Dovessimo dipingere la vita calcistica di Aldo Agroppi non potremmo che utilizzare due colori: il granata ed il viola.
Colori vicini cromaticamente ed ancor più in ambito calcistico considerato il legame indissolubile, sfociato da decenni in uno storico gemellaggio, tra le tifoserie di Torino e Fiorentina.
Volessimo emularne le gesta, più che con docili pennellate, dovremmo ritrarlo con tratti decisi, taglienti, talvolta duri, in ossequio ad una loquacità mai banale, esasperata da concetti anacronistici e da esperienze personali, ma coerente al punto di pagarne le conseguenze.
Non era, Aldo Agroppi, persona che teneva il piede in due scarpe ed è bello pensare che non sia solo una coincidenza la circostanza secondo cui i suoi amori calcistici siano stati due club con un unico colore sociale, il viola ed il granata, a differenza della maggior parte delle squadre caratterizzate dalla presenza di due colori.
Al di sotto della corazza da uomo schietto e fuori dagli schemi vigeva d’altro canto una spiccata sensibilità che non lasciava indifferenti amici e conoscenti e che lo rendeva molto meno severo di quanto apparisse.
Cresciuto nelle giovanili del Piombino, viene acquistato dal Torino che per qualche anno lo gira in prestito in altri club di serie B a farsi le ossa.
Da segnalare l’esperienza al Genoa nella stagione 1964/65, non tanto per l’aspetto calcistico ma perchè compagno di camera in ritiro di Gianfranco Zigoni, una delle figure più estroverse e folli del nostro calcio che lo farà divertire tantissimo.
E’ con il rientro alla casa madre granata che la carriera di Agroppi spica il volo.
Il giorno del suo esordio in A coincide con la data della morte di Gigi Meroni.
Racconterà Agroppi del senso di colpa che attanaglierà per anni l’allenatore Fabbri che si fece convincere a lasciare la squadra libera anziché rimanere in ritiro sino all’indomani come inizialmente previsto.
Sono gli anni in cui il Toro riprende ad affacciarsi alla zona nobile del calco italiano dopo le sofferenze umane ed economiche del post Superga.
Agroppi ci impiega poco a far innamorare i titosi. Incarna alla perfezione il prototipo di calciatore che il popolo granata tende ad apprezzare; ci mette grinta e cuore, emerge nella zona nevralgica del campo e sa anche vedere il gioco.
Nonostante sul terreno verde non faccia sconti agli avversari, è estremamente corretto e si dispererà per anni dell’unico cartellino rosso ricevuto.
Cartellino, a suo dire, totalmente inventato.
Si narra che ogni calciatore abbia una partita maledetta.
Per Agroppi è senza dubbio la sfida con la Sampdoria.
Il 15 ottobre 1967 esordisce in serie A contro la Samp nell’incontro che fa da preludio alla morte di Meroni, di cui era diventato amico intimo.
A marzo del 1972 segna un gran goal contro i blucerchiati anticipando di testa Battara. La palla ha già abbondantemente superato la linea di porta quando Marcello Lippi, proprio lui con cui i rapporti successivamente diverranno burrascosi, l’allontana.
L’arbitro Barbaresco di Gonars non convalida il goal.
Agroppi commenterà: “Barbaresco buon vino ma pessimo arbitro” inaugurando la sua carriera di strepitoso battutista.
Il Toro perderà quel campionato per un punto a favore della Juve, non prima di aver subito un ulteriore affronto da parte dell’arbitro Toselli che fischia la fine della gara con il Milan mentre la palla sta terminando nella rete dei rossoneri.
Curioso che anche questo direttore di gara fosse di Gonars.
Cosa abbia pensato per anni Agroppi di questa cittadina è di facile intuizione.
A metà degli anni 70 si è oramai compiuto il processo calcistico che porta il nostro all’apice del gradimento torinista. Diventa capitano della squadra e non cessa di elogiare l’aria che si respira al Filadelfia.
E’ un autentico portatore sano dei valori del Toro, sempre all’opposizione e mai di governo.
Anche se detiene le chiavi dello spogliatoio, non è il senatore che osteggia i giovani, anzi; li aiuta sin tanto che non eccedono in vezzi e comportamenti che giudica inadeguati perchè “il calcio è una cosa seria e se guadagni in due anni ciò che tuo padre guadagna in una vita, devi rispettare la fortuna di cui stai godendo”.
