MOHAMED ABOUTRIKA, IL CALCIATORE FILOSOFO

Chi pensa è immortale, chi non pensa muore”

Ibn Rushd, meglio conosciuto come Averroè

Ci sono calciatori che restano nei libri di storia per i loro gol, e poi ci sono uomini come Mohamed Aboutrika, la cui influenza ha travalicato i confini del campo. Un talento cristallino, certo, ma soprattutto una coscienza inquieta, capace di trasformare ogni gesto in un messaggio. E come spesso accade a chi non si piega, il prezzo da pagare è alto.

La leggenda di Aboutrika non si è esaurita nei suoi colpi di classe sul campo. Il calciatore nativo di Giza è stato uomo prima ancora che calciatore, simbolo di un popolo e di un’epoca. Il suo nome è stato legato indissolubilmente a battaglie che andavano oltre il calcio: il sostegno ai palestinesi di Gaza, il lavoro umanitario, il ruolo di icona nella rivoluzione egiziana. Laureato in Filosofia, cresciuto all’ombra delle piramidi di Giza, è diventato mito anche per come ha affrontato la tragedia di Port Said. E da allora, il suo nome non è mai più stato solo quello di un campione, ma di un uomo che, con il pallone tra i piedi, parlava alla storia.

Settantiquattro morti, sangue e follia. Port Said, più che una partita, fu un’ecatombe. Sugli spalti, la furia. In campo, il terrore. Nello spogliatoio, Mohamed Aboutrika teneva tra le braccia un ragazzo morente, poco più che un bambino. Gli occhi spenti, il respiro corto. «Capitano, sono molto contento, ho sempre voluto incontrarti», riuscì a dire quel quattordicenne, prima di spirare nel caos di una notte maledetta. Aboutrika non dimenticò mai. Non poteva. Portò con sé il peso di quelle morti, il dolore di una tragedia più grande del calcio. Perché il calcio, in certe notti, sa diventare un’arma. E lui, da allora, non smise mai di lottare.

Mohamed Aboutrika non è stato uno di quei calciatori abbagliati dalle luci scintillanti del calcio europeo. No, lui aveva radici profonde, piantate nella terra polverosa di Giza, dove era nato in una famiglia modesta, cresciuto tra sacrifici e speranze. Un uomo di talento, certo, ma prima ancora un uomo di fede. Per Aboutrika, il pallone non era mai stato solo un gioco né una via per accumulare ricchezze. Al primo posto c’erano sempre stati i pilastri dell’Islam, in particolare la zakat, quella forma di carità obbligatoria che per lui non era un semplice precetto, ma un dovere morale. Credeva nella giustizia sociale, nel principio per cui chi ha di più deve aiutare chi ha di meno. E lui, con il suo talento e la sua notorietà, aveva scelto di essere un simbolo non solo in campo, ma anche fuori, tra la sua gente.

Nel 2017 il governo egiziano di Al-Sisi lo ha inserito in una lista di controllo antiterrorismo, accusandolo ingiustamente di legami con i Fratelli Musulmani. Una macchia costruita a tavolino, un pretesto per mettere a tacere una voce troppo scomoda. La sua solidarietà alla causa palestinese è ormai un pezzo di storia del calcio. D’altronde il fuoriclasse egiziano si è laureato nella stessa università in cui ha studiato Yasser Arafat, la mastodontica Università del Cairo, un tempo nota come Università del Re Fu’ad 1. Lo sanno bene i tifosi di Gaza, che mai dimenticheranno quel giorno in Coppa d’Africa, quando dopo un gol sollevò la maglietta con la scritta: “Sympathize with Gaza”. Un gesto che scavalcò gli spalti e arrivò dritto al cuore della Palestina, dove il Sadaqah Club rispose con uno striscione che era un manifesto: “Stiamo con Aboutrika. Se lui è un terrorista, Viva La Terrorist”.

E poi c’è la FIFA, il tempio dell’ipocrisia sportiva, sempre pronta a dispensare moralità a targhe alterne. Aboutrika ha avuto il coraggio di dirlo, di denunciare i due pesi e due misure di un sistema che predica equità e pratica convenienza. Una voce fuori dal coro, in un calcio sempre più asservito e intriso di ipocrisia.

Ma che calciatore è stato Aboutrika? Un dieci classico, un artista del pallone capace di dipingere calcio con la leggerezza di un poeta e la precisione di un geometra. Gabriele Marcotti lo definì “il più grande giocatore di tutti i tempi a non aver mai calcato i campi d’Europa o del Sud America”. Di sicuro, è stato uno dei massimi talenti africani della storia, e in Egitto la sua grandezza ha eclissato persino quella di un fuoriclasse del calibro di Momo Salah. Non che sia stato superiore all’attuale calciatore del Liverpool, probabilmente il miglior calciatore di lingua araba di sempre, ma il fatto di aver sempre militato nella terra dei Faraoni (eccetto per un intermezzo nel Golfo) e le sue battaglie extra-campo lo hanno reso più iconico.

Aboutrika ha iniziato la sua carriera calcistica per un club locale, grazie all’amico Magdi Abed, che gli ha suggerito di fare un provino per il Tersana. Dopo tutta la trafila nelle giovanili della squadra del Cairo, il giovane Mohamed è approdato in prima squadra, trascinandola, fino alla promozione nella massima serie, facendola conseguire diverse salvezze. La stagione migliore con il Tersana è stata quella del 2002-2003, con 11 marcature a referto. Curioso il fatto che abbia conseguito il salto a ben 25 anni, passando all’Al-Ahly, squadra più rappresentativa d’Egitto, che per anni si è contesa lo scettro con lo Zamalek.

