Paulo Fonseca viene esonerato, a una manciata di giorni dalla Supercoppa italiana, e lui nemmeno lo sa. O forse lo sa, difficile pensare diversamente, vista la copiosa fuga (fuga?) di notizie, ma con grande senso di responsabilità e con grande dignità personale si presenta comunque in conferenza stampa post-partita per rispondere a “domande non per lui” (dice proprio così: “queste domande non sono per me”). Del resto chi era titolato a parlare, per l’ennesima volta, ha deciso di non farlo e di lasciare all’incalzo dei giornalisti la carne dell’agnello sacrificale. Mal digerii le modalità dell’allontanamento di Xavi Hernández dalla panchina del suo Barcellona (peraltro se ne sarebbe andato sua sponte, salvo poi essere convinto a restare), mal digerisco, anche se Fonseca non è una nostra bandiera, le modalità di questo esonero. Non la scelta, che rispetto, ma le modalità con cui è stata messa in atto: “e ‘l modo ancor m’offende”, diceva Francesca da Rimini nel canto V dell’Inferno dantesco.
Le scorrettezze avvengono: è già successo e succederà ancora, nel Milan e in ogni altra squadra (e in ogni ambito, a dire la verità). Proprio per questo non bisognerebbe mai cedere alla tentazione di abituarsi alle cattive abitudini, facendole diventare opache procedure standard.
Peraltro, è bene ribadirlo, non si dovrebbe trattare di personalismi o di considerazioni aprioristiche, ma di eredità. Oggi mi capita di vedere il figlio di Luka Modric indossare una maglia rossonera, segno che qualcosa – anzi, che molto – è rimasto, come lascito, anche per generazioni che quei successi non li hanno vissuti: tra vent’anni cosa resterà di quello che già oggi è un lontano ricordo? Non parlo solo di numeri, parlo soprattutto di come si vince, di impronte che si lasciano sulla terra e che la pioggia può cancellare per un po’, ma alla fine riaffiorano sempre. Parlo di appartenenza, una cosa che non si può decidere a tavolino né comprare.
A sostituire Paulo Fonseca è stato chiamato in fretta e furia (pare che la ragione risieda in una clausola contrattuale favorevole al Milan, in caso di esonero prima dei sei mesi dalla stipula del contratto stesso) un altro allenatore portoghese, mai, prima d’ora, seduto sulla panchina di una squadra italiana, sebbene in Italia abbia giocato per diverse stagioni tra Lazio, Inter e Parma.
È in realtà trapelato un avvicinamento precedente a Maurizio Sarri, il quale aveva tuttavia declinato l’offerta forse proprio a causa di una proposta di accordo a lui non congeniale. Il nome di Sergio Conceição era girato anche la primavera scorsa, insieme a quello di Julen Lopetegui, inviso a parte della tifoseria e poi partito alla volta della Premier League (al momento allena il West Ham). Non è dato sapere se tra la società e l’ex allenatore del Porto – il contratto con i Dragões fu rescisso, poche settimane dopo il rinnovo, a causa di divergenze insanabili con il nuovo presidente, André Villas-Boas – ci fossero già stati mezzi contatti per un eventuale subentro in corsa. La mia speranza è che la fiducia a parole nei confronti di Fonseca e del suo operato fosse una fiducia de facto, ma le prestazioni ballerine della squadra e “la solitudine dei numeri primi”, quali senza dubbio sono gli allenatori, mettono in discussione, anzi riscrivono, azzerando il miraggio, ogni precedente assunto.
Poi c’è il codicillo e la clessidra che detta il tempo e ci dice quando sta per finire: il 13 giugno 2024 è la data della nomina, con decorrenza dal primo luglio. Se il per sempre, nella Wonderland di Lewis Carroll, può durare un secondo, non è così quando si tratta di affari. L’impressione è che Zorro (soprannome che non ama) sapesse da sempre di camminare sopra una fune sottilissima, dall’accettazione di quella clausola, che lo rendeva a tutti gli effetti un dead coach walking, dal suo arrivo in sordina a Milanello e da quella campagna acquisti che, in molte occasioni, sembrava andare nella direzione opposta rispetto a ciò che aveva dichiarato coram populo di preferire. Da alcune settimane la consapevolezza di avere i giorni contati sulla panchina dei rossoneri deve essersi consolidata, ipotizzerei dai giorni precedenti alla sfuriata, eccessiva nei toni – non da lui, qualcuno riferì – contro l’arbitro La Penna.
