Era l’estate del 1990, e l’Italia intera aveva il cuore in subbuglio. Il Mondiale in casa era stato un’altalena di emozioni, di lacrime e speranze, di notti magiche che ancora oggi risuonano come un vecchio vinile consumato. Fu allora che iniziai a seguire il calcio, affascinato dagli Azzurri e da quel senso di appartenenza che solo il pallone sa regalare.
Poche settimane dopo, i miei genitori mi misero tra le mani il mio primo album Panini. E da quel momento, il calcio non fu più solo un gioco, ma una porta su un mondo tutto da scoprire. Ogni figurina era una storia, ogni nome un viaggio. Mi ritrovavo a cercare la Danimarca sulla cartina solo perché il Pisa, che quell’anno salutava la Serie A, aveva tra le sue fila un certo Larsen. C’erano anche Pullo, Dolcetti e poi gli stranieri che sembravano personaggi di un romanzo d’avventura: il “Cholo” Simeone, con il suo sguardo da guerriero, e José Chamot, che parecchi anni dopo avrebbe alzato al cielo, con la maglia del Milan, una Champions League da comprimario ma con l’anima del protagonista.
E poi c’era lui, Ruud Gullit, una leggenda con le treccine al vento e un talento che sembrava non avere confini. Ne conservo ancora la figurina doppione, come si custodisce un vecchio biglietto di un concerto che ha cambiato la vita. E se Maradona era il re, Gullit era il poeta ribelle che danzava sul campo con la leggerezza di chi sa che il pallone, in fondo, è un’arte.
Sfogliavo l’album e trovavo Franco Baresi, indicato come Franco Baresi (III), quasi a ricordarmi che nel calcio la storia si scrive con i dettagli. E accanto a lui, Filippo Galli, un altro di quei nomi che, a distanza di anni, ancora evocano il calcio di una volta. Un calcio fatto di bandiere, di capitani di lungo corso e di squadre con anima italiana e, soprattutto, zeppe di calciatori locali.
Va detta una cosa, subito, senza equivoci: qui non si tratta di nostalgia fine a sé stessa. Il calcio è cambiato, si è evoluto, si è fatto più veloce, più scientifico, più esasperato nella preparazione. Oggi vediamo in campo atleti che sembrano usciti da un laboratorio biomeccanico, corrono senza sosta, hanno corpi scolpiti da algoritmi e GPS. Ma allora, cosa ci manca davvero di quel Milan degli anni ’80? Di quella creatura sacchiana che incantava l’Europa?
Certo, il gioco era straordinario, il dominio era totale, ma c’era dell’altro. C’era un’anima, un’identità che oggi sembra quasi anacronistica. Perché quella squadra, nella sua raffinata modernità tattica, conservava un legame profondo con la sua terra. In un calcio sempre più globalizzato, quel Milan era ancora, almeno in parte, una storia di casa. Dentro quella rosa straripante di talento, tra Gullit, Van Basten e Rijkaard, c’era un cuore pulsante fatto di uomini che parlavano lo stesso dialetto, cresciuti tra i cortili lombardi e le colline toscane.
Nel Milan che sollevò la Coppa dei Campioni nel 1990, il blocco lombardo era un nocciolo duro, quasi identitario. Pensiamo a Baresi, Costacurta e Filippo Galli, ad Albertini, Donadoni, Maldini, Colombo e Massaro tra coloro che avevano un certo spazio. I lombardi erano gente tosta, cresciuta tra nebbie e palloni sbucciati sull’asfalto: non possiamo non citare anche Lantignotti, Antonioli, Verga, Stroppa, Borgonovo o Simone. Non va dimenticato che diversi tra questi calciatori lombardi provenivano dalla Brianza, come il “nostro” Filippo Galli. Poi c’erano i laziali, con Tassotti, il compianto Salvatori e il già citato Pullo, gente di carattere, cresciuta tra il Tevere e i sogni di gloria. E i toscani? Galli, Pazzagli, Evani e Carobbi, forgiati tra colline e campetti di provincia, dove il pallone è poesia e sacrificio. E ancora, tra gli italiani celebri di quella rosa, nomi che avrebbero lasciato il segno: Ancelotti e anche Fuser.
Andiamo a ritroso nel tempo, rimestando nella memoria fino all’anno di insediamento del Vate di Fusignano, la stagione 1987-88. Il parco portieri, allora, aveva connotati ben diversi: oltre al già citato Giovanni Galli, si contavano il veneto di nascita e ternano d’adozione, Giulio Nuciari e il monzese Limonta, nomi che risvegliano echi lontani nei cuori più nostalgici. Solo i più eruditi del culto rossonero ricorderanno Walter Bianchi, romagnolo d’esportazione nato in Svizzera, fido scudiero di Sacchi nelle sue epiche cavalcate. Il tocco toscano, imprescindibile in ogni epoca, era assicurato da Mannari e dal coriaceo Mussi, che qualche anno dopo avrebbe calcato il prato della finalissima mondiale del ’94.
Completavano la brigata Cappellini, milanese DOC, e l’inossidabile sommelier di gol, Pietro Paolo Virdis, sardo e implacabile nel suo mestiere. L’anno successivo, il contingente lombardo si arricchiva ulteriormente con le presenze di Lantignotti, Villa e il portiere Pinato, anch’egli figlio della Brianza. Un mosaico di uomini e accenti vicini, legati dal fil rouge di un’epopea calcistica destinata a scolpirsi nell’eternità.
Quel Milan era un gruppo che non era solo una somma di giocatori, ma una storia da raccontare. C’era qualcosa di speciale in quella squadra: una fusione perfetta tra il genio dei tre olandesi e la solidità di un gruppo cresciuto con gli stessi riferimenti. E allora forse sì, un bel po’ di nostalgia è concessa. Non solo per il gioco, per la bellezza di quell’epopea, ma per quel senso di radici, di appartenenza, che oggi sembra essersi disperso tra trasferimenti miliardari e apolidi del pallone.

BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.