L’ESONERO DI THIAGO MOTTA NON È L’ESONERO DEL “GIOCHISMO”

La Juventus ha esonerato Thiago Motta. Non ha esonerato un “giochista”. Ha deciso, sicuramente a malincuore considerate le premesse, di interrompere un progetto tecnico affidato nello specifico ad un condottiero individuato quale potenzialmente brillantemente idoneo a guidare una compagine agli albori di una ricostruzione, successivamente alle macerie di un triennio durante il quale la stessa sorte non è toccata a Massimiliano Allegri solo per evidenti, insormontabili, oltremodo giganteschi, legami contrattuali (differentemente la totale mancanza di competitività in ambito tricolore con giocatori di spessore internazionale come Bonucci, Chiellini, Dybala, Morata, Chiesa,  Szczesny, Danilo, Rabiot, Di Maria, con gli acquisti economicamente esorbitanti di Vlahovic e Bremer,  associata alle figuracce internazionali come l’eliminazione con vittoria a domicilio per tre reti a zero del Villareal o l’imbarazzante girone di Champions con soli tre punti raccolti fra le mura amiche dell’Allianz contro il Maccabi, avrebbero ragionevolmente dovuto condurre ad un allontanamento considerando i parametri usati per gli altri allenatori, da Sarri in poi).

La Juve ha esonerato una guida tecnica scelta a seguito delle pregevoli esposizioni calcistiche messe in atto in quel di Bologna, annata durante la quale l’analisi  dettagliata dei meriti derivanti dalle virtù qualitative di pensiero dell’ex metronomo (la qualità di idee e scelte partorite nel proprio ambito è comunque sinonimo di una più ampia capacità di riflessione) non si consuma meramente, anche se sensazionalmente, nella conquista della qualificazione in Champions League da parte dei felsinei, ma abbraccia prìncipi, funzioni, evoluzioni di ruoli e sviluppo delle due fasi che hanno inequivocabilmente certificato la bontà avveniristica di un profilo di allenatore che ha letteralmente elevato se non inventato giocatori e modi di dominare spazio e concetti (non dimentichiamo che Calafiori era stato spedito in Svizzera dalla Roma per un compenso economico esiguo, quasi ridicolo, e che Zirkzee era reduce da fallimentari stagioni in prestito in altri lidi).

Come già successo nell’avventura precedente nelle vesti di responsabile dello Spezia, Thiago Motta ha regalato in Emilia vere e proprie “genialate” (per ridestare con più compiutezza d’analisi il suo Bologna vi rimando all’articolo nel blog che si soffermava sulla disamina degli aspetti più particolari), guadagnandosi a ragion veduta la possibilità di essere identificato quale volto di club storicamente più rilevanti della pur gloriosa società che “tremare il mondo ha fatto”.

La Juventus sceglie Thiago Motta, le sue idee, le sue ambizioni e le sue potenzialità, alla stregua di come si possa fare sostanzialmente sempre: non esiste società nel globo di livello internazionale che attua una decisione supponendo possa basarsi, quest’ ultima, su di un principio più generico ed aleatorio come la suddivisione stucchevole e ormai onestamente ridicola fra “giochisti” e “risultatisti”. Semplicemente perché tutti sono risultatisti e quasi tutti ormai giochisti.

Non esiste una guida tecnica che aspiri ad essere giochista senza essere risultatista, o che , ancora peggio, voglia non far leva principalmente sulla qualità degli uomini a disposizione: lungi dal voler assopire o disintegrare il talento individuale e l’istinto primordiale quasi geneticamente intriso nel patrimonio di un campione o di un fuoriclasse, tutte le guide tecniche cercano di far sì che il calciatore venga posto nelle migliori condizioni possibili di esprimere, per l’appunto, il proprio talento.

