FOTO DI COPERTINA DA ANSA
Odio i luoghi comuni e le frasi fatte, emblematicamente rappresentativi della nulla propensione alla riflessività, all’ intimità dell’introspezione e alla formazione consapevole di uno spirito critico che possa, indispensabile pilastro, condurre alla formazione e alla rivelazione dell’identità di pensiero, volta a sancire definitivamente i contorni di un’individualitá, sia essa da ricondurre ai tratti peculiari di un’entità esclusivamente personale o sconfinante nella collettività.
Ma, ahimè, è doveroso dirlo:in Europa si gioca un altro calcio. Ma, come responsabilità intellettuale sottende, semanticamente e contenutisticamente, nelle evidenze e nei dettagli più celati da disvelare e sui quali costituire e sviscerare l’essenza più recondita di ogni affermazione, la totalità delle sfumature deve essere argomentata.
Affinché niente sfugga all’analisi e niente sia tralasciato quale elemento costitutivo e fondante di un epiteto che profuso e diffuso in quanto tale, come ogni slogan, potrebbe dissolversi nei meandri foschi della mediocrità di un dibattito che nella modernità si consuma banalmente in dialoghi o scritti rapidi. Che contribuiscono a far proliferare, quale continua produzione in serie di effetti cui appigliarsi poiché non in grado di disquisire a riguardo, altre frasi fatte, contribuendo ad alimentare la più grave colpa della mediocrità, ovvero di non saper e soprattutto non voler (ri)conoscere nulla di superiore a sé stessa.
No, anche in questo caso, la verità non sta nel mezzo. La verità sta nel mezzo solo per chi la ignora. Milan e Juventus, compagini supreme del nostro calcio, restano stordite, sorprese, avvolte, avvinghiate, travolte dalla straordinaria scioltezza, dell’ineffabile bellezza, dall’orgoglioso e naturale coraggio, dalla conturbante intensità di avversarie presumibilmente “inferiori”, appartenenti ad un campionato “secondario”, evidentemente non “all’altezza” della forza e del blasone delle italiche dirimpettaie.
Il Feyenoord, decimato dagli infortuni, alla vigilia disboscato, proprio dall’avversario contro cui confrontarsi per proseguire il cammino europeo, dell’albero maestro, dell’uomo più rappresentativo, dell’elemento chiave di messicana provenienza, si rende protagonista di una gara d’andata pressoché perfetta sciorinando, con evidente incredulità altrui (sia in campo che fuori), la leggiadra qualità di una manovra contraddistinta da una sublime pulizia tecnica volta inevitabilmente ad esaltare tempi di gioco, occupazione degli spazi e linee di passaggio. Senza paure, senza troppi insulsi sovrappesi di rancorosi e aprioristici pensieri di fallibilità, senza soppesare scientificamente, come nostrano costume storico differentemente insegna, la pericolosità da infliggere rispetto ai rischi cui poter andare incontro.
C’è bellezza, c’è voglia, c’è l’ovvia ed inevitabile, non calcolabile, volontà di esprimere sé stessi indipendentemente dall’esito fasto o nefasto della qualificazione, c’è l’inevitabile consapevolezza di doversi giocare le proprie carte nel complessivo computo temporale di tre ore di gioco, senza speculare, senza supporre di poter approfittare di episodi, di essere minimalisti, pressappochisti, autoinfliggendosi la condanna di essere inferiori a sé stessi. Tratti puramente distintivi del nostro calcio da un secolo e mezzo, nella maggior parte dei casi.
Paixao fa solo rima con Leao, le affinità paiono esclusivamente nominali e scompaiono nel computo di un’incisività che sposta gli equilibri, che sorride a chi sorride, a chi sa che sta esprimendosi nel rispetto del lavoro quotidiano e nel rispetto della competitività doverosamente da riversare se chiamati a concorrere, indipendentemente da calibri cervellotici di forza preliminare. E ora, dunque, sorprende la nitidissima proposta, la facilità tecnica dell’esecuzione dell’idea, la tangibile difficoltà altrui di arginare le inaspettate tempistiche e movenze di un complesso che suggerisce quanto sia complesso e tutt’altro che semplice il calcio nella sua evoluzione.
