FOTO COPERTINA ANSA
La prima squadra per cui ho fatto il tifo nella mia vita è stata la Nazionale azzurra. Ero bambino, a calcio giocavo all’oratorio, poi la sera sdraiato sulla moquette verde con i soldatini: 11 cowboy da una parte, 11 antichi romani dall’altra, oppure 11 indiani, 11 american corps, 11 in armatura medioevale…Fino a quando mi regalarono il Subbuteo, una tavola di legno con il panno verde e le squadre vere, ma io prendevo l’Italia contro la Francia, la Germania, l’Inghilterra, il Brasile, l’Argentina. Vincevano sempre gli azzurri, ero molto scorretto. Giocavo da solo, potevo decidere quello che volevo.
Compravo la “Gazzetta” a 70 lire e me la leggevo durante la ricreazione o in tram andando a scuola. Poi nel 1970 arrivarono i Mondiali del Messico, le partite grazie al fuso venivano giocate spesso quando da noi era sera: mamma apparecchiava sul grande balcone, papà girava il televisore in bianco e nero e così vivemmo la semifinale storica del 4-3 contro i tedeschi e la finale col Brasile che se l’avessi giocata io sulla moquette, l’avremmo vinta. Albertosi, Facchetti, Domenghini, Rivera, Boninsegna, Riva… Un sogno.
A San Siro andai molto più tardi, l’Italia era il mio primo grande amore e non è mai sfumato nel tempo. Sono milanista, ma il blocco Juve, il blocco Inter, l’assenza recente di rossoneri, non mi hanno mai distratto: quella maglia azzurra ci rappresenta tutti. Lo sapete perché è azzurra, come quella di tutti gli sport che rappresentano il nostro Paese? Dopo le prime esibizioni in bianco, nel 1911 fu scelto quel colore in onore dello stemma di Casa Savoia, che a sua volta lo aveva scelto perché spesso è con quel colore che viene raffigurato il manto di Maria, della Madonna.
Ho vissuto gioie irripetibili, non molte generazioni hanno potuto festeggiare 2 Mondiali e un Europeo. Naturalmente anche sofferenze indicibili: nel 1974 buttati fuori da Haiti, Argentina e Polonia, nel 1990 battuti in casa ancora dagli argentini, nel 1994 la finale persa ai rigori col Brasile in America. E quella Corea del 2002…
Le mancate qualificazioni agli ultimi 2 Mondiali che – di nuovo – poche generazioni hanno potuto patire. Oggi subiamo la mancanza di talenti all’altezza, di figure di spessore internazionale e se ci pensate bene, è da quella meravigliosa vittoria in Germania nel 2006 che si trascina questa cosa.
Persino quella Nazionale di Mancini che nel 2021, contro ogni aspettativa e pronostico, vinse gli Europei, non ha lasciato traccia: si sono persi come meteore Chiesa, Berardi, Insigne, Pessina, Locatelli, Verratti, Immobile, non ci sono più Chiellini e Vialli ha lasciato il suo alone a fianco degli amici di sempre, Mancini ed Evani. Mancano talenti di spessore internazionale, credo che Tonali e Barella lo siano, come Calafiori, Donnarumma fatti salvi i suoi black out, in prospettiva – chissà – Buongiorno, Kean e Ricci. Forse Retegui. Mancano da tanto tempo (ma se guardo anche le altre Nazionali, vedo davvero pochissimi fenomeni…).
E’ un’equazione difficile da risolvere: il nostro calcio si è imbolsito a livello di campionato, eppure negli ultimi anni abbiamo mandato in finale nelle coppe europee tante squadre di club, una Conference e un EL le abbiamo anche vinte, ma siamo imbottiti di stranieri. Sarà anche colpa di Spalletti, ma in questi giorni leggo delle polemiche sulla convocazione (e la titolarità a Dortmund) di Daniel Maldini con l’esclusione di Orsolini. Ci sta, ma una volta le discussioni feroci riguardavano Mazzola e Rivera, per dire.
Sarà anche un problema di vivai, anzi sicuramente lo è: dai settori giovanili però qualcosa sta uscendo negli ultimi tempi e – contrariamente a una volta – qualche sbarbato di buone prospettive viene anche lanciato con maggiore disinvoltura rispetto al passato, vuoi anche per tamponare incolmabili vuoti di mercato causa prezzi insostenibili.
Bisognerebbe mettersi al tavolo e studiare riforme credibili, sostanziose, profonde, ma questa classe dirigente non pare davvero in grado di imboccare strade costruttive, impegnata com’è a difendere la poltrona e ingolfare i calendari. La verità è che oggi saremmo già felici di andarci, a un Mondiale, mentre una volta eravamo felici solo se lo vincevamo, il Mondiale. Ed è così da quasi 20 anni.

BIO: Luca Serafini è nato a Milano il 12 agosto 1961. Cresciuto nella cronaca nera, si è dedicato per il resto della carriera al calcio grazie a Maurizio Mosca che lo portò prima a “Supergol” poi a SportMediaset dove ha lavorato per 26 anni come autore e inviato. E’ stato caporedattore a Tele+2 (oggi SkySport). Oggi è opinionista di MilanTv e collabora con Sportitalia e 7GoldSport. Ha pubblicato numerosi libri biografici e romanzi.
Una risposta
Diagnosi perfetta!
Non si può essere felici soltanto per il fatto di qualificarci al Mondiale. Siamo l’Italia, dovremmo ambire a molto più. Il girone di qualificazione lo vedo fattibile, con una vera e sola minaccia, la Norvegia di Haaland, ma un buon risultato in Scandinavia già sarebbe un buon viatico. Frustrante è non essere più protagonisti, non avere i fuoriclasse di un tempo, i dualismi Mazzola – Rivera, Baggio – Del Piero. Sono passati quasi vent’anni dalla vittoria di Berlino, forse l’inizio della fine. Speriamo che non resti la fredda celebrazione di un passato glorioso.