È un retroterra di pensiero (è offensivo forse addirittura usare questo termine) ormai esclusivamente italico, a testimonianza della pochezza argomentativa ed analitica  universalmente diffusa, volta a liquidare e catalogare senza specificare, individualizzare e soprattutto argomentare.

Thiago Motta, dopo un avvio importante che lasciava intravedere molte accezioni positive, dopo un inizio di stagione straordinario quanto ad attuazione di quelle volontà specificatamente proprie, specialmente nella concezione della fase di possesso e costruzione quale principale arma, soprattutto a partire dalla tutela della fase difensiva (che dunque si allontanava decisamente dalle barricate volte a difendere la porta negli ultimi 25 metri senza palla, contro sostanzialmente chiunque, che la Juve “sceglieva” di effettuare nella precedente gestione), dopo aver assorbito la discriminante decisiva dell’assenza di Bremer in un periodo in cui la squadra si è trovata per oltre due mesi a giocare ogni tre giorni letteralmente falcidiata da continue defezioni ( in alcune circostanze avendo a disposizione appena 13 calciatori di movimento e nonostante ciò mantenendo  l’imbattibilità e raccogliendo buoni risultati in Champions League fra Aston Villa, oggi ai quarti, e City, con l’appendice un po’ paradossale di critiche riguardanti un numero elevato di pareggi che in quella situazione andavano forse principalmente inquadrati quale pregio di essere riusciti a non capitolare), ha visto la propria autorevolezza tecnica e somatica venire meno proprio nel momento in cui era possibile  innalzare “la navicella dell’ingegno”.

Ciò in virtú del rientro di buona parte degli effettivi dagli infortuni, dell’acquisto di Kolo Muani che avrebbe maggiormente dovuto fomentare  entusiasmi e soprattutto in virtù delle certezze costruire nel succitato periodo, durissimo per assenze e ripetitività di incontri di alto livello. Dopo la prima, dignitosissima, sconfitta in quel di Napoli ( un tempo per parte con gli uomini di Conte capaci di ottimizzare la ripresa), la Juve ha paradossalmente perso identità nel momento in cui era cessata la forzata interpretazione della necessità e dunque quando c’era da esercitare il salto di qualità ( che in ogni caso, in campionato, sembrava essere arrivato quanto meno in termini di risultati).

PSV, Empoli, Atalanta e Fiorentina sono state debacle che hanno evidenziato, fatto emergere, le principali colpe ( fino a quel momento solo trapelate e indistintamente soffuse) di una gestione che stava minando alle basi unità d’intenti e compattezza: le suddette partite sono esistite nelle modalità che abbiamo “ammirato” per disunioni interne e scollamenti sui quali la società non ha potuto più soprassedere (pur dovendo sottolineare forzatamente che a certi livelli di professionismo il rendimento non può e non deve essere figlio di rapporti più o meno “affettuosi” fra allenatore e calciatori, differentemente la storia del calcio è piena di diatribe, di rapporti e spogliatoi caldissimi ed indigesti  che non hanno comportato l’annichilimento di risultati ed obiettivi di stagione).

Una sorta di “strana” personalità, peculiare di Thiago Motta “uomo” e “soggetto”,  incline ad una probabilmente errata valutazione in termini di gestione umana e conseguentemente emotiva e, a ulteriore corollario, calcistica, che faceva riversare sul terreno di gioco malumori derivanti da allontanamenti, impieghi bislacchi e temporalità discutibili, a volte tutt’altro che dipendenti, anzi in antitesi, con ciò che si vedeva in campo dal punto di vista delle prestazioni individuali.

