È DAVVERO POSSIBILE VINCERE LE PARTITE DA SOLI?

Abbiamo spesso udito, scandite come un’arcana litania, le parole: “Maradona vinceva le partite da solo”. Non più tardi di qualche anno fa, l’imperituro e loquace Fantantonio Cassano, mai avvezzo ai panegirici diplomatici, ha sentenziato che i sodali partenopei del Pibe de Oro altro non fossero che “scappati di casa”. L’affermazione, fiammeggiante e lapidaria, ha innescato l’ira furente di Ciro Ferrara, pronto a lanciarsi a testa bassa contro il barese dalla lingua tagliente. Sia come sia, questa disamina non può che poggiare su un assioma ineludibile e universalmente condiviso: la rosa del Milan era superiore a quella del Napoli.

In realtà il calcio è sport corale, armonia di movimenti, geometria e alchimia: nessuno, neppure il più divino dei solisti, può trasformare una sinfonia in un assolo senza il supporto dell’orchestra. Chi ricorda il Napoli del Diez non può ignorare che accanto a lui danzavano uomini di valore assoluto: Ciro Ferrara, difensore arcigno e pensante, che avrebbe trovato casa nella Juventus vincente degli anni ’90; Alemão, motorino instancabile e di sopraffina qualità; il professore Renica, che leggeva il gioco con l’acume di un rabdomante; e poi Careca, il centravanti brasiliano (ritenuto all’unanimità il 9 più forte della storia del Napoli) capace di duettare con Diego come un primo violino con il maestro.

«Maradona dava l’impressione di vincere moltissime partite da solo. Mai, prima o dopo di lui, c’è stato un giocatore che faceva provare questa stessa sensazione in maniera così forte», scriveva Jonathan Wilson in un articolo pubblicato su Sports Illustrated. Le parole dello scrittore di Sunderland possiedono il fascino della sintesi efficace, ma tradiscono la complessità del calcio, sport che sfugge alle semplificazioni eroiche. Dire che Maradona dava l’impressione di vincere da solo è suggestivo, ma è una forzatura dialettica utile solo a esaltare la sua grandezza, non a spiegare il gioco nella sua interezza.

Se bastasse un fuoriclasse solitario a plasmare il destino, allora Lionel Messi non avrebbe potuto subire l’onta del famigerato 8-2 inflitto dal Bayern Monaco al suo Barcellona nel 2020. Eppure, il medesimo Messi, a 35 anni e con le primavere che pesano sulle gambe come zavorre d’acciaio, si è issato sul tetto del mondo con l’Argentina, orchestrando un Mondiale da miglior giocatore del torneo. Cosa era cambiato? Il contesto, la squadra, l’architettura attorno a lui: compagni funzionali, tattica calibrata, uno spirito collettivo che ha permesso alla sua grandezza di incidere davvero.

Il calcio non è un’esaltazione del singolo, ma un intricato mosaico di intese, di equilibri, di coperture e giocate codificate. La verità è più complessa delle narrazioni da bar: il talento è luce, ma senza una struttura che lo esalti resta un lampo nel buio. Maradona fu un fenomeno senza pari, ma il suo Napoli vinse perché attorno a lui fiorì una squadra vera, che lo aiutò a trasformare il genio in gloria. Stesso discorso per Messi, scudiero di Ronaldinho agli albori della carriera, messosi in proprio a 20 anni, ma coadiuvato da leggende dell’arte pedatoria come Xavi, Iniesta o Daniel Alves.

Il calcio è un’arte collettiva, un’orchestra in cui ogni strumento deve suonare alla perfezione affinché il solista possa brillare. La vittoria nasce da una miriade di variabili: la disposizione tattica, la sinergia tra i reparti, la qualità dei compagni, la strategia dell’avversario, perfino fattori invisibili come la fiducia o la condizione fisica.

Ecco dunque la sintesi suprema, scolpita nella pietra delle verità calcistiche: il fuoriclasse – che si chiami Messi, Maradona, CR7, Gullit, Pelé o Cruyff – non è mai un solitario Don Chisciotte, ma un demiurgo capace di trasformare un manipolo di uomini in un’armata vincente. Non decide il destino con la sola grazia del suo piede fatato o con l’esplosività del suo fisico, ma illumina il cammino ai compagni, li eleva, li rende migliori. È faro nella notte, scintilla che accende l’ingranaggio collettivo.

Maradona non giocò mai davvero da solo, ma il suo Napoli vinse perché lui, solo, lo rese capace di vincere. Messi non si caricò il Mondiale sulle spalle come Atlante col mondo, ma fu la stella polare che orientò l’Argentina verso la gloria. Il calcio non è scienza esatta, bensì fusione di talento e strategia, arte e mestiere. E il fuoriclasse, in questo teatro di scontri e geometrie, non vive in una campana di vetro: è il sovrano che fa della sua corte una dinastia immortale. Il talento individuale è la leva che può spostare l’equilibrio, ma senza un sistema che lo sorregga, resta solo un’illusione romantica. I migliori fuoriclasse di sempre incidevano più di chiunque altro sul terreno di gioco, ma non vincevano mai da soli: vincevano perché riuscivano a far vincere la squadra.

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

2 risposte

  1. Ovviamente hai ragione. Ricordo un particolare della squadra del Napoli che vinse il campionato 1986-87. Alla partenza del torneo la squadra appariva incompleta, fu preso Romano (un regista che militava in “B” con la Triestina), l’inserimento di quella rotella nel meccanismo della squadra, ne trasformò completamente l’efficacia del suo gioco. Romano non era un campione, infatti dopo il Napoli se ne sono perse le tracce. Ma come lui altri calciatori del Napoli erano si bravi giocatori, ma neanche loro campioni. Ma ogni calciatore aveva un ruolo importante nel gioco del Napoli, incentrato ovviamente sul far rendere al massimo Maradona. Di alto profilo, al suo fianco non aveva ancora Careca ma Giordano e Carnevale ed in difesa un trio centrale Ferrario-Ferrara-Renica e a centrocampo Bagni. Gli altri erano comprimari che si esaltavano nel completare una grande orchestra.
    Ovviamente, come dici anche tu, con il grande campione tutto è facilitato.

  2. Si esatto, altro che scappati di casa. Ferrara e Francini terzini, Crippa (vendendo il quale il Toro è andato in serie B).
    Oltre al già ricordato acquisto determinante di Romano c’è la coppa UEFA del 1989, nella quale andarono in rete tutti i giocatori, non solo Maradona e Careca

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *