MILAN – INTER 1-1: PAREGGIO SOFFERTO, PAREGGIO DI SQUADRA

Come si suol dire: non si deve giudicare un libro dalla copertina. Questo a sfatare la massima provocatoria di Oscar Wilde, il quale sosteneva che solo le persone superficiali non giudicano dall’apparenza. Senza addentrarsi in disquisizioni letterario-filosofiche su cosa significhi, nell’idea di Wilde, la parola “apparenza”, si potrebbe invece postulare su una certa – evidente – commistione tra ciò che è apparente e ciò che è sostanziale, cosa che renderebbe il paradosso… molto meno paradossale.

Perché ciò che siamo contamina ciò che esprimiamo e viceversa. E allora, per tornare a parlare di Milan, cosa abbiamo visto domenica scorsa, nel post partita (una partita soffertissima e vinta per un soffio) della gara contro il Parma, quando Sergio Conceição si è scagliato contro l’ex capitano milanista, Calabria, e la rissa è stata scongiurata per un nonnulla? Abbiamo visto l’apparenza o la sostanza? Immagino che si possa presumere di avere visto la fusione di entrambe le istanze: da una parte un’idea che si vuol dare di sé, l’apparenza da uomo-che-non-deve-chiedere-mai, dall’altra la sostanza di una situazione conflittuale che si riflette in modo chiaro anche nelle prestazioni, troppo altalenanti, sovente confuse o svogliate.

E non c’entrano i concerti (ma c’entra, volendo un’idea di professionalità che è un po’ sfumata), non c’entrano neppure i torti e le ragioni, ammesso che sia così urgente stabilirli e metterci sopra un bollino di garanzia. C’entra men che meno la soggettività – ripeto: la soggettività – della percezione circa il valore calcistico di Davide Calabria: una zuffa simile va deprecata in quanto tale, indipendentemente da quanto ci piaccia/non ci piaccia chi è stato coinvolto. Inutile girarci intorno: l’ambiente Milan non sta favorendo, da troppo tempo, rapporti sereni tra le parti. Poca chiarezza e un’esasperante lentezza nelle trattative per i rinnovi contrattuali? Anche, direi. Mi chiedo se non risieda in questo, o anche in questo, la brezza che sembra far dondolare in perpetuo l’apparenza/sostanza di Theo Hernández. Il nostro terzino sinistro, dotato come pochi altri nel suo ruolo, ormai da mesi pare essere assurto alla sostanza dell’”uomo che non c’era” di coeniana memoria: una carriera che va avanti, sostenuta da un’interazione apparente (o inerziale), ma è come se non andasse da nessuna parte. Oggi bene, domani male e così via.

Premesso ciò, mi auguro di non dover più assistere a scene tanto volgari e deprecabili, non solo per la squadra che tifo, ma in qualunque contesto sportivo. E se dovesse, per caso, succedere di nuovo, mi aspetto che chi se ne rende responsabile non sia semplicemente redarguito con un buffetto sulla guancia perché, in questo caso sì, è una questione di principio che nulla c’entra con coppe e risultati. Che poi, a margine, aggressività porta aggressività e i nervi poco saldi sono contagiosi: mai visto il pur irruento (ma di solito in accezione positiva) Musah comportarsi come ha fatto contro la Dinamo Zagabria, privo di senso della misura, ostinato in atteggiamenti che qualunque professionista sa che verranno sanzionati, specie se c’è già stato un giallo. Segno che, al di là delle dichiarazioni di facciata, l’elettricità ha continuato a serpeggiare, in quel di Milanello. Accetto smentite, per carità.

Se è sacrosanto che non si giudichi un libro dalla copertina, come anticipato poco fa, è pur vero che non ci si dovrebbe accontentare di un buon incipit per sancire di trovarsi di fronte a un caposaldo letterario. Certo, la storia della letteratura ci ha regalato delle aperture memorabili. Uno, davvero noto, riprende addirittura il nome di un giocatore del Milan: “Call me Ishmael”, “Chiamatemi Ismaele” è l’apertura di Moby Dick. Ma, pensando al Milan, viene in mente soprattutto l’inizio di Anna Karenina: «Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo».