È stato in questo marasma che l’italo-brasiliano ha poi offerto su un piatto d’argento la possibilità di poter essere criticato anche contenutisticamente, commettendo gli errori tipici di un allenatore ad inizio carriera: cioè difendere strenuamente le proprie idee poiché ritenute le migliori in assoluto (del resto per certi aspetti sarebbe paradossale se così non fosse, visto e considerato che ai primordi di una carriera ciascun allenatore che sceglie di giocare in un dato modo crede di attuare la migliore versione possibile di un’interpretazione calcistica, proprio perché scelta in quanto strada ipoteticamente più giusta e proficua), noncurante di evidenti incongruenze tattiche e cattive gestioni personalizzate, al punto tale da “incorniciare” disfatte totalitaristiche come quella di Firenze con conseguente drastica decisione di allontanamento.

Ma, indipendentemente da tutto, il discorso è da circoscrivere al pur bravo Thiago Motta (a cui è sacrosanto attribuire diverse attenuanti all’interno di mesi non proprio lui sorridenti in termini di circostanze favorevoli, se è vero come è vero che il terzino destro titolare è stato costretto a giocare da centravanti per un mese e mezzo a causa delle molteplici assenze): l’esonero riguarda un’analisi i cui aspetti non hanno nulla a che vedere con una diatriba sciocca e anacronistica (forse non percepita tale nel nostro Paese solo per un certo tipo di mentalità storica e solo perché ancora oggi ci sono profili di allenatori il cui unico scopo è speculare e sperare di guidare forti individualità a cui aggrapparsi pur dimezzandone le possibilità).

La Juve esonera Motta, non un “giochista”. Secondo questo becero ragionamento la stessa sorte sarebbe toccata a Guardiola o Gasperini? Luis Enrique o Flick? Verosimilmente no. Allora perché, quasi offendendo la capacità di poter usufruire di un intelletto, iniziare ad accostare la Juve ad una società che non può vincere con profili “giochisti”, quasi che in un ipotetico colloquio primordiale le prerogative siano (vien da ridere seriamente) che la scelta debba cadere su chi non è incline ad avere una proposta di gioco? Delirante. Semplicemente delirante. Tanto più che, quale chiosa che più sottolinea l’assurda predisposizione ad alcune valutazioni e dichiarazioni, il miglior allenatore nella storia della Vecchia Signora è stato probabilmente Lippi, cioè un profilo  che sarebbe stato inequivocabilmente etichettato come un giochista, capace di cogliere l’emblema del passaggio storico volto a decretare che fossero acquisiti tre punti per vittoria nella stagione 1994-95, al suo primo anno di Juve, schierando una formazione votata all’offesa con un tridente composta da attaccanti veri (seppur ovviamente con tutela delle due fasi) e sciorinando un calcio dominante che ha condotto la Juve a quattro finali di Champions League in sette stagioni , a cinque scudetti in otto anni, mai speculando, imponendo il proprio gioco con personalità e carattere ad accompagnare gli aspetti tecnico-tattici, inculcando la giusta mentalità.

Quindi, di  cosa stiamo parlando? Quale assurdo anti-sillogismo risiederebbe nell’idea per cui alla Juve vinci se non giochi? In realtà il discorso è molto più semplice: alla Juve resti se vinci o ci sono i presupposti per vincere, tutto qui. E, va da sé, con una mentalità che si confà alle necessità di vittoria di un club che per antonomasia interpreta i successi quale esclusiva gratificazione esistenziale. Non è che se vinci giocando bene vieni esonerato perché stai giocando bene ( risata grassa).

BIO: ANDREA FIORE

Teoreta, assertore della speculazione del pensiero quale sublimazione qualitativa e approdo eminentemente più aulico della rivelazione dell’essenza di sé e dello scibile, oltre qualsivoglia conoscenza, competenza ed erudizione quali esclusive basi preliminari della più pura attuazione di riflessione ed indagine. Calciofilo, per trasposizione critico analitico di ogni sfaccettatura dell’universo calcistico, dall’ambito  tecnico-tattico all’apparato storico, dalla valutazione individuale e collettiva ai sapori geografici e culturali di una passione unica. La bellezza suprema del calcio è anche il suo aspetto più controverso: è per antonomasia di tutti e tutti pens

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