Eppur semplice nell’attuazione se il dietro le quinte è foriero di complessità nella progettazione. Timber, Moder, Redmond, Hadj Moussa. Chi vuoi che siano. Reijnders, Pulisic, Leao, Joao Felix, El Bebote. E ancora Walker, Theo, Maignan. Il punto non è solo come alla fine siano andate le cose (indubbiamente condizionate dalla folle autoesclusione della pittorescamente maculata versione attuale di chi ha di recente ricevuto in omaggio una maglia celebrativa da tal Maldini Paolo), con la qualificazione di chi ai trenta milioni intascati per la cessione del suo miglior giocatore aggiunge gli undici sottratti a chi dei trenta aveva posto firma sull’assegno.
Il punto è che incurante degli infortuni e delle forzate privazioni, fedele alla propria espressione, la compagine olandese, alla stregua di quanto fatto vedere dal PSV la scorsa sera su cui torneremo, ha insinuato innanzitutto dubbi su cui soffermarsi, domande a cui dare(mo) risposta a sublimazione della sollevazione di tali interrogativi: perché la qualità tecnica e l’espressione intensa e puntuale della manovra , precisa e fluida, belle da vedere e difficili da contrastare, di cui si sono rese protagoniste entrambe le squadre del nobile Paese dei tulipani, sono parse oltremodo superiori ad ogni aspettativa dei diretti protagonisti e degli spettatori?
Perché in alcuni tratti, sul piano del dominio del gioco e soprattutto dell’elevata facilità e qualità d’esecuzione nel gesto tecnico e nei tempi, Feyenoord e PSV hanno assunto contorni oltremodo fuorvianti sembrando squadre di un livello nettamente superiore a quello che preliminarmente avrebbe potuto essere loro mediamente attribuito?
Perché il Milan a Rotterdam e la Juve ad Eindhoven hanno dato l’impressione di essere state sopraffatte come al cospetto di top club del calcio continentale anziché da due società il cui miracolo sportivo è rappresentato dall’essere approdate agli ottavi della principale manifestazione europea?
Ricordate: non condannate i travestimenti. Lungi dall’essere riconducibili al concetto di falsità, essi sono autoritratti. Falsità e verità si mescolano inesorabilmente. Come hanno fatto Milan e Juve, autosvelandosi nella più pura veste di un’impronta di calcio tipicamente peninsulare. Le cui ragioni sono molteplici. Le cui fondamenta sono storiche. In Europa si gioca un altro calcio nel senso che lungi dai valori assoluti da poter presentare, intensità, bellezza e voglia di esprimersi precedono inconsce espressioni espletate poiché innate nella natura del nostro movimento.
Il Feyenoord ed il PSV non hanno pensato più di tanto se fossero superiori o inferiori, se fosse possibile sciorinare calcio in che misura e come. Hanno giocato fedeli all’unico credo di essere la migliore versione di sé stessi. Anche quando ciò pareva non poter essere possibile. Gli unici che nel Continente ancora non suggellano l’inevitabile espressione cui si è chiamati dal calcio moderno siamo noi.
Attenzione:non è un discorso legato alle guide tecniche, è un discorso psicologico legato alla cultura del nostro movimento. Milan e Juve non hanno deciso di non giocare o di essere inferiori a sé stesse. Semplicemente non sono abituate a due fattori fondamentali:il primo è che la propria forza va tracimata senza se e senza ma inesorabilmente, senza che subentrino preliminari calcoli di passaggio del turno legati inconsciamente a miseri gol di vantaggio cui fare affidamento al fin di esprimere un equilibrio statico impreparati alla proposta di avversari che non distinguono Davide da Golia.
La mancata percezione di questa lettura ha radici più profonde e investe la totalità del calcio italiano che, per alcuni aspetti, rende rossoneri e bianconeri “vittime” di alcune situazioni. In Italia la sfrontatezza ed il collocare la bellezza massimale espressiva delle proprie qualità sono merce rara; le preoccupazioni precedono l’euforia, il rispetto estremo verso l’avversario l’enfasi della propria apicale manifestazione di bellezza e volontà di potenza.
