FLOW: L’ESPERIENZA OTTIMALE PER LA PERFORMANCE MIGLIORE

“Se riuscite a continuare a giocare a tennis quando qualcuno sta sparando con una pistola in fondo alla strada, allora quella è concentrazione, quello è essere nel flow”. (Serena Williams)

Mihály Csíkszentmihályi (1934-2021). Il peggior incubo di ogni cronista, se fosse stato un calciatore.

Ma stiamo parlando di uno psicologo, di origini ungheresi. Csíkszentmihályi ha dedicato una vita agli studi sulla felicità e la creatività, coniando nel 1975 il concetto di flow (“flusso corrente”), uno stato mentale propedeutico a quella che lui definisce esperienza ottimale. Ognuno di noi lo ha già sperimentato, tipicamente nel corso di attività ricreative – il gioco, il sesso, i rituali religiosi, lo sport, la musica o altre arti – ma potenzialmente ovunque. Si tratta infatti di uno stato di coscienza hakerabile, allenabile ed esportabile ad ogni contesto, incluso il lavoro. Nella frenesia quotidiana può passare inosservato. Ma fermandoci un istante siamo in grado di riconoscerlo distintamente, in tutta la sua potenza. E per descriverlo mi appoggio a Mick Odelli, in arte JustMick, storyteller e divulgatore scientifico.

Siamo nel flow quando ci scopriamo completamente immersi e coinvolti in un’attività, al punto da non pensare consciamente a ciò che sta accadendo. Mente e corpo sono in simbiosi, ad ogni azione ne segue un’altra in modo perfetto. Il tempo si distorce, sembra sparire e nel frattempo vola, mentre tutto fluisce con armonia. La sfida che stiamo affrontando non genera fatica, la gravità del compito non ci preoccupa.

Procediamo inesorabili, con intensità ma privi di tensione. Siamo più presenti che mai, così tanto da perdere il senso del sé. Ci dimentichiamo di bere, di mangiare, di dormire, di andare in bagno. Csíkszentmihályi la descrive come un’esperienza talmente piacevole e appagante da diventare “autotelica”: il nostro Ego svanisce di fronte allo scopo, e la realizzazione dello scopo è l’unico fine. Andiamo avanti, ancora e ancora, senza alcuna promessa di gratificazione esterna. Siamo automotivati dal dispiegamento delle nostre azioni e intuiamo di essere immersi nella corrente, guidati da un’autocoscienza in perpetuo divenire.

Ayrton Senna racconta così il suo storico “giro perfetto” del 14 maggio 1988, alle qualifiche del Gp di Monaco: “ero già in pole position, prima di mezzo secondo, poi di un secondo e andavo, andavo, andavo sempre più forte. In poco tempo ero due secondi più veloce di chiunque altro; stavo guidando istintivamente, ero in un’altra dimensione, in un tunnel, ben oltre la mia capacità razionale. In quel giorno mi sono detto: è il massimo che posso raggiungere, non c’è margine per qualcosa in più. Non ho mai più raggiunto quella sensazione da allora”. Quel giorno Senna era in completo stato di flow. Disse di aver avuto la sensazione di osservare sé stesso da fuori l’abitacolo. Quando all’improvviso se ne rese conto, la paura lo paralizzò e fu costretto a rientrare ai box. Aveva perso il senso del rischio.

In ambito sportivo lo stato di flow ci avvicina alla miglior performance, crea le condizioni per sprigionare il proprio potenziale e, di fatto, da sostanza a ciò che comunemente intendiamo per “Stato di Grazia” o “trance agonistica”. Essere “in the zone”, dicono gli americani, alludendo a un’esperienza metafisica, di un’altra realtà.

Un mix tra senso di esaltazione e di pieno controllo, che trasforma la percezione dello spazio-tempo e sposta il limite. Sentite Pelé: “era come se provassi una strana calma, una specie di euforia. Sentivo che potevo correre per tutto il giorno senza stancarmi e che potevo dribblare qualunque giocatore della squadra avversaria e quasi passare fisicamente attraverso loro”.

