: Gollini, Sommariva; Marcandalli, Matturro, Norton-Cuffy, Sabelli; Bohinen, Masini, Melegoni, Pereiro; Accornero, Ankeye, Balotelli, Vitinha. All.: Vieira.
Arbitro: Guida di Torre Annunziata.
[1] https://www.pianetamilan.it/la-storia/amarcord/124-compleanno-milan-ultime-news-oggi-16-12-2023/
BIO ILARIA MAINARDI:
Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita.
Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema.
Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.
Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!
5 risposte
Articolo tra passato, con le nostre nostalgie, e presente con le recenti, tribolate e diavolesche paturnie.
Come sempre bell’articolo Ilaria! ed inoltre mi preme sottolineare alcune vere chicche che hai abilmente ricercato e descritto nell’era mesozoica del nostro Diavolo! Buona giornata
Massimo 48
Grazie per la lettura, Massimo! E tanti auguri rossoneri di buone feste, se non dovessimo leggerci prima!
Ilaria
Ancora complimenti Ilaria per i tuoi articoli. Partecipando settimanalmente in una live Rossonera dove ultimamente abbiamo avuto il piacere di ospitare il nostro Invincibile Filippo Galli molti tifosi hanno avuto modo di leggere per la prima volta La complessità del calcio e conoscere così tanti blogger dapprima sconosciuti tra i quali quelli, wmolto apprezzati, vergati dalla tua firma. Ci risentiremo di sicuro ma comunque ti auguro un sereno e spensierato Natale.
Massimo 48
bellissimo articolo.. complimenti!
Grazie mille, Giuseppe!