Non sono solo le medio-piccole a non consentire alle grandi di perpetrare continuamente la ricerca ritmata della fase di possesso da sublimare con la qualità individuale che inesorabilmente s’innalza se educata alla scioltezza di un’offesa resa possibile da partite più aperte in cui il campo pare allargarsi ed allungarsi anziché comprimersi fino a scomparire. Fino a quando vigerà nella quasi totalità del nostro campionato l’idea di privilegiare, per la quasi totalità delle compagini, la propensione all’ annichilimento altrui, fino a quando poche gare consentiranno di poter essere affrontate alla stregua di quanto visto a Rotterdam e Eindhoven, fino a quando le “grandi” saranno “costrette” troppe poche volte ad affrontare ideologicamente e concettualmente partite come quelle tipiche di un’eliminatoria, fino a quando l’incredibile saggezza contenutistica storicamente riconosciuta del nostro movimento si consumerà nel tentativo di attuare contromisure volte a privare l’avversario delle sue peculiarità, fino a quando l’infinita, superiore conoscenza pallonara dei nostri tecnici determinerà esclusivamente di fagocitare l’espressione piu strettamente dinamica e pura di un incontro nella speranza di creare una nullitá espressiva di cui goderne gli effetti, fino a quando le “medio-piccole” affronteranno avversari più forti e blasonati non determinando un andamento che possa consentire di conservare ritmi, idee ed intensità durante i novanta minuti, i nostri club, in campo internazionale, saranno costretti ad usufruire di un ristretto ventaglio di incontri durante i quali il contesto abbia potuto loro consentire di acquisire l’abitudine ad affrontare formazioni molte più volte già educate a livello nazionale ad un certo tipo di incontri.
In sostanza la nostra grandezza è in questo senso anche il nostro più grande limite: le difficoltà della Serie A risiedono in una conoscenza superiore e dettagliata di ogni angolo del terreno di gioco, la spettacolarità non è, come impatto visivo, la stessa di altri tornei perché è sottilmente più inferiore la possibilità di incorrere in errori di natura tattica. È ovvio, però, da contraltare, che diminuiscono le opportunità di potersi esprimere più liberamente e con maggiore intensità, di sottendere che in ambito continentale chiunque possa concepire allo stesso modo qualsiasi incontro e sia preliminarmente più educato e abituato a sciorinare un certo tipo di calcio.
La mancata acquisizione mentale e fisica di un’interpretazione della gara che spinga in ogni caso al massimo le fondamentali dottrine concettuali del calcio moderno penalizza le nostre compagini, indipendentemente da eventuali risultati conclusivi. Il punto non è poter supporre che il turno avrebbe potuto essere passato comunque, ma non ignorare la lapalissiana e dunque incontrovertibile verità concernente la rara esecuzione di incontri in cui esprimere ai massimi livelli lo sviluppo delle proprie idee e della propria qualità al massimo grado educativo, fisico e psicologico, di ritmi ed intensità.
La capacità di inchiodare le partite in una “perfezione tattica” indiscutibile elimina spazi, linee di passaggio, propensione individuale, rende tutto molto più statico e prevedibile. È pressoché dunque impossibile sciorinare in tanti casi ciò che è indispensabile automaticamente acquisire per non risultare potenzialmente inferiori, complessivamente, a compagini inizialmente meno quotate.
Or dunque in Europa non si gioca un calcio superiore al nostro, probabilmente il calcio italiano è contenutisticamente storicamente imparagonabile a qualsiasi altro: semplicemente, in Europa si gioca SEMPRE un altro calcio. E la verità sta nel mezzo solo per chi la ignora.

BIO: ANDREA FIORE
Teoreta, assertore della speculazione del pensiero quale sublimazione qualitativa e approdo eminentemente più aulico della rivelazione dell’essenza di sé e dello scibile, oltre qualsivoglia conoscenza, competenza ed erudizione quali esclusive basi preliminari della più pura attuazione di riflessione ed indagine. Calciofilo, per trasposizione critico analitico di ogni sfaccettatura dell’universo calcistico, dall’ambito tecnico-tattico all’apparato storico, dalla valutazione individuale e collettiva ai sapori geografici e culturali di una passione unica. La bellezza suprema del calcio è anche il suo aspetto più controverso: è per antonomasia di tutti e tutti pensano di poterne disquisire.
2 risposte
Il problema non è che in Europa si gioca un altro calcio… siamo le nostre Italiane, che mancano di tante di aspetti, ma il gioco non c’entra nulla.. e’ una questione di personalità, mentalità e involuzione sotto l’aspetto dell organizzazione di gioco… in Europa non basta saper attaccare e fare calcio offensivo ma bisogna saper LEGGERE le partite e saperle interpretare..nel caso del Milan e’ diverso rispetto a Juve e Atalanta.. una partita svoltata per una stupidata di un giocatore, un calciatore che dovrebbe essere esperto…