Lo sapeva e ha sempre sorriso, con una leggerezza che, se è quella ricordata da Calvino, citando Paul Valéry, è davvero una risorsa meravigliosa.
Conceição è allenatore esperto e, almeno in patria, assai vincente: tre volte campione del Portogallo, quattro volte vincitore della coppa portoghese e tre della supercoppa, una della coppa di lega (oltre a una vittoria della coppa del Belgio, con lo Standard Liegi, nella stagione 2010/’11). Al Porto giocava di preferenza con un 1-4-4-2 base, sapeva valorizzare gli esterni, ma disponeva di attaccanti d’area in grado di incidere, prediligeva la cosiddetta verticalità – che non vuol dire gioco propositivo, almeno nell’accezione in cui la intendo – dunque non trascurava la fase difensiva che anzi si dimostrava solida, compatta (uno dei grossi problemi del Milan degli ultimi anni): il gegenpressing che impostava era piuttosto organizzato (perché lo era la squadra in campo, nel suo insieme) e riusciva a mettere in difficoltà gli avversari in possesso, nel momento della ripartenza. Al Milan adotterà verosimilmente e in maniera progressiva un assetto tattico che sappia combinare le specificità del suo approccio e con le scelte dei predecessori, oltre che in base alle caratteristiche della rosa disponibile. A dirlo in questo momento, con la forma attuale del Liverpool, sembra di peccare di iconoclastia, ma sarebbe interessante capire quanto l’esprit libre di Rafa Leão, possa evolvere in direzione Luis Diaz (che il 3 novembre 2021 ci punì con uno dei gol più veloci mai incassati dal Milan in Champions League: 5’2’’).
La conferenza stampa di presentazione del mister purtroppo non ha chiarito gli aspetti tattici, ma si è parlato genericamente di unità d’intenti e di una concretezza che tuttavia, come ha ben chiarito Filippo Galli, nel pezzo pubblicato il 31 dicembre, rischia di sfociare nella banalizzazione del gioco. Semplicità e semplificazione, tocca ribadirlo, non sono sinonimi e se il primo concetto rimanda a una scissione del dato complesso – Alessandro Barbero parla “semplice” perché ha masticato la storia medievale talmente bene e a lungo da non aver bisogno di ricorrere ad astrusità – il secondo è figlio dell’idea di sfangarla: di rado porta lontani, anche se è un approccio che arriva facilmente (appunto) alla pancia di chi ascolta.
Per quanto riguarda invece la questione dei giocatori da trattare allo stesso modo, altro tema emerso da una risposta del nuovo mister, mi rifaccio alle parole di Julio Velasco, riportate da Pep Guardiola in più di un’occasione: “la mentira mas grande en el deporte es que todos los jugadores deben ser tratados igual” (la bugia più grande nello sport è che tutti i giocatori debbano essere trattati nello stesso modo). Trattare allo stesso modo – di nuovo la semplificazione del conto a spanne – può essere sostituito dal trattare in modo equo, ovvero secondo le peculiarità caratteriali, e non solo, di ciascuno.
Spiace perché, in un incontro che è riuscito a far emergere pochissimo della visione di Conceição, molto di ciò che è affiorato, in modo esplicito o implicito, rimanda a una linea di pensiero “da duro” che mi lascia perplessa. Vedremo nel prosieguo: il campo parlerà più di quanto possano farlo mille interviste. Inutile indulgere in congetture adesso.
Antonio Vitiello ha poi specificato, con un post su X, che la società aveva chiesto ai giornalisti presenti in sala stampa di non rivolgere domande a Zlatan Ibrahimovic, con la motivazione della mancanza di tempo. Mi limito a riportare quanto ho appreso, palesando tuttavia, di nuovo, una discreta dose di perplessità: in un momento particolare per la squadra, con un cambio repentino in panchina e una contestazione in corso, siamo certi che la società si possa ancora sottrarre?