Aboutrika ha vinto tutto con la maglia dell’Al-Ahly, indossando la maglia numero 22 divenuta iconica. La scelta è ricaduta sul numero che campeggia su una delle porte della Moschea al-Haram, a La Mecca. Un dettaglio che non è solo un numero, ma un segno, un filo sottile che lega il calcio al destino. Perché mentre lui corre sul campo con la leggerezza di chi sa già dove andare, milioni di fedeli varcano quella soglia nel loro pellegrinaggio, cercando qualcosa di più grande. Sette campionati egiziani, cinque Champions League africane e due coppa d’Africa rappresentano un biglietto da visita notevole, che accresce la credibilità dei giudizi proferiti dal pubblico egiziano nei suoi confronti. Basti pensare che nei vari sondaggi è considerato a maggioranza quasi bulgare il miglior calciatore della storia del suo Paese. Lo stesso Momo Salah gli ha tributato un’omaggio particolare. Appena approdato su Twitter, l’asso ex Roma ha utilizzato il numero 22 nel suo hashtag. Separati da 14 anni di differenza, i due hanno giocato insieme in nazionale per un breve periodo, nelle qualificazioni ai Mondiali 2014. Pur avendo vinto da protagonista le coppe d’Africa, Aboutrika non è riuscito a disputare un Mondiale.

In che momento Aboutrika è diventato noto agli appassionati di calcio italiani? Nella gara di Confederations Cup del 2009, quando l’Egitto sconfisse clamorosamente gli azzurri di Lippi. L’allora calciatore dell’Al-Ahly servì da calcio d’angolo l’assist per il colpo di testa decisivo dei Faraoni. All’epoca fu avvicinato a Kakà, calciatore suo contemporaneo, con il quale condivideva il fisico slanciato e asciutto, la progressione e la visione di gioco. Se un talento simile fosse nato in Brasile, staremmo molto probabilmente parlando di ben altra carriera ai massimi livelli.

Nel 2006, quando Kakà e Ronaldinho si giocavano la corona di miglior numero 10 del pianeta, Aboutrika, in un angolo dell’Africa, trionfava vcon il suo Egitto, alzando la Coppa d’Africa dopo aver piegato la favorita Costa d’Avorio di Drogba con un rigore che sapeva di gloria. Gli esperti lo definivano un mix tra Kakà, Zidane e Riquelme, ma in verità il suo talento aveva qualcosa di unico: alto, ma non troppo, agile come una lepre e con il passo di chi sa cosa vuol dire essere il centro di gravità di una partita. Le sue giocate controintuitive, che sfidavano la logica, facevano impallidire i compagni di squadra, e gli stessi difensori ne restavano spiazzati. La difesa brasiliana, nel magico incanto della Confederations Cup 2009, ha fatto da spettatrice a un fuoriclasse che, se fosse nato sotto il cielo di Rio o San Paolo, avrebbe senza dubbio calcato i palcoscenici del futebol bailado. Eppure, la sua eleganza apparteneva a un altro universo, lontano dal rumore e dalla folla, in un angolo del mondo dove l’arte del calcio veniva ancora vissuta come un rito misterioso.

Aboutrika ha incarnato alla perfezione la teoria secondo cui i calciatori sbocciati tardi, quasi per un capriccio del destino, finiscono spesso per conoscere carriere longeve e luminose. Nel 2012, durante l’edizione della Champions League africana, ha dato il via alla rimonta contro lo Stade Malien con la disinvoltura del veterano e la fame dell’eterno incompiuto. Il suo numero 22 si è fatto epico: da trequartista ispirato, ha infilato una tripletta in una gara che sembrava incagliata nelle secche della difficoltà.

A quasi 35 anni, ha scritto la storia due volte nel giro di pochi mesi, mettendo le mani su due Champions League africane con la naturalezza di chi sente il calcio scorrere nelle vene. Anche nell’effimera parentesi al Baniyas, club emiratino, ha lasciato il segno: decisivo nella conquista della Gulf Champions League, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. E al suo ritorno a casa, nell’abbraccio della sua Al-Ahly, ha firmato un commiato degno dei grandi: un gol all’andata, uno al ritorno, per sigillare la finale contro gli Orlando Pirates e chiudere in bellezza, come fanno i campioni.

Ritiratosi dalle scene dopo aver fatto incetta di trofei, Aboutrika ha intensificato il suo impegno umanitario, sublimando nel gesto solidale la stessa eleganza con cui pennellava assist e infilava palloni nell’angolo lungo. Amato da compagni e avversari, nel mondo arabo si sono moltiplicate le petizioni per convincerlo a rientrare in nazionale per i Mondiali del 2018, a oltre quattro anni dal ritiro. Il numero 22, con la classe che gli è propria, ha declinato l’invito: sarebbe stato un affronto ai compagni che quella qualificazione l’avevano sudata sul campo.

Resta il rimpianto di non averlo mai visto al Mondiale, lui che avrebbe meritato il palcoscenico più nobile, il teatro dove i grandi si consacrano. Ma Aboutrika, “il principe dei cuori”, ha sempre seguito una traiettoria più alta, guidato dai suoi valori più che dalla vana gloria. Ha sfidato il regime egiziano, ha accettato l’esilio forzato in Qatar, dove ha offerto la sua saggezza di opinionista televisivo. Senza le sue prodezze nel Mondiale per club o in Confederations Cup, il “miglior giocatore che non ha mai calcato i campi d’Europa o Sud America” sarebbe rimasto un tesoro nascosto. Eppure, la sua grandezza non si misura in trofei, né in contratti milionari (nel 2008 percepiva appena 1 milione di lire egiziane l’anno, poco più di 100.000 euro). Piuttosto, nel coraggio di restare fedele a se stesso, fino all’ultima giocata.

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

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