Il nostro Milan, entità proteiforme che passa agevolmente dalla vittoria della Supercoppa (dal modo in cui l’ha vinta, con rabbia agonistica e carattere, quando ogni speranza sembrava perduta) a prestazioni sbiadite come quelle contro il Cagliari o contro il Parma. Una squadra che, dalla vittoria contro il Real Madrid, nel regno del Real Madrid (ma c’era ancora Fonseca), si trova a dare di sé un’immagine come quella vista a Zagabria, contro una squadra scafata e atletica, ma non certo calcisticamente irresistibile. Per racchiudere in un’unica parola quella prestazione (il primo tempo in special modo, ma è inutile fare troppi distinguo), si può usare, senza particolari remore, “nulla”. Nulla: non un’idea tattica riconoscibile, nessuna identità d’insieme, nessun commitment, come dicono gli inglesi, un impegno di responsabilità. Aggrapparsi al rigore ingiustamente revocato, nella fattispecie di una squadra che sembrava rassegnata alla mediocrità, diventa sciocco: siamo onesti e ammettiamo che non abbiamo visto niente di ciò che può portare alla vittoria, in un momento in cui la vittoria, e il conseguente accesso diretto agli ottavi di Champions League, sarebbe stato l’unico risultato utile.

Ed è davvero difficile spiegare perché, anche a seguito di un piccolo o grande trionfo – talvolta insperabile, per come si era messa la specifica partita – non ci sia mai la coda lunga di risultati buoni o perlomeno discreti e di un atteggiamento propositivo.

Una notazione doverosa sulla finestra di mercato invernale: non una maratona, ma una corsa dei cento metri. Al momento, e a poche ore dalla chiusura della stessa (fissata alla mezzanotte del 3 febbraio), registriamo l’ingresso, in prestito con diritto di riscatto, di Kyle Walker, terzino solido e di grande qualità, ma senza dubbio non di prospettiva, per una mera questione anagrafica. È finalmente anche arrivato l’assenso del Feyenoord per la cessione di un attaccante giovane e assai promettente, il messicano Santiago Giménez: una firma che era urgente almeno quanto lo sarebbe stata quella per un back-up di Fofana. Degli altri nomi che si sono rincorsi, da Rashford (poi preso dall’Aston Villa) a Ricci fino a Joao Felix, pare che solo il portoghese sia rimasto in lizza al fotofinish.

L’uscita più eclatante, e quella che apre maggiormente a una riflessione, è quella di Álvaro Morata. L’attaccante spagnolo, il cui destino al Milan è stato analogo a quello di Gonzalo Higuaín, ovvero una toccata e fuga, non è mai stato troppo prolifico, in termini di gol. Si tratta di un giocatore che fa molto lavoro per la squadra – al Milan ha dovuto farlo per carenze nei reparti – la aiuta a salire e libera spazi di inserimento (per chi? Mica è un problema di Morata, però!). Se ciò era noto, e lo era a tutti, perché è stato acquistato, dal momento che con la partenza di Giroud l’impellenza era diventata quella di un centravanti d’area, un purosangue, insomma? Nonostante l’arrivo di Giménez (col quale avrebbe tra l’altro potuto coesistere, proprio per quanto detto sopra), mi dispiace che sia partito.

Sembrava tutto fatto per Tomori al Tottenham, ma il giocatore inglese pare avere posto un veto al trasferimento: vuole restare in rossonero. Se la decisione lo ha rinfrancato – e la performance contro l’Inter è stata di dedizione e di qualità – bene così. Per fortuna anche le voci di mercato sull’ottimo Pavlovic si sono affievolite presto, complice l’infortunio di Malick Thiaw.

