Verosimilmente la società calcistica con più sostenitori in ambito globale (benché, sotto questo aspetto, v’è a onor del vero da rimarcare presunti parametri decisamente fallaci e supposizioni collettive che non collimano con quelle che sarebbero più pertinenti adesioni individuali nonché, oggigiorno termometro più attendibile, i quantitativi totalitari numerici nell’ambito delle piattaforme “social”), ammirato e almeno nelle aree maggiormente appartenenti alla sfera d’influenza anglosassone in altrui continenti idolatrato alla stregua della più vincente compagine planetaria, il Manchester United gode di un prestigio che, a onor di parresia, non pare poter essere accostato ad un sillogismo di aristotelica memoria qualora fosse la storia del calcio a doverne decretare alture e piazzamenti.
Naturalmente attorniato dal prestigio doverosamente da riconoscere ad una delle società più vincenti di quella isolata, per etimologia geografica e semantica, regione del globo che ha regalato al resto delle terre emerse lo spettacolo del football, il Manchