Quando l’Inter acquista Youri Djorkaeff nell’estate del 1996, lo fa con un obiettivo preciso: aggiungere qualità e intelligenza tattica a una squadra ancora alla ricerca di se stessa. Moratti sta spendendo cifre enormi per riportare l’Inter al vertice, ma i risultati continuano a non arrivare. Si cambia tanto, troppo, e il progetto non sembra mai trovare stabilità.
Il francese arriva dal Paris Saint-Germain dopo una stagione straordinaria, in cui ha segnato diciassette gol e incantato con giocate essenziali e decisive al tempo stesso. Ha quasi trent’anni, è nel pieno della maturità calcistica e rappresenta una tipologia di giocatore che in Italia, in quel momento, viene guardato con curiosità. È un numero dieci, ma non un fantasista tradizionale. Non è un regista avanzato alla Zidane, né un rifinitore che vive solo dell’ultimo passaggio. Ha letture raffinate e sa fare male pur non essendo un accentratore di gioco.
L’Inter di Hodgson è una squadra con idee di gioco precise, costruita su una solida organizzazione difensiva e un calcio metodico. Ma Djorkaeff non è un giocatore schematico. La sua qualità sta nel capire i momenti della partita, nell’adattarsi agli sviluppi dell’azione con una naturalezza che sembra innata. Non aspetta il pallone tra i piedi come i numeri dieci classici, ma si muove continuamente per dare soluzioni ai compagni. Se serve, si abbassa per aiutare la costruzione, portando fuori posizione un centrocampista avversario. Se c’è spazio, lo attacca con tempi perfetti, sempre un secondo avanti rispetto agli altri.
La sua prima stagione all’Inter è eccellente dal punto di vista individuale. Chiude l’anno con diciassette gol tra campionato e coppe, più di qualsiasi altro giocatore nerazzurro. Gioca da seconda punta nel 4-4-2 di Hodgson, ma con libertà di movimento.
Il 5 gennaio 1997, contro la Roma, San Siro assiste a una delle reti più iconiche della sua carriera. Un pallone che rimbalza in area, sporco, difficile da controllare. Djorkaeff lo legge prima degli altri, si piega su se stesso e si solleva in aria con una rovesciata perfetta, con il pallone che si infila sotto l’incrocio. È un manifesto che riassume alcune delle caratteristiche che rendono il fantasista francese un esemplare raro: equilibrio, sensibilità tecnica, capacità di esecuzione.

5 GENNAIO 1997 – IL GOAL IN ROVESCIATA DI DJORKAEFF A S.SIRO CONTRO LA ROMA
Un altro gol memorabile arriva contro il Verona, a marzo. Controllo orientato con il primo tocco, tiro al volo con il secondo, senza lasciar cadere il pallone. Un’azione di pochi secondi che mostra la sua capacità di pensare il gioco con un tempo d’anticipo.
Nonostante le sue prestazioni, l’Inter chiude la stagione al quarto posto, senza trofei. Hodgson viene esonerato e la squadra viene nuovamente rivoluzionata. Djorkaeff è uno dei pochi punti fermi, ma intorno a lui tutto cambia. Nell’estate del 1997 arriva Ronaldo e il calcio dell’Inter prende una direzione completamente diversa.
Djorkaeff e Ronaldo: connessione invisibile
L’Inter del 1997-98 è un’altra squadra rispetto a quella dell’anno precedente. Moratti ha deciso di fare quello che sa fare meglio: stravolgere tutto, investire cifre folli e provare a costruire una squadra finalmente all’altezza delle sue ambizioni. Il colpo più importante è l’acquisto di Ronaldo, il talento più cristallino del calcio mondiale. L’Inter lo paga 48 miliardi di lire e gli affida il compito di riportarla al vertice.
L’Inter cambia pelle anche in panchina. Hodgson, troppo rigido nelle sue idee, lascia il posto a Gigi Simoni, un allenatore esperto, pratico, uno che sa gestire i campioni senza soffocarli in schemi troppo rigidi. Djorkaeff non è più il fulcro assoluto del gioco, ma si adatta senza problemi alla nuova dimensione della squadra. La sua intelligenza calcistica gli permette di ridisegnarsi in campo, senza mai perdere la sua centralità.
Simoni imposta un 4-4-2 con Djorkaeff che parte nominalmente da sinistra, ma ha libertà totale di movimento. Il francese capisce subito che il suo compito non è più solo quello di creare gioco, ma anche di rendere più fluido l’attacco attorno a Ronaldo. Non ha bisogno di essere la star: si muove per aprire spazi, si abbassa per facilitare la manovra, si inserisce quando la difesa avversaria si concentra troppo su Ronaldo.
L’intesa tra i due nasce in modo naturale. Djorkaeff non è un trequartista che cerca l’assist spettacolare, ma quasi sempre sa, esattamente, dove finirà il pallone. Quando Ronaldo parte in velocità, lui è già pronto a ricevere il passaggio di ritorno. Quando il brasiliano attira tre difensori su di sé, Djorkaeff legge il varco e si avventura in praterie più o meno vaste.
I numeri raccontano solo una parte della storia: segna otto gol in campionato e tre in Coppa UEFA, ma il suo impatto va decisamente oltre le statistiche. È il giocatore che dà equilibrio alla fase offensiva della squadra, quello che permette agli altri di brillare senza perdere il controllo del gioco. L’Inter finalmente sembra poter competere per lo scudetto. Per mesi tiene testa alla Juventus, sembra pronta a prendersi il campionato dopo anni di delusioni. Ma il 26 aprile 1998 cambia tutto.
