Sono trascorsi ormai due anni. Da quando avvenne. Pochi battiti di tempo dopo l’iconico ed emozionante abbraccio di Wembley, che si staglia doverosamente iconografico nella galleria delle immagini sempiterne della storia del nostro calcio.
Dopo l’ennesima avventura nelle vesti d’ineguagliabile protagonista, dopo l’ennesima dimostrazione di quanto fossero in lui concentrate molte, se non tutte, fra le nobiltà più eminentemente notabili e ragguardevoli dell’animo umano. Fra le braccia del gemello di una vita intera. A mo’ di gioia e di commiato, tristemente contento di aver firmato un’altra impresa, alla sua altezza, secondo il suo codice, secondo la sua declinazione emotiva e spirituale. Sempre finemente intelligente. Affabile e calorosamente empatico. Insostituibile. Carattere, forza e sorriso, componenti indiscutibili della sua carriera e della sua vita, non sono però bastati: Gianluca Vialli si è spento, due anni fa, troppo presto.
Con la poderosa eleganza che lo ha sempre contraddistinto. È stato uno dei migliori calciatori del panorama europeo negli impareggiabili decenni, gli ultimi dello scorso millennio, che abbracciano molto del meglio del calcio mondiale di sempre. Centravanti moderno (definitivamente tale dopo l’investitura di Vujadin Boskov nel 1986 che, felicemente, mutò il suo ruolo da tornante ad attaccante puro dopo le diversificate collocazioni in maglia grigiorossa prima e con Bersellini poi), completo, soavemente acrobatico, trascina la Sampdoria, dopo gli esordi con la Cremonese, alla conquista di tre coppe Italia, alla vittoria della Coppa delle Coppe contro l’Anderlecht e, soprattutto, al sensazionale scudetto del 1991, un’impresa superlativa considerando il valore delle avversarie: il Milan di Sacchi, da due stagioni campione d’Europa in carica, l’Inter dei campioni del mondo teutonici, il Napoli di Diego, campione d’Italia, la Juve di Roby Baggio.
Un’epopea grandiosa, probabilmente irripetibile, che consegnerà alla storia l’arco temporale più scintillante e glorioso della leggenda doriana. Un lustro che tende al decennio durante il quale la Genova blucerchiata prima accarezza il sogno di griffare il sigillo continentale disputando e perdendo la finale di Coppa delle Coppe contro il Barcellona di Cruijff, Zubizarreta, Salinas, Lineker e Beguiristain nel 1989, in quel di Berna, poi riesce nell’impresa di sollevare al cielo di Goteborg, riscattando dunque la sconfitta dell’anno precedente, la mai troppo rimpianta competizione mestamente accantonata nel 1999.
È una doppietta di Gianluca nei tempi supplementari a determinare il trionfo sull’Anderlecht, una delle migliori formazioni per rendimento del panorama europeo dello scorso secolo (l’istituto di storia e statistica del calcio, riconosciuto dalla FIFA, colloca la compagine belga al decimo posto fra le migliori formazioni del Novecento del Vecchio Continente), alla quarta finale in una manifestazione già vinta per due volte nel ’76 e nel ’78 (per i belgi in bacheca già all’epoca anche la Coppa UEFA del 1983 e due supercoppe europee).
Allo stadio Ullevi di Goteborg Vialli e compagni, fidati scudieri di Vujadin Boskov, istrionico e sarcastico come pochi, compiono dunque l’impresa di condurre la societá ligure ad issare il proprio vessillo sul Vecchio Continente. Un periodo d’oro per Luca e per la Samp che culminerà straordinariamente con la vittoria dello scudetto, con le immagini indelebili della festa tricolore successivamente al trionfo sul Lecce per tre reti a zero (in virtù delle marcature di Cerezo, Mannini e, ca va sans dire, di Vialli, capocannoniere del torneo).
L’atto conclusivo della splendida avventura in blucerchiato è l’amara finale di Wembley contro il Barcellona, durante la quale più volte Luca sfiora la marcatura che avrebbe potuto rappresentare l’apoteosi per la compagine genovese, punita dalla beffarda punizione di Koeman.