Di famose testimonianze come queste se ne trovano molte. Dal “10 perfetto” di Nadia Comaneci alle Olimpiadi di Montréal 1976, a “Dio travestito da Jordan” con i 63 punti contro i Boston Celtics (1986). E molti altri non emergono, ma esistono. Francesco Riccardo, psicologo dello sport, racconta a Valentina Desalvo per La Repubblica (26 febbraio 2024) di aver lavorato con una nuotatrice che arrivava a sentirsi lei stessa l’acqua, un velocista che sentiva il corpo tagliare l’aria, un pesista che quasi non sentiva il peso portato sopra la testa. Ci sono giocate provate e riprovate, immaginate per anni, in attesa delle condizioni perfette. E quando arriva il momento, senza che tu te ne renda conto, scocca la scintilla e nasce il capolavoro. Come il gol in rovesciata di CR7 in Juve-Real del 2018.

In effetti lo sport professionistico rappresenta un contesto privilegiato per osservare ed esplorare questi concetti. Campione è (anche) colui che sa offrire il proprio picco di performance esattamente quando serve.

La giornata giusta è una sola, è quella. Nella maggior parte dei casi, non ci sarà un’altra chance. Nell’ambito della teoria del flusso sono i “peak moments”, dove la prestazione ottimale si verifica al momento giusto.

Non è il mio campo, ma mi sembra che il concentrarsi sul flow e sulle condizioni che lo favoriscono possa aiutare a porre al centro della preparazione dell’atleta gli aspetti mentali e psicologici, con un risultato molto importante: la conciliazione tra la ‘fredda’ esigenza di una performance superiore e il bisogno più ‘umano’ di realizzarla attraverso un’esperienza gratificante. In questo senso è un bene il crescente interesse per il flow che si intuisce da parte della Psicologia dello Sport e degli addetti ai lavori. Sempre Valentina Desalvo per La Repubblica racconta, ad esempio, della centralità dei concetti di Csíkszentmihályi nella tesi di Coverciano scritta da Thiago Motta, alla ricerca di uno “stato mentale che porta i giocatori a non nascondersi ma a giocarsela immersi nel flusso”.

Il motore d’avviamento dell’esperienza del flow è un elevato grado di concentrazione e attenzione focalizzata. Siamo nel “Qui ed ora”, l’attenzione è focalizzata su un campo d’azione limitato ed è fuori dal tempo, senza alcun rimando al passato o al futuro. In questo senso, chi pratica meditazione o mindfulness potrebbe avere dei vantaggi. Il carburante dell’esperienza è la passione: ciò che stiamo facendo deve gratificarci di per sé e generare una motivazione intrinseca (esperienza autotelica). Ma servono altre condizioni, sintetizzando Csíkszentmihályi:

1. Chiarezza degli obiettivi e senso di controllo – le aspettative sul ruolo del soggetto e i suoi compiti rispetto allo scopo sono esplicite e condivise; il soggetto deve percepire di poter gestire la situazione;

2. Bilanciamento tra sfida e capacità – un’attività troppo semplice genera noia, una sfida troppo difficile sfocia nell’ansia. Né troppo rilassati, né troppo tesi, per poter essere intensi;

3. Perdita di autoconsapevolezza – serve immergersi nell’attività al punto da entrare in uno stato di auto- dimenticanza e di sospensione del proprio Ego;

4. Integrazione tra azione e consapevolezza – ai massimi livelli di impegno e concentrazione, il soggetto è talmente assorto nelle azioni da riprodurle in modo ‘naturale’ secondo una logica interna;

5. Retroazione diretta e inequivocabile – il soggetto deve percepire l’effetto (positivo o negativo) di ogni sua azione in modo chiaro, e sarà in grado in ogni caso di trarne rinforzo motivazionale.