La questione comportamentale avrà sempre un aspetto dirimente nei ragionamenti di Aldo che, con l’arrivo di Radice, complici anche le 35 primavere, si vede suo malgrado costretto a lasciare la compagine granata, dopo aver vinto due coppe italia, nel momento in cui la squadra sta per spiccare il volo che la porterà al trionfo tricolore.
E’ considerato, insieme a Ferrini e Cereser, l’anello di congiunzione tra i fasti del Grande Torino e la squadra dello scudetto del 76.
Trascorrererà le ultime, peraltro ottime, stagioni da calciatore a Perugia di cui conserverà un ottimo ricordo prima di conseguire il patentino di allenatore.
Ironia della sorte, inizia la carriera di tecnico a Pisa.
Lui, piombinese, che, nei primi giorni di permanenza nella città della torre, non osa girare con l’auto targata Livorno per paura di rappresaglie.
Una cavalcata memorabile porterà a fine stagione i nerazzurri del vulcanico presidente Anconetani in serie A, rendendolo idolo della tifoseria prima di accasarsi a Padova dove si dimetterà per motivi di salute e di tornare, da tecnico, a Perugia durante la stagione 1984-85, anticamera della sua grande occasione che arriva l’anno dopo quando viene chiamato a guidare la Fiorentina.
Non sta nella pelle per la gioia nel momento in cui i Pontello gli affidano la guida della squadra gigliata ma nemmeno davanti a grandi calciatori rinuncia a suoi principi.
Si trova in eredità dalla disgraziata stagione precedente una squadra ricca di nomi ma spaccata nello spogliatoio, complice l’assenza per infortunio del leader Antognoni e la presenza di schieramenti pro e contro il dottor Socrates che nel campionato precedente avevano lacerato l’ambiente.
Litiga immediatamente con i senatori e fa capire loro che è disposto a far giocare i ragazzi della primavera.
Il rapporto con il “Caudillo” Passarella inzia nel modo peggiore ma, dopo un violentissimo litigio, i due stringono un legame strettissimo, nonostante le idee politiche agli antipodi, con l’argentino che gioca una stagione super e trascina la squadra ad un insperato quarto posto con qualificazione in coppa uefa.
E’ una Fiorentina dalla doppia anima.
Da un lato troviamo un numero di campioni del mondo inimmaginabile oggi in una squadra di media levatura: Galli, Oriali, Gentile, Antognoni, Massaro, Passarella con l’aggiunta di giocatori di valore come Battistini, Contratto e Iorio.
Dall’altro, la maestria di Agroppi nel lavorare con i giovani porta alla ribalta gli sconosciuti Carobbi, Pascucci, Pellegrini, Berti ed Onorati con quest’ultimo, notato durante un’amichevole con la primavera, entrato nelle grazie del tecnico al punto da far slittare di qualche tempo il rientro di Antognoni,con l’allenatore incurante del sequenziale malcontento della tifoseria desiderosa di rivedere in campo il suo eroe dopo 20 mesi di assenza.
E’ un’ottima annata per i viola.
Al Franchi, allora Comunale, cadono tutte le grandi; l‘Inter ne prende 3, il Milan soccombe 2-0.
Stessa sorte tocca alla Juventus, braccata dalla rimonta romanista, al termine di una gara che riporta Antognoni agli albori di un tempo, decisa da uno stacco imperioso di Passarella e da una galoppata di un giovanissimo Nicola Berti.
E’ l’apoteosi della carriera da allenatore di Agroppi che esulta, neanche troppo se rapportato ad alcuni canoni odierni, correndo a braccia alzate.
E’ l’uomo più felice della terra.
Si è vendicato sportivamente (ma in animo suo non solo sportivamente) di quelle che ha sempre defintio angherie bianconere. La squadra ha davanti a sé un luminoso avvenire e gli viene fatta visionare la videocassetta del centravanti che l’anno seguente prenderà il posto di Monelli: un olandese di nome Marco Van Basten che quando lo vede lo fa saltare sulla sedia prima di esclamare “Ragazzi, davvero il prossimo anno alleno questo qui?”