Trasferitosi alla Juve (che conclude l’operazione di mercato più dispendiosa sino a quel momento della storia) Vialli sembra non elevarsi all’altezza della sua fama e delle sue potenzialità durante le prime due stagioni (comunque condite dalla vittoria della Coppa UEFA ma amaramente prodrome della mancata convocazione alla rassegna iridata del 1994), prima di esplodere con Marcello Lippi, vincendo il tricolore nel 1995 e divenendo indiscutibilmente il leader tecnico e carismatico di una squadra bella e coriacea che agguanterà l’anno successivo il tetto d’Europa.
Chiusa, come con la Samp, l’esperienza in bianconero con la più nobile delle partite esistenti, Gianluca Vialli opta per l’esperienza all’estero, divenendo uomo simbolo del Chelsea con cui vince nuovamente la Coppa delle Coppe. Assurge a guida tecnica della compagine londinese nelle inconsuete vesti di “giocatore-allenatore”, ma, quella di tecnico, con i blues prima e con il Watford poi, sarà una carriera che sostanzialmente non percorrerà, pur trionfando in FA Cup, coppa di lega e Supercoppa Europea.
È uno dei nove giocatori della storia del calcio, con, tra gli altri, Cabrini, Scirea, Brio, Tacconi e Tardelli, ad aver vinto tutte le competizioni UEFA (e sarebbe stato il settimo giocatore mondiale ad aver vinto tutti i trofei internazionali qualora non fosse andato via da Torino e avesse disputato la Coppa Intercontinentale del 1996 con la Juventus). Per molti è stato il miglior centravanti della gloriosa storia azzurra, pur non suggellando con un successo le spedizioni mondiali (in particolare quella casalinga del 1990, manifestazione che avrebbe potuto elevarne lustro e consegnare ai posteri ben altre reminiscenze) e la rassegna continentale del 1988, differentemente, pittorescamente, d’arancio dipinta in virtù delle prodezze di Gullit e Van Basten.
Ebbe la possibilità di trasferirsi al Milan allorquando la società rossonera veleggiava incontrastata dominando l’Europa: declinare le avances di Berlusconi e non indossare la maglia della squadra in quel momento più forte del globo apparve, inevitabilmente, folle. Eppure Luca rifiutò il trasferimento dopo aver stretto un patto di ferro all’interno dello spogliatoio blucerchiato, giurando di lasciare Genova esclusivamente dopo aver condotto la Sampdoria sul trono italico. Profetico. Umanamente profetico. Visceralmente legato a valori desueti per la modernità.
Era uomo di una tale caratura da “subire” la portata delle proprie emozioni trascinandole nell’espressione professionale, inficiando o esaltando, di conseguenza, le proprie prestazioni. Trascinatore per antonomasia, condottiero integerrimo, concentrato di leadership assoluta sul terreno di gioco, esempio sublime di uomo. Acuto, solidale, provvisto di notevole cultura, sagace. Spettacolare. Come i suoi gol, le sue sforbiciate, i suoi gesti acrobatici di pregevole fattura che gli valsero l’epiteto, coniato da Gianni Brera, di “Stradivialli”. A distanza di due anni la sua umanità ed il suo sorriso si ergono imponenti quali esempi genuinamente inconfondibili ed indimenticabili istantanee scolpite nel candore di un candido ricordo.
BIO: ANDREA FIORE
Teoreta, assertore della speculazione del pensiero quale sublimazione qualitativa e approdo eminentemente più aulico della rivelazione dell’essenza di sé e dello scibile, oltre qualsivoglia conoscenza, competenza ed erudizione quali esclusive basi preliminari della più pura attuazione di riflessione ed indagine. Calciofilo, per trasposizione critico analitico di ogni sfaccettatura dell’universo calcistico, dall’ambito tecnico-tattico all’apparato storico, dalla valutazione individuale e collettiva ai sapori geografici e culturali di una passione unica. La bellezza suprema del calcio è anche il suo aspetto più controverso: è per antonomasia di tutti e tutti pensano di poterne disquisire.