LE GRANDI SQUADRE CHE NON HANNO VINTO IL MONDIALE: L’ITALIA DEL 1990 – 1^ PARTE

NOTTI MAGICHE TRANNE UNA

E’ opinione comune che il decennio più prospero dell’Italia sia stato l’ultimo del secondo millennio.

Gli anni 90 hanno rappresentato l’apice economico e sociale di un paese che, vivendo al di sopra delle proprie possibilità, ha raggiunto in quel periodo livelli di benessere sconosciuti in precedenza.

Sul finire degli anni 80, l’odore del piombo e del sangue legato al terrorismo dei lustri precedenti è stato spazzato via da un’aria intrisa di leggerezza, non più rivolta all’edonismo del decennio precedente, ma tendente al cosidetto “pensiero positivo” (copyright Jovanotti).

Per alcuni trattasi di disimpegno, per altri è il riscatto dalle origini rurali e dai sacrifici delle generazioni che li hanno preceduti.

Emblematico da questo punto di vista lo scatto in avanti della piccola media impresa, dominante nel Nord Est. E’ un balzo notevole al punto di non dover più considerare la metropoli come unico riferimento di tendenza.

 
La provincia si erge, da far suo, a contesto florido di idee economiche, culturali, sociali e sportive.

Uno scossone importante arriva dal trevigiano nel momento in cui due fratelli, uno con spiccate attitudini manageriali e l’altro animato da un senso commerciale “visionario”, ingaggiano un fotografo che porterà il loro marchio a conquistare le vetrine e le copertine di tutto il pianeta.

Gilberto e Luciano Benetton armano le loro idee della scoppiettante creatività di Oliviero Toscani.

La provincia sale al potere.

E nello sport produrrà titoli nazionali ed internazionali in sequenza: nel rugby, nel volley e nel basket. Non paghi di questo, affideranno ad un altro “provinciale” che risponde al nome di Flavio Briatore le sorti di un team di Formula 1, che non si limiterà a mangiare la polvere delle grandi case costruttrici esponendo il logo di casa Benetton, ma porterà a casa con Schumacher alla guida sia il campionato del mondo costruttori che il titolo piloti.

Altri imprenditori “fatti da sé” li seguiranno e, una volta raggiunti i vertici, approderanno a salotti delle capitali industriali e culturali.

A cavallo del 1990 l’Italia del cinema trionfa tre volte agli Oscar conquistando la statuetta per il  miglior film straniero.

Da Bertolucci, che raggiunge l’olimpo con “Ultimo Imperatore”, ai giovani Tornatore e Salvatores, vincitori rispettivamente con “Nuovo Cinema Paradiso” e “Mediterraneo”, arriva un messaggio in controtendenza rispetto allo stile classicista che aveva meravigliosamente ritratto l’Italia del dopoguerra: l’analisi si sposta dalla società all’individuo.

Cominciano a perdere colpi i movimenti collettivi finalizzati alla lotta di classe o all’indottrinamento di massa; dai partici politici ai sindacati sino alle parrocchie vi è una sorta di repulsione verso il concetto di pensiero unico a cui tutti devono uniformarsi.

Si comincia a ragionare per teste e non più per centri di interesse.

L’associazionismo (che rimane in voga grazie alle prime “fondazioni”) tiene unite le persone per lo scopo, non più per uniformità di vedute.

Anche la musica cambia registro. I grandi cantautori di fine anni 70 sono di fronte ad un bivio: rimodularsi secondo un trend più melodico o sparire dalla scena. Le band dedite al rock progressivo che avevano raggiunto la ribalta a cavallo degli anni 80 cominciano a perdere l’attenzione dei giovani. I temi sociali vengono spesso sacrificati sull’altare delle grandi popstar anglosassoni e, quanto al contesto nostrano, scontano la voglia di leggerezza che attecchisce sia nei giovani che negli adulti.

I dischi in vinile, superati nel gradimento dalle musicassette ascoltabili tramite autoradio, stanno per lasciare il passo ai compact disc. Se ne staranno in soffitta un paio di decenni prima di consumare la loro vendetta e ritornare in voga.