Si perchè la Fiorentina, un anno prima del Milan, ha chiuso l’operazione con l’astro nascente olandese e ha chiesto al tecnico l’assenso per depositarne il contratto.
Pochi giorni e il sogno si spezza.
Gli viene comunicato un esonero che ha dell’incredibile.
Da ciò che lui stesso ha sempre raccontato la causa risiede nell’esultanza contro la Juve, risultata indigesta alla dirigenza bianconera con conseguente “consiglio” alla società gigliata di cambiare tecnico.
Il contratto di Van Basten, come noto, non verrà depositato e pochi mesi dopo Marco sarà già una stella internazionale.
Agroppi riparte da Como dove fa indispettire Berlusconi perchè non schiera Borghi, che il Milan ha dato in prestito in attesa che l’anno seguente si possano tesserare tre stranieri, e da Ascoli dove prova, senza riuscirci, a rianimare una squadra già virtualmente retrocessa.
La sua carriera pare essersi fermata a quel Fiorentina-Juventus e l’eccessivo stress che la professione di allenatore presuppone non fa più per lui al punto che afferma:“E’ vero, gli allenatori guadagnano molto ma se poi devo pagarmi le medicine per lo stress e la pillola per la cardiopatia oltre che spendere soldi per la guardia del corpo per me, quella per la moglie quando va a fare la spesa e dotarmi di un sistema di sorveglianza a casa per le contestazioni della tifoseria, allora ci rimetto e mi conviene commentare il calcio seduto bello tranquillo”.
La sua verve dialettica, unita ad un’innata simpatia e alla vis polemica da toscanaccio, lo porta ad essere una delle figure di maggior appeal tra gli opinionisti televisivi dei primi anni 90.
Prima in Rai, durante una memorabile stagione allla Domenica Sportiva condotta da Sandro Ciotti, e poi a Mediaset dimostra di interpretare al meglio i tempi della televisione.
E’ tagliente come pochi, non ha padroni e se ne infischia delle convenzioni.
Se c’è da criticare, critica, sempre con coerenza.
Si lancia in anatemi contro i look, la vita fuori dal campo e le abitudini dei giocatori.
Memorabile una telecronaca di una gara di coppa uefa durante la quale critica i calciatori per gli orecchini, il gel nei capelli, il nastro adesivo sopra i calzettoni, l’eccesso di proteste, le maglie fuori dai pantaloncini, i look nel dopogara sino alla chiosa che conclude l’invettiva: “…devo tornare ad allenare per dare una bella ripulita!” che se pronunciata oggi gli farebbe passare, con ogni probabilità, dei guai seri.
In realtà ha capito da tempo di non essere più un allenatore, o meglio un allenatore in seno ad un calcio che sta cambiando e che non gli si addice.
Non si capacita degli atteggiamenti da divo di alcuni calciatori, assume la difesa degli allenatori quando i giocatori mancano loro di rispetto e sempre più frequentemente prende di mira i vertici del calcio italiano tra cui il presidente federale Matarrese.
In cuor suo lascia aperta una porta per un eventuale ritorno in panchina a due sole ipotesi: Torino o Fiorentina.
Ma mentre i granata, guidati dal suo grande amico Mondonico, approdano in finale di coppa uefa e l’anno successivo conquistano la coppa italia, la stagione 93-94 della Fiorentina, dopo un’ottima partenza e comunque con una posizione di classifica invidiabile, si incaglia in uno scontro tra l’allenatore Radice e Vittorio Cecchi Gori, figlio del presidente Mario.
E’ una squadra, quella viola, sbilanciata e sbarazzina, costruita con intenti spettacolari che schiera una cospicua dose di punte e mezzepunte.
Non proprio il calcio di Agroppi.
Senza considerare la presenza di personalità forti e di calciatori tanto valorosi quanto restii alle imposizioni disciplinari come Effenberg, croce e delizia della tifoseria. Uno che, se vuole, ti fa vincere le partite ma con il quale, se ci vai allo scontro, il negoziato diviene impossibile.
Alla tifoseria, che non comprende l’esonero di Radice, dev’essere dato un nome che goda dell’amore e della stima dell’ambiente (un po’ come De Rossi dopo l’esonero di Mourinho).
