Una manciata di anni fa è uscito un saggio, scritto dal filosofo e psicanalista argentino, Miguel Benasayag, dal titolo emblematico: Funzionare o esistere.
Nell’impossibilità di riepilogare una trattazione complessa in poche righe arruffate, mi è parso che almeno una citazione fosse pertinente – e si potrebbe richiamare anche quella a un altro testo dello stesso Benasayag, con Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi – rispetto al bel romanzo di Filippo Galli e Ludovico Jacopo Cipriani, uscito a febbraio 2025 e collocato nella collana Feltrinelli Kids; un romanzo per ragazzi, nella migliore accezione che il termine possa assumere, perché, mantenendo un linguaggio accessibile nel racconto di esperienze concrete – e la concretezza, specie riguardo ai target giovanili, facilita l’immedesimazione – non rinuncia alla complessità suddetta, anzi la cerca di continuo, anche sparigliando le carte (con il personaggio antagonista di Raul e con il di lui arrogante padre – archetipico per l’arroganza del potere – per esempio). La problematizza, la custodisce come un pilastro necessario per indagare l’altro e – dunque, come incidentale, preziosa conseguenza – per provare a conoscere meglio noi stessi. Perché il gioco del calcio – deuteragonista onnipresente di Un pallone tra le stelle, accanto al vero e proprio protagonista, Lorenzo, e ai suoi amici – è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni, per dirla con il Bardo: è magmatico, sfuggente, complesso, appunto, come tutto ciò che investe le umane aspirazioni. È bellissimo (anche) per questo: qualunque tentativo di facilitazione, imbarbarimento semantico dell’assai nobile semplicità, si rivela fallace e si scontra con l’esperienza articolata di ciascuno. «Il calcio può essere semplificato, ma non destrutturato», ci dicono a un certo punto Galli e Cipriani.
Benasayag parte da un’analisi critica della cultura della performance (si potrebbe anche dire del “merito”, per chi scrive vera e propria perversione contemporanea del concetto, assai più inquadrabile, di privilegio), all’interno della quale l’individuo è costantemente valutato in base alla sua utilità e alla sua capacità di rispondere a parametri stabiliti da un sistema esterno. L’educazione, il lavoro e persino i rapporti affettivi sono permeati da questa mentalità: si è apprezzati e considerati solo nella misura in cui si riesce a essere capitali umani perfettamente funzionanti e a non rappresentare un problema per il sistema produttivo, secondo l’ineffabile logica neo-liberista del produci-consuma-crepa.
Una logica, ineffabile, ironicamente parlando, ma in realtà ferale, che si vuole estendere persino al sistema scolastico, sempre più improntato al “sapere per fare” e non al sapere speculativo, ovvero un “sapere per poter essere”; una conoscenza che incarna – dovrebbe incarnare – non un fardello da trascinarsi dietro, ma una sorta di bagaglio senza peso, analoga, per certi versi, alla valigia “con un mondo dentro” di Newt Scamander in Animali fantastici e dove trovarli.
L’errore e il dubbio non possono, si capisce, trovare cittadinanza in una società che pretende un homo productivus, all’altezza di aspettative esogene e ogni giorno più pressanti. Pertanto devono essere relegati al ruolo di sciagurati incidenti da elaborare poco e dimenticare in fretta.
In questo senso, e siamo a uno dei nuclei teorici di Un pallone tra le stelle, il concetto di seconda possibilità diventa un miraggio o almeno manifesta tutto il suo portato di ambiguità. Se, da un lato, la società ci comunica che a chi fallisce – e si fallisce solo per colpa, sia mai – sarà offerta un’opportunità di riscatto, dall’altro queste chance sono spesso concepite come un semplice ritorno alla piena efficienza. Così capita a Lorenzo che, da predestinato, si ritrova a essere uno “scarto”, e quindi a non essere più nulla, mero ectoplasma di sé stesso. Allo stesso modo Nico che è un piccolo delinquentello di quartiere: predestinato, sì, ma alla galera, poiché non è emendabile, nessuno lo è, specie se è partito in ritardo. È a questo punto che il romanzo fa un salto verso il cielo, come da titolo, e ci insegna, senza pedanteria, che davvero è necessario, ed è anche realizzabile, tornare a una dimensione umana delle relazioni e prima ancora dei pensieri che quelle relazioni creano. Insomma che non è una frase fatta quella che afferma: «Non scendere in campo per perdere, ma guardare oltre il risultato.»
Dalla semplice realtà di Lorenzo, dai suoi tormenti, dalle delusioni calcistiche e dalle prime cotte, si sale verso il simbolo, qualcosa che appartiene certamente a Lorenzo, ma che può essere di tutti. Il fondatore dell’Andromeda Football Club, una squadra del riscatto, un microcosmo che si dà le proprie regole di convivenza e che lavora sul senso – si pensi alla splendida, umanissima sottotrama di nonna Isabel(l)a – prima che sul successo, diviene quindi, fino alle ultime battute, che ce ne svelano l’identità, Willy Wonka. È come se il club, fondato da questa specie di trasfigurazione del demiurgo del cioccolato, non esistesse, ma vi potesse accedere – lo potesse vedere – solo chi non si arrende sotto la pressa della vittoria a ogni costo. Si sarebbe potuto chiamare anche Maude, in riferimento ad Harold e Maude di Hal Ashby. Maude, incarnazione della joie de vivre e del concetto nietzschiano di amor fati, aiuta Harold/Lorenzo ad abbracciare l’esistenza tutta come esperienza trasformativa (mutuando un’immagine da John Dewey), offrendogli, a questo proposito, un’alternativa prospettica che non prevede scorciatoie: attraverso il disagio si può giungere alla scoperta, infine all’accettazione del cambiamento come tassello imprescindibile della crescita. Alla fine è anche il significato della balena – e Lorenzo vede e ripensa a una nuvola a forma di balena – in Pinocchio: una creatura che inghiotte e trasforma. È l’ignoto del mutamento (del caos), ma anche il passaggio verso una comprensione più profonda.
Non è detto che vada davvero così – in un bellissimo film di Emir Kusturica, girato negli anni Novanta, Arizona Dream, si dice anzi che due rami storti non ne fanno uno dritto – ma nei sogni tutto è possibile. E allora, tra la costellazione – un ensemble – in cui i figli non scontano le colpe dei padri (né sono lo specchio dei padri) e il temibile guerriero spartano, ovvero la squadra intitolata a Leonida, ci piace pensare che a spuntarla, prima o poi, sarà la prima.
E quindi uscimmo a riveder le stelle…

BIO ILARIA MAINARDI:
Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita.
Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema.
Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.
Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!
2 risposte
Buongiorno Ilaria ed ennesimo
Chapeau per le non semplici argomentazioni trattate. A dire il vero la tua penna questa volta mi ha costretto a sfogliare l’ultimo dizionario Zingarelli per alcuni sostantivi, propriamente usati, ma ancora di mia colpevole disconoscenza.
Un commento più attendibile lo rimando scusandomi ai post letture sia del tomo dello psicanalista argentino Miguel quanto del Bestseller del nostro Invincibile Filippo!
Buona giornata ed un caro abbraccio.
Massimo 48 ❤️🖤
Grazie mille come sempre, Massimo! A rileggerci presto!