La musica leggera è leggera per davvero e poco importa che in alcune kermesse ci si esibisca in playback.

Per la verità alcuni mostri sacri rimangono sulla breccia, in qualche caso dopo aver modificato lo stile, il suono ed anche il look.

Tra i tanti ve ne è uno, Lucio Dalla, abituato a vivere più avanti rispetto al suo tempo. Ha già dato vita a memorabili duetti, prima in tour con De Gregori e poi con Morandi, quando decide di accompagnare la musica italiana nel nuovo decennio con un disco che per sonorità, figure retoriche e retrospettiva rimarrà ineguagliabile.

Il titolo, “Attenti al Lupo”, pare un avvertimento o meglio un presagio…

Sarà proprio un duetto, formato da Gianna Nannini ed Edoardo Bennato, ad allietare musicalmente l’estate del 1990 con un brano entrato nei cuori di molti il cui titolo “Un’estate italiana” viene immediatamente sostituito nell’immaginario collettivo dall’iconica espressione “Notti magiche”.
Un po’ come accaduto oltre trent’anni prima con “Nel blu, dipinto di blu” ricordata dai più come “Volare”.

La moda, altro contesto di nicchia del made in Italy, vive il suo apice con Milano che assurge a ruolo di capitale internazionale del glamour.

Se è vero che le tendenze partono da Londra e New York è altrettanto vero che, in un’epoca non ancora globalizzata, gli stilisti italiani, ognuno con i propri tratti distintivi e con buona pace dei colleghi d’oltralpe, sono dominanti per creatività, genio ed originalità.

E poi c’è il calcio.

Nel 1990 il campionato italiano vanta la presenza delle più importanti star del pallone.

Il livello degli stranieri in Italia è altissimo; basti pensare che nell’ultimo triennio a spartirsi il tricolore sono stati gli olandesi del Milan, i tedeschi dell’Inter con Diaz ed il mix brasiliano-argentino del Napoli.

La circostanza secondo cui non ne siano tesserabili più di tre per club concede anche a tifosi di squadre meno nobili la possibilità di godere delle gesta di campionissimi

Elkjaer e Briegel hanno portato uno scudetto in riva all’Adige, i capitani di Brasile ed Argentina (Socrates e Passarella) hanno militato nella Fiorentina, Casagrande dipinge calcio ad Ascoli, Junior ha concluso il suo magistero in provincia esattamente come Stromberg, Barbadillo ed  Edinho (che ha avuto compagno di squadra ad Udine il grande Zico).

Qualsiasi incontro a cui si abbia la fortuna di assistere annovera qualche campione in seno alla contesa.

E di stelle siamo destinati a vederne anche durante l’estate perchè il campionato del mondo 1990 si giocherà in Italia.

Il paese è avvolto da un’atmosfera indescrivibile.

Il problema è soprattutto per i non appassionati di calcio che per un mese non sentiranno parlare d’altro.  Al lavoro, all’edicola, al supermercato, nelle strade l’unico argomento è il mondiale.

Il nostro mondiale.

L’avvicinamento, in perfetto stile italiano, non è stato tutto rose e fiori. Indagini giudiziarie, scandali e cantieri non completati (o completati con costi triplicati) hanno catalizzato l’attenzione.

Nulla di cui vantarsi se non fosse che da sempre i grandi eventi sportivi, unitamente alla venticinquennale ricorrenza del Giubileo, rappresentano l’unica occasione per migliorare strutture ed infrastrutture in Italia.

Gli stadi si sono rifatti il trucco tranne il nuovissimo e modernissimo San Nicola Di Bari.

Ad eccezione di San Siro, diventato ancora più monumentale, e dell’Olimpico, che si è dato un’immagine salottiera, i rimanenti impianti si riveleranno ben presto inadeguati per il football del terzo millennio.

Ma adesso, tutto è destinato a svanire perchè il sipario sta per alzarsi.

Il mondiale sta per cominciare e ce lo vogliamo godere. 

Siamo i favoriti, inutile negarlo, forse anche troppo alla luce del valore di alcune formazioni avversarie. Ma giochiamo in casa ed, anche se le ultime uscite non hanno entusiasmato, il sentimento del paese viaggia unito verso la convinzione che non si possa perdere.

La nazionale italiana del 90, affidata secondo il trend del tempo ad un commissario tecnico di estrazione federale che risponde al nome di Azeglio Vicini, trae origine dalle macerie della spedizione messicana dell’86 capolinea dell’eperienza di Bearzot, partito due anni prima con l’idea del rinnovamento e tornato in parte sui suoi passi per ad affidarsi ad alcuni eroi (stanchi) dell’82.

L’ossatura della squadra di Vicini è la nazionale under 21, con Zenga tra i fuoriquota, che lui stesso ha condotto alla finale europea. A far da chioccie alla covata di azzurrini sono stati inizialmente  Cabrini, Bagni, Altobelli e Dossena. Congedatosi dall’azzurro il quartetto di cui sopra, ad innestare la squadra di esperienza e titoli in campo internazionale ci sono il capitano Giuseppe Bergomi, eroe di Spagna 82, e il più giovane dei fratelli Baresi anch’egli campione del mondo, senza scendere in campo, otto anni prima.

A metà del guado si pone Fernando De Napoli, componente dell’under 21 ed al tempo stesso unica nota lieta del mondiale del 1986. Indebitamente definito “gregario”, è abile sia nell’interdizione che nel pressing.

Strada facendo altri protagonisti come Maldini, Ancelotti, Berti e Carnevale si sono inseriti.
I primi due hanno ben figurato ad Euro 88 a cui sono arrivati sullo slancio del roboante trionfo rossonero in campionato secondo i principi della modernità di Sacchi.

L’altra coppia del quartetto ha scalato posizioni in azzuro grazie all’elevato rendimento delle ultime stagioni.

L’ultimo biennio, peraltro, ha visto sbocciare il talento di Roberto Baggio che tutti vogliono in campo ma che Vicini fatica a collocare, ligio com’è all’italica tradizione secondo cui il 10 è una mezzala di regia e non l’uomo di creatività.

Caratteristica, questa, che nel football nostrano dell’epoca è destinata all’ala tornante secondo la sequenza Bernardini-Causio-Conti-Donadoni che ha segnato l’ultimo ventennio azzurro.

Siamo consapevoli di essere forti.

E gli altri?

Il mondo calcistico pare essersi rovesciato.

La fantasia, solitamente ad appannaggio delle compagini sudamericane, alberga nella Germania e nell’Inghilterra.

I Tedeschi, circostanza insolita per loro, schierano contemporaneamente due mezze punte (Haessler e Littbarski) dietro alla coppia di attaccanti Klinsmann-Voeller (con Riedle in uno stato di forma eccellente che non vede ora di ottenere lo scalpo di uno degli illustri colleghi). La cosa, tuttavia, non rende meno fragile la Germania composta per sette undicesimi da protagonisti del nostrto campionato.

Anche l’Inghiltera opta per un formato all’insegna della creatività e, se nel caso di Platt (suo il goal più bello del mondiale) alla propulsione offensiva aggiunge una buona capacità aerobica, le giocate di Gascoigne e Waddle portano conforto agli esteti del pallone.

Al di là dell’oceano, viceversa, pare un festival della solidità.

Solo l’Uruguay mantiene fede al concetto di “enganche” con Enzo Francescoli, principesco trequarti dal passo galante e dai gesti nobili, ad innestare gli attaccanti.

Il Brasile, allenato da Lazaroni si è, udite udite, messo a cinque dietro e dei tre centrocampisti ve ne sono due (Dunga e Alemao) con caratteristiche più nordiche che brasiliane.

L’Argentina è ancora più conservativa rispetto a quattro anni prima quando almeno c’era Valdano a dialogare con Burruchaga e Maradona.

Detto dell’Olanda, che arriva alla kermesse mondiale con lo spogliatoio in frantumi e i migliori fuori forma, e della Jugoslavia, meravigliosa a vedersi nei suoi solisti ma incapace di vincere un quarto di finale dominato e giocato con lo spettro di un successo sgradito agli indipendentisti al di là dell’Adriatico, la sensazione è che la partita si giochi tra Italia, Germania e le due sudamericane.


Ma guardando il tabellone ed i possibili accoppiamenti, diviene subito naturale pensare alla finale Italia-Germania.

Vicini arriva al mondiale con le idee chiare e con pochi dubbi.

Al pacchetto degli attaccanti “sicuri” si è aggiunto in primavera Salvatore Schillaci, centravanti tutto istinto della Juventus. Per far entrare il palermitano nei 22, tuttavia, il C.T. deve escludere uno degli altri attaccanti.

Il tecnico non se la sente di rinunciare a Serena ed allunga così l’elenco delle punte “tagliando” un centrocampista: Luca Fusi, sino a quel momento presenza costante nelle convocazioni.
La scelta trae spunto dalla possibilità di poter utilizzare De Agostini sia come difenzore di fascia che come centrocampista.

I giornali si sibizzarriscono nel discutere di possibili ballottaggi in merito alla formazione titolare. Pietro Vierchwood, in particolare, appare in uno stato di forma sontuoso a differenza del titolare Riccardo Ferri, uscito non benissimo dalla stagione. Chi conosce Vicini, tuttavia, sa perfettamente che il CT non rinuncerà al “suo” stopper.

A centrocampo ci sarebbe ancora un posto vacante ma nessuno tra Berti e Marocchi ha pienamente convinto nelle amichevoli il che lascia aperte le porte all’utilizzo di Carlo Ancelotti, pluridecorato centrale del Milan poco fortunato in azzurro, alle prese con quache problema fisico.

In realtà, l’unico posto che per qualche tempo è rimasto in bilico è quello del compagno di attacco di Gianluca Vialli.

Ma a pochi giorni dall’inzio Azeglio Vicini ha deciso che il prescelto è Andrea Carnevale.

La stampa e i tifosi si dividono perchè c’è chi vorrebbe premiare Baggio, i cui sprazzi di classe mandano in visibilio la platea. Altri, sulla scia del rendimento delle ultime settimane, vedrebbero di buon grado Schillaci titolare. Altri ancora spingono per Aldo Serena, capocannoniere del campionato precedente che, nonostante la stazza imponente e l’abilità nel gioco aereo, è capace di giocare anche per il compagno di reparto.

In un ipotetico sondaggio tra tutti i giocatori offensivi, il meno votato sarebbe Roberto Mancini.
In pochi, alla vigilia del mondiale, spendono il suo nome.

Chi scrive è convinto che il calcio italiano debba umilmente chiedere perdono al Dio del Pallone, sempre che ne esista uno, per il fatto che Mancini non abbia giocato nemmeno un minuto ad un campionato del mondo.

Avrebbe potuto (rectius, dovuto), essere convocato in quattro edizioni e lo è stato solo in una: quella del 1990 in cui ovviamente non metterà piede in campo, complice la norma di allora che limita a sedici il numero di calciatori da inserire nella lista di gara.

E’ il più grande talento calcistico dai tempi di Rivera. Un fantasista esteta del gesto tecnico (e nel gesto tecnico) che, pur trasudando eleganza e stile in ogni movenza, risulta propedeutico all’efficienza della squadra.

Non è fortunato con l’azzurro.

Dei pupilli under 21 di Vicini, di cui era capitano, è l’unico ad esser mollato strada facendo.

Non propriamente diplomatico nei rapporti, ha il senso del leader innato che in nazionale non può esternare. Unico fantasista del nostro calcio a vincere lo scudetto in due squadre diverse che non siano di Torino o di Milano, vivrà una carriera da primo in Gallia piuttosto che secondo a Roma.

Al fine di descriverne le caratteristiche riproponiamo l’omaggio che questo blog gli ha riservato in occasione del racconto sui grandi n. 10 della storia.