Sarebbe in partenza anche Emerson Royal, se non fosse per il recente infortunio, a conferma di un mercato estivo da leggere, almeno in parte, in chiave dubitativa.

Salutiamo per certo l’ex capitano Davide Calabria, approdato sabato al Bologna di Italiano e di Sartori (è chiaro quanto sia determinante un valido DS?). Una buona squadra e una società che mi sembra intenzionata a fare le cose su serio, senza eccessive pressioni, ma con tenacia. Se ne sarebbe andato a giugno, a scadenza di contratto, e questa fretta è da imputare alla scena – o sceneggiata – del post Parma, non ascrivibile a lui, al di là della reazione sbagliata che possa aver avuto al momento della sostituzione. Davide è un milanista vero, tifoso e sempre disposto a sacrificarsi per la maglia. Avrebbe almeno meritato di poter salutare i tifosi con un giro di campo, ma così non è stato: gli auguro il meglio per il prosieguo della sua carriera.

Con questi prodromi, che non lasciavano presagire granché di buono, siamo arrivati al derby, a poche settimane da quello arabo che ci è valso la Supercoppa italiana. Pesante, sulla carta, l’assenza di Fofana in mediana, a causa della squalifica rimediata, con un po’ di ingenuità, contro il Parma.

Ed ecco che però l’eterna fenice risorge ancora una volta e smentisce ogni proiezione del giorno prima, che già la dava per spacciata, per spacciata di brutto. Conceição sceglie di disporre la squadra, almeno inizialmente, secondo un modulo più prossimo all’1-4-4-2 che all’1-4-3-3, con Tammy Abraham e Pulisic a guidare il reparto offensivo.

La decisione è interessante e, nei fatti, si è dimostrata vincente, anche se il risultato, 1 a 1, come sappiamo, sembrerebbe smentire questa affermazione. Be’, per come si erano messe le cose alla vigilia, facciamoci bastare il pareggio! Questo perché, se non si considerano alcune inezie che hanno rischiato di metterci in difficoltà, la squadra ieri sera ha dimostrato di essere presente a sé stessa (e col Milan non è scontato!).

Da un punto di vista concettuale, con l’1-4-4-2, il Milan aveva alcuni vantaggi strategici. Intanto le ali, sebbene Rafa nel primo tempo sia stato non sempre reattivo, hanno potuto attaccare direttamente i quinti dell’1-3-5-2 di Inzaghi. Sia a sinistra che a destra, Theo e Kyle Walker – ieri entrambi da promuovere senza dubbio – pur con caratteristiche tecniche diverse, hanno saputo spingere la squadra in avanti, creando così situazioni di 2 contro 1 sulle fasce. Ciò ha costretto i centrocampisti avversari a raddoppiare e a lasciare zone in mezzo (non sempre sfruttate a dovere, probabilmente anche per questione di automatismi non ancora appresi). Si è visto anche in occasione del nostro gol: da una buona giocata di Abraham, che ha recuperato palla in zona centrale, è scaturita la verticalizzazione rapida che è culminata con la rete dell’ormai affidabilissimo, anche sotto porta, Tijjani Reijnders (che già aveva tentato di mirare l’incrocio dei pali, a inizio partita, con i soli riflessi di Sommer a evitare il gol). La maggiore compattezza in fase difensiva – sia Pavlovic che Tomori si sono distinti in positivo – con le due linee da quattro ordinate a mo’ di segmento longitudinale al terreno di gioco – rispetto invece alla trasversalità, talvolta angolare, dei movimenti degli avversari – ha contribuito a schiacciare gli esterni in fase di non possesso, lasciando così spazio per i tagli dei giocatori d’attacco. Molto attenti i nostri, e forse in alcuni casi anche un po’ avventati, dato che quel maledetto secondo palo continua a essere sguarnito e ci è costato il pareggio nei minuti di recupero, anche nella gestione del fuorigioco. I giocatori dell’Inter si trovano a memoria secondo schemi che ormai sono più che consolidati. Il rischio di perdersi, in particolare Thuram o Lautaro, veloci e connessi, era alto, a meno, appunto, di non costringere la beneamata a giocare sempre sul filo dell’offside: le reti annullate sono il compimento di questa strategia di “attesa”.