Allo Stadio Delle Alpi si gioca la partita che vale la stagione. Djorkaeff è in campo, vive da vicino quello che diventerà uno degli episodi più discussi della storia del calcio italiano. Ronaldo entra in area, Iuliano lo travolge, il rigore è netto, ma l’arbitro Ceccarini lascia correre. L’azione prosegue, pochi secondi dopo la Juve si guadagna un rigore per un fallo su Del Piero. Djorkaeff è tra i primi a protestare, a capire che in quel momento tutto è sfumato. L’Inter perde la partita, la Juventus vola verso lo scudetto.
Pochi giorni dopo, l’Inter disputa la finale di Coppa UEFA contro la Lazio, al Parc des Princes di Parigi. Per Djorkaeff è una notte speciale, è come giocare in casa. Quella sera l’Inter gioca una partita perfetta. Zamorano segna subito, Zanetti raddoppia con un destro violentissimo da fuori area, Ronaldo chiude il 3-0 con una finta su Marchegiani che diventa immediatamente storia. Djorkaeff non segna, ma è ovunque. Alza il suo primo trofeo con l’Inter nella sua Parigi. Sembra l’inizio di un ciclo, ma sarà solo un’illusione. L’Inter non sa gestire il successo. E la stagione successiva, tutto torna nel caos.
L’inizio della fine
L’estate del 1998 porta con sé una promessa di stabilità. Simoni viene confermato, la rosa non cambia troppo e l’obiettivo è chiaro: vincere lo scudetto. Ma bastano poche settimane per far capire a Djorkaeff che qualcosa non va. L’Inter è meno brillante dell’anno precedente, meno affamata. Ronaldo è stanco dopo un Mondiale giocato fino all’ultimo atto, la squadra fatica a trovare ritmo.
Il 30 novembre 1998 arriva la decisione che distrugge ogni equilibrio: Moratti esonera Simoni. Il tecnico che aveva reso l’Inter una squadra vera viene allontanato senza troppi complimenti, sostituito prima da Mircea Lucescu, poi da Luciano Castellini (ad interim) e infine da Hodgson, incredibilmente richiamato dopo essere stato cacciato due anni prima. Djorkaeff assiste al caos con la lucidità di chi ha già capito tutto. Non si vince cambiando allenatore ogni tre mesi, non si costruisce una squadra se ogni anno si riparte da zero.
Nel frattempo, Ronaldo si rompe il ginocchio. È l’immagine simbolo di una stagione maledetta. L’Inter crolla definitivamente, esce da tutte le competizioni e chiude il campionato all’ottavo posto. Fuori dall’Europa, fuori da tutto. A 31 anni, Djorkaeff sa che il suo tempo all’Inter è finito. Non perché non sia più all’altezza, ma perché ha capito che non esiste un progetto in cui credere. Lui è un giocatore che ha bisogno di ordine, di un’idea chiara di squadra. L’Inter, in quel momento, è il contrario di tutto questo. In estate arriva l’offerta del Kaiserslautern e Djorkaeff accetta senza troppe esitazioni. Lascia l’Inter in silenzio, senza polemiche, con la stessa classe con cui ha sempre giocato.
La sua storia ad altissimi livelli non è finita. L’anno dopo, con la maglia della Francia, vince l’Europeo da protagonista, giocando accanto a Zidane, Henry, Vieira e altri fuoriclasse. Mentre alza la coppa, l’Inter è solo un ricordo. Un capitolo intenso, affascinante, ma chiuso per sempre.
Lontano dai riflettori
Quando un calciatore si ritira, di solito ci sono due strade: restare nel mondo del pallone, magari come allenatore o dirigente, oppure sparire lentamente dai radar. Djorkaeff ha scelto una terza via. Dopo aver chiuso la carriera nel 2006 con i New York Red Bulls, avrebbe potuto restare in Europa e trovare un posto in qualche club importante. Ma lui ha sempre avuto un’idea diversa del futuro.
Si è trasferito negli Stati Uniti e ha iniziato un percorso completamente nuovo, fondando la Djorkaeff Foundation, un’organizzazione che lavora con i giovani in difficoltà, utilizzando il calcio come strumento di inclusione sociale. Non un progetto di facciata, ma un impegno reale, concreto. Parallelamente, è entrato nel mondo della FIFA con un ruolo attivo nello sviluppo del calcio globale. Nel 2020 è stato nominato responsabile della Divisione Fondazione FIFA, con l’obiettivo di promuovere il calcio in contesti difficili, portandolo anche in zone del mondo dove lo sport è ancora un lusso per pochi.

BIO: Vincenzo Corrado, classe ’87, è un giornalista professionista. Nato al mare e cresciuto tra la nebbia. Ha lavorato per 15 anni per il Gruppo Gedi (ex Espresso-Repubblica) occupandosi di sport e cronaca. Specializzato in storytelling, collabora con diverse testate nazionali. Da novembre 2023 è direttore della rivista sportiva Puntero. Ha pubblicato quattro libri (due belli, due così così).
Una risposta
Complimenti per l’articolo, Youri Djorkaeff farebbe parte di una mia squadra ideale, un giocatore che con l’Inter avrebbe meritato lo Scudetto.