E’ il 4 gennaio 1993 quando Aldo Agroppi torna dove voleva tornare ossia alla Fiorentina ed, ironia della sorte, al posto di colui che l’aveva allontanato dal Toro divenuto nel frattempo beniamino della tifoseria granata.
La conferenza stampa di presentazione è uno show (“Se Vittorio vorrà fare l’allenatore, io farò il presidente”.) ma alla prima a Udine, dopo 14 secondi, Marco Branca ha già segnato ed il 4-0 finale suona come un presagio di futura sventura.
L’aria del palazzo non è favorevole ai viola e non potrebbe essere altrimenti dopo le invettive di Agroppi contro i vertici federali durante i suoi monolghi inTV.
Come se non bastasse, durante l’amichevole Italia-Messico giocata a Firenze, la curva Fiesole partorisce la meravigliosa pensata di schierarsi palesemene contro la nazionale tifando incessantemente per i messicani per tutti i 90 minuti ed insultando il presidente Matarrese.
A fine campionato, la compagine gigliata che annovera Laudrup, Effenberg, Di Mauro, Batistuta, Baiano, Orlando, Carnasciali ed altri ottimi giocatori retrocede (per differenza reti) incredibilmente in serie B con Agroppi esonerato a 5 giornate dalla fine con la situazione non ancora compromessa.
E’ rimasto sulla panchina viola per 17 giornate in cui gli dei del calcio si sono abbattuti sulla sua squadra e sulla sua testa come un tornado.
Una serie di partite perse in cui anche il pari sarebbe stato stretto tra cui sconfitte con Lazio, Ancona, Sampdoria e Milan dove i portieri avvversari se ne escono con 8 in pagella e gli arbitri di turno con un 4 quando gli va bene.
Una sconfinata sequenza di incredibili errori sottoporta e di deviazioni sfortunate nella propria rete, qualche giocatore che non lo “gradisce” e lui lasciato solo nel mezzo degli eventi.
Dopo la sconfitta di San Siro contro il Milan, mentre tutta la sua squadra sta protestando per l’arbitraggio, rientra in spogliatoio tra lo sarcasmo e le prese in giro dei tifosi rossoneri con l’espessione di chi è consapevole che quella sarà la sua ultima camminata alla scala del calcio.
Dopo quattro mesi sulla panchina viola pare invecchiato di dieci anni.
Tenta ancora di metterla sulla dialettica, sull’ironia per tenere sù l’ambiente ma la sua carriera di allenatore è davvero finita.
Alla Rai si ricordano del successo televisivo e lo richiamano ma una critica a Lippi per non essersi presentato ai microfoni dopo una sconfitta ad Udine gli fa perdere il posto.
Rimane in Toscana e di tanto in tanto si fa sentire e vedere nelle emittenze locali ma il suo tempo calcistico è finito troppo in fretta per le competenze che aveva e per la passione che lo contraddistingueva.
Nel momento in cui il football ha svoltato verso concetti a lui poco cari, come il pressing, la proposta offensiva, il ripudio della marcatura a uomo, non gli è riuscito di riciclarsi e ha preferito rintanarsi nell’inflazionato adagio secondo cui la differenza la fanno i giocatori.
Chi l’ha conosciuto, tuttavia, avrà sempre il ricordo di una persona dolce contraddistinta da un’innegabile ed immarcescibile statura da “uomo verticale”.
BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.
2 risposte
Bellissima descrizione di una persona, oltre che di un calciatore ed allenatore che ho sempre apprezzato.
Mi complimento con Alessio per la completezza del racconto e dello stile gradevole e molto rispettoso dell’uomo di cui sta commentando la su attività calcistica.
Era sì un toscanaccio ma molto simpatico.
Auguri di buon anno a tutti i partecipanti al blog.
Caro Giuseppe,
Sei molto gentile.
Ad Agroppi piaceva molto la figura del calciatore “serio”.
E per questo mi spiace quando lo si ricorda solo come personaggio esuberante.
Amava l’equilibrio, nelle comportamenti come nelle squadre.
Tanto che, a detta di alcuni colleghi, pur non essendo allenatore moderno, non era un catenacciaro ma un tecnico che cercava l’equilibrio tra le due fasi.