Il Milan ieri sera è riuscito, al netto di una dose di fortuna nei tre pali interisti – del resto, audaces fortuna iuvat – a controbilanciare in modo proficuo i principali punti di forza dell’Inter di Inzaghi. Cercando di gestire il possesso e attuando un pressing alto e sufficientemente coordinato, il più possibile, perlomeno, la squadra ha evitato uno dei rischi principali in cui poteva incorrere, ovvero quello di essere travolta dal palleggio avversario nelle zone di minore densità a centrocampo (oltre a quello di trovarsi costretta a giocare palle lunghe senza qualità).

Non tutto è andato benissimo – qualche errore tecnico di troppo, qualche sbandamento – ma è andato abbastanza bene da garantirci un pareggio che, almeno sul piano mentale, è oro, in un momento come questo.

Spiace per le sostituzioni sul finale, dovute anche a un calo fisico comprensibile rispetto alla freschezza degli innesti avversari, in particolare Bisseck e Carlos Augusto, braccetti capaci di agire da propulsori sia a destra che a sinistra, per Dumfries e Zalewski: optando per una difesa a cinque, con tre centrali, dunque, l’allenatore ha tuttavia come abiurato tutto ciò che aveva costruito in precedenza, obbligando la squadra a ripiegare nella propria area. Il principio, molto italiano, è di solito foriero di guai, in questo caso rappresentati dal gol del pareggio di de Vrij al novantatreesimo minuto. In un match divertente e bilanciato, che vede il pari come un risultato “giusto”, resta comunque  un po’ di amaro in bocca.

E siamo al punto di partenza, a un nuovo, ennesimo, incipit. Il cuore ci dice che questa sia la volta buona? Attendiamo, in ogni caso, ché, come recitava il titolo di un caso editoriale di un paio di decenni fa: ingannevole è il cuore più di ogni cosa.

MILAN (1-4-4-2): Maignan; Walker, Tomori, Pavlović, Hernández; Musah (78’, Terracciano), Bennacer (46’, Jimenez), Reijnders; Pulisic (86’, Chukwueze), Abraham (78’, Camarda), Leão (85’, Gabbia). A disp.: Sportiello, Torriani; Bartesaghi, Gabbia, Jiménez, Terracciano, Thiaw; Zeroli; Camarda, Chukwueze, Jović, Okafor. All.: Conceição.

INTER (1-3-5-2): Sommer; Pavard (63’, Bisseck), De Vrij, Bastoni (63’, Carlos Augusto); Dumfries, Barella, Çalhanoğlu (63’, Zieliński), Mkhitaryan (75’, Frattesi), Dimarco (76’, Zalewski); Thuram, L. Martínez. A disp.: Calligaris, J. Martínez; Acerbi, Bisseck, C. Augusto, Darmian; Asllani, Frattesi, Zalewski, Zieliński; Arnautović, De Pieri, Taremi. All.: Inzaghi.

Arbitro: Chiffi di Padova.

BIO: ILARIA MAINARDI

Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita. 

Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema. 

Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.

Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!

2 risposte

  1. Cosa dirti questa volta Ilaria? Non solo hai ben descritto le vicende di uno dei derby più adrenalinici della storia meneghina, ma hai anche realizzato, come nei riassunti delle migliori fiction televisive e a beneficio di coloro che in settimana bianca si fossero persi gli ultimi avvicinamenti calcistici, un resume’ delle puntate precedenti dove, tra lacrime, gesti di stizza ed occasioni perdute si è cercato di dare il vero ossigeno ad alimentare, in maniera stabile, questa fiamma del Diavolo sempre più pazza, saltellante, a volte intensa ma troppo spesso… inverosimilmente latente e fatua!!
    Buona giornata.

    Massimo 48

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