Le neuroscienze evidenziano come all’interno di uno stato di flow il nostro cervello lavori in ipofrontalità transitoria. Potremmo pensare che nel picco di performance la nostra capacità di calcolo aumenti e invece, al contrario, l’attività cerebrale si riduce. Entriamo in uno stato di economia cognitiva, di risparmio energetico, dovuto appunto alla riduzione dell’attività nei lobi frontali. Sono quelli del giudizio, del dialogo interiore, del senso del tempo. Spegniamo la Default Mode Network (DMN), la “mente errante” che ci frena e induce prudenza, quella rete neurale di pattern consolidati che solitamente usiamo per paragonarci agli altri, o per confrontare esperienze presenti e passate.

Minimizziamo tutto questo per dedicare massima energia cognitiva a supporto dell’attenzione al compito nel “Qui ed ora”. Nello sport, andiamo in “goal setting”, liberando spazio ed energia per l’intuito, l’istinto, il riflesso improvviso, la naturalezza dei movimenti. Trasformando la sfida in qualcosa di gratificante. Dove tutto ci riesce al meglio, nel modo più fluido possibile, e ogni evento alimenta la motivazione e rinsalda la concentrazione. Così nulla, in quel momento, ci sembra impossibile. Il Mental Economy Training (MET), metodologia di allenamento alla quale si appoggia Jannik Sinner, attinge dalla tradizione degli studi sul flow e dal lavoro di Mihály Csíkszentmihályi. Che invito me stesso ad approfondire e praticare, alla ricerca di nuove e più frequenti esperienze ottimali. Come quella dell’altra notte, quando all’improvviso mi sono accorto che stavo giocando a scacchi da 4 ore e stavo tenendo testa a gente molto più brava di me, senza sapere come.

BIO Alessandro Scalcon: 35 anni, sociologo di formazione, senior researcher dell’Istituto SWG. Cura indagini scenariali, osservatori valoriali e sondaggi d’opinione, in particolare su giovani, innovazione, sport, lavoro e ambiente. Svolge con regolarità ricerche a supporto di iniziative di comunicazione e posizionamento strategico. Si è occupato della generazione di contenuti editoriali data-driven tra gli altri per La Gazzetta dello Sport e La Repubblica. Da sempre cuore rossonero, appena può in Curva Sud al Romeo Menti di Vicenza.

3 risposte

  1. grazie per il contenuto, ho prenotato il libro Flow per approfondire tutto quello trattato nell’interessantissimo articolo, volevo chiedere se l’esperienza del flow potesse accadere anche in situazioni di sport di squadra anche con intensità diverse rispetto all’esperienza singola e se ci sono episodi in tal senso…….a me è venuto in mente il secondo tempo del Liverpool con il Milan nella rimonta da 3 a 0 o se siamo lontani dalla “trance” del flow dell’articolo, grazie

  2. Buonasera Luca, grazie a lei. In effetti questo è un gran bel punto. Da curioso e non da esperto, l’idea che mi sono fatto è la seguente: nel flow guidano l’autocoscienza e le percezioni individuali, dunque la teoria si applica per lo più alla performance individuale. All’interno di uno sport di squadra però i singoli attori in gioco e l’organizzazione complessiva sono parte attiva nel creare le condizioni necessarie al flow individuale. Ecco allora che più stati di flusso potrebbero provocarsi e alimentarsi a vicenda. La logica rimane ‘interna’ e soggettiva ma, all’interno di una cornice di senso condivisa, il risultato può essere quello di una corrente ben più intensa della somma (teorica) delle migliori performance individuali. Trovo che la catarsi collettiva di certi rituali religiosi sia rivelatrice in questo senso. Sul piano sportivo, se questa fosse la spiegazione di Istanbul, beh almeno ne avremmo una 🙂 Lieto del suo interesse e di condividere qualsiasi nuovo spunto.

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