La conferenza del pre-partita, alla quale era presente anche Mike Maignan, ha ribadito alcuni concetti già espressi. Mi permetto però di proporre una riflessione, dato che è stato citato il Cholo: guardando il bel documentario su Diego Simeone, in catalogo su Amazon Prime, se ne ricava l’impressione di un perfezionista tutt’altro che votato a un calcio semplice, almeno nell’accezione che pare andare di moda oggigiorno.
Con questi presupposti – da una parte qualche delusione, dall’altra una flebile speranza – si arriva alla semifinale di Supercoppa italiana contro la Juventus, squadra che in campionato è messa poco meglio di noi (e noi abbiamo da recuperare la partita contro il Bologna), ma che ci appare ancorata a un progetto saldo. Ce la siamo guadagnata, ora che si gioca il minitorneo invernale e non più la partita secca, in quanto classificatici secondi nella scorsa stagione. I torinesi, dal canto loro, possono vantare la vittoria dell’ultima edizione della Coppa Italia.
Si gioca alla “Kingdom Arena” di Riyadh, all’indomani della sfida tra Inter e Atalanta, vinta dalla squadra di Simone Inzaghi per due a zero.
Nulla si può dire, della partita contro la Juventus, senza correre il rischio di sbagliare in qualcosa: gioire per la vittoria, ottenuta grazie a un rigore (sacrosanto: grossa ingenuità di Locatelli che falcia Pulisic mentre sta uscendo dall’area) e a una fortuita deviazione di Gatti su cross di Musah – grazie anche a un’uscita intempestiva di Di Gregorio – ci va bene, come tifosi, e ci mancherebbe altro, ma non può farci dimenticare quanto poco siamo riusciti a creare. Quanto poco siamo riusciti a giocare, tout court, a dire il vero, tra sperimentazioni sull’1-4-3-3, assetto da rodare assai, e giocatori appena rientrati da lunghi o meno lunghi infortuni. Lo stesso Pulisic, che pure non si è risparmiato per tutti i novanta minuti, ha commesso imprecisioni tecniche inusuali per un calciatore millimetrico come lui.
Al di là della valutazione sul futuro del modulo (ma siamo, lo ripeto, alle prime e pressoché ingiudicabili sperimentazioni), con Rafa – assente dal match per pregressi problemi muscolari – di norma poco incline a rientrare per coprire i terzini in fase di non possesso, i maggiori problemi si sono riscontrati nel mantenere le spaziature in fase offensiva e nell’equilibrio del centrocampo oltre che nella scarsa propensione a mantenere stabile il pressing alto. Alla fine sono automatismi già consolidati da rivedere.
Da una parte, abituati a concentrare in prima istanza il gioco centralmente, con movimenti tra le linee, i nostri si sono trovati a disagio nel dover allargare il campo per creare spazi e sfruttare meglio i corridoi esterni (tanto che spesso finivano per imbottigliarsi sulle marcature). Nel consueto 1-4-2-3-1, le fasce sono infatti alimentate da un centrocampo più stretto – i due mediani restano a protezione – e dai movimenti della punta centrale, che spesso viene incontro per liberare spazi agli esterni. Dall’altra, Bennacer si è spesso sovrapposto a Fofana, senza trovare il modo di ben ponderare la copertura difensiva a supporto delle fasce. Con la mezzala che si allarga per supportare l’esterno d’attacco o il terzino, si corrono rischi maggiori, se i centrocampisti non riescono a trovare adeguato bilanciamento.
Ismaël Bennacer, in chiaro affanno, non solo tattico, è stato poi sostituito con il suddetto Musah, mezzala – e tuttofare – di gamba che ha saputo dare dinamismo sulla fascia destra, grazie anche a un risvegliato Emerson Royal, al quale, dopo un primo tempo grigio, a cercare con poco successo di prevenire i guizzi di Mbangula, si devono un paio di belle imbucate e una ruleta da applausi. Sono piccoli segnali, magari solo fuochi fatui, ma è comunque bene sottolinearli. Anche perché uno dei più grandi drammi per un giocatore riguarda la paura di sbagliare: il maggiore limite di Theo Hernandez, in questo momento in cui è sotto accusa da parte dell’allenatore (il precedente allenatore perlomeno!) e del tifo, è il timore di commettere errori. Come in una profezia che si autoadempie, è proprio il momento in cui ne compi: ci si può lavorare, di mente più che di gamba, e si può risolvere. Non lo ha aiutato, al di là delle intenzioni comprensibili, la posizione alla Leão di Alex Jiménez. Coriaceo e senza dubbio volenteroso, oltre che dotato di una buona tecnica individuale, lo spagnolo non ha tuttavia la capacità di scambiare con il terzino – i due praticamente non si conoscono – e ha contribuito, suo malgrado, a bloccare la fascia sinistra invece di liberarla, com’era nei piani. È andata meglio, almeno lato Theo, dopo l’ingresso in campo di Tammy Abraham che tuttavia si conferma una punta troppo poco propositiva.
Sul 2 a 1, Conceição ha optato per una difesa in linea così compatta che, da un momento all’altro, avrebbe potuto prodursi in un numero di sirtaki: non è la scelta che prediligo e non credo che funzioni sempre, anzi, talvolta è il viatico per altre imbucate, se qualche tassello si smaglia all’improvviso. Questa volta però ha funzionato, grazie anche all’attenzione di Matteo Gabbia che è riuscito a scongiurare un pareggio in extremis.
C’è molto da pensare, da ripensare e da fare perché, insomma, no, il calcio, checché se ne dica, non è affatto un aggeggio semplice. E ora, testa all’Inter, restando realisti e volendo, al contempo, l’impossibile!
“Ma tutto questo—l’intricato e misterioso sentiero come una linea sottile, l’assenza del sole nel cielo, il freddo tremendo, e l’estraneità e l’inquietudine di tutto quanto—non suscitava alcuna impressione nell’uomo. Non perché ci fosse abituato da tempo. Era un nuovo arrivato in quella terra, un chechaquo, e quello era il suo primo inverno. Il problema con lui era che era privo di immaginazione.”
Così scriveva il sommo Jack London nel suo racconto intitolato Preparare un fuoco (To Build a Fire). Auguro dunque a tutti i lettori del blog, come auspicio per il nuovo anno, appena cominciato, di riscoprire e conservare il potere taumaturgico di una potente, allenata immaginazione.
Buon 2025!
JUVENTUS (1-4-2-3-1): Di Gregorio; Savona, Gatti, Kalulu, McKennie (dall’86’, Weah); Locatelli (dall’85’, Fagioli), Thuram (dal 79’, D. Luiz); Mbangula (dal 65’, Cambiaso), Koopmeiners, Yıldız; Vlahović (dal 65’, González). A disp.: Perin, Pinsoglio; Cambiaso, Rouhi; Adžić, D. Luiz, Fagioli; F. Conceição, González, Weah. All.: Motta.
MILAN (1-4-3-3): Maignan; E. Royal (dall’82’, Gabbia), Thiaw, Tomori, Hernández; Bennacer (dal 54’, Musah), Fofana, Reijnders; Pulisic, Morata (dall’82’, Terracciano), Jiménez (dal 61’, Abraham). A disp.: Sportiello, Torriani; Bartesaghi, Calabria, Gabbia, Pavlović, Terracciano; Musah, Vos, Zeroli; Abraham, Camarda, Jović, Traorè. All.: S. Conceição.
Arbitro: Colombo di Como.
BIO: ILARIA MAINARDI
Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita.
Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema.
Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.
Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!
2 risposte
Gran bell’articolo Ilaria! Lo hai scritto a caldo subito dopo la prima del nostro nuovo trainer sul quale è ovviamente presto per trarre giudizi. Ma una cosa è certa e per sua stessa ammissione, ride poco e sbraita spesso, tradotto poca carota e molto bastone! Che sia questa la formula giusta per risollevare un Diavolo con la sciatica? Me lo auguro di vero cuore anche perché questo secondo lusitano è tra l’altro dotato di una robusta dose di fortuna che al di là di tutto , dopo tante iatture vissute, non guasta mai!
Buon anno!
Massimo 48
Grazie mille, Massimo: speriamo che sia quello che ci serve! Tanti auguri di cuore anche a te!