“Nel contesto italiano, il primo numero 10 “fantasista” che incontriamo è Roberto Mancini.

Nonostante il precoce esordio faccia presagire per lui una carriera da attaccante, sin dal suo approdo in blucerchiato dimostra un’attitudine innata nel mandare in goal i compagni. Approfittando del fatto che Bersellini e Boskov rimangono ancorati a principi di calcio non soffocante, delizia i tifosi della Sampdoria con giocate da favola.

Otterrà in alcune stagioni di giocare a ridosso delle due punte ma sarà con un attaccante al proprio fianco che darà il meglio di sé.

Tra i giocatori di fantasia è sicuramente uno dei più razionali tant’è che la ricerca esasperata dell’estetica non risulta mai penalizzante per la squadra. Il colpo di tacco, ovvero uno dei suoi marchi di fabbrica unitamente al tiro al volo, non è esercizio di stile bensì una giocata propedeutica allo smarcamento del compagno.

La corsa sul prato rimarrà indelebile per eleganza. Anche nelle situazioni meno pulite non gli difetterà mai la coordinazione.

 Avrà modo, nella seconda parte di carriera, di agire da prima punta e da centrocampista centrale. Il rapporto personale con Eriksson lo agevolerà nel non subire le restrizioni di un calcio più organizzato e, nonostante il suo scopo primario sia quello di mandare in goal i compagni, chiuderà con oltre duecento reti all’attivo. Tra i pochissimi vincitori di due scudetti in due città differenti che non siano Milano e Torino, sarà custode per eccellenza della “giocata di prima” e realizzerà diverse reti sugli sviluppi da calcio d’angolo, giovandosi di un tempismo unico nell’attaccare il primo palo” (IL NUMERO 10: LA POESIA DEL CALCIO IN ITALIA, EUROPA, SUDAMERICA E… 2^ PARTE; www.filippogalli.comLa complessità del calcio”, 13 febbraio 2023)

Detto di Mancini (che non gioca) la scelta di Carnevale appare la più coerente in quanto l’attaccante di Monte San Biagio, dopo le esperienze ad Avellino e Catania, è stato protagonista ad Udine prima di consacrarsi a Napoli ed è perfetto per il ruolo che gli si chiede. All’ombra del Vesuvio ha patito inzialmente la presenza di Giordano e le scelte di Bianchi ma, superate le problematiche dei primi due anni e chiaritosi con l’allenatore che seguirà nell’esperienza alla Roma, è diventato protagonista assoluto.

Nonostante le doti da bomber, si è reinventato “generoso” in fase di non possesso, lasciando Careca libero da compiti difensivi. Ciò non gli ha impedito di realizzare reti importanti, talvolta anche belle. Pur essendo forte di testa, a differenza di molti attaccanti “fisici”, sa giocare con ambo i piedi ed è particolarmente abile nell’avanzare palla al piede, grazie ad un’andatura caracollante che gli consente di controllare la palla in corsa e, cosa che lo renderebbe attuale nel calcio odierno, a non perdere tempi di gioco.

Con lui in campo Vicini ottiene un duplice obiettivo: da un lato schiera un attaccante completo; dall’altro non farà ombra alla stella Gianluca Vialli, centravanti atipico per il nostro calcio, nato ala e divenuto via via prima punta, che ama svariare su tutto il fronte offensivo e non disdegna la lotta.

A detta di tutti, quello del 1990, dovrebbe essere il suo mondiale.

(FINE PRIMA PARTE)

BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.

4 risposte

  1. Gran bel pezzo! Importante è il background economico e sociale che anticipa quel mondiale, il nostro mondiale.
    Avevamo uno squadrone ed è stato un peccato non arrivare in finale.
    C’era il dubbio sull’attaccante da schierare al fianco di Vialli contro l’Austria, lo ricordo benissimo. Partì Carnevale, poi Vicini pescò dal cilindro Totò…

    1. Grazie davvero.
      L’impatto di quegli anni in Italia fu importante proprio sotto l’aspetto sociale.
      Grazie per averlo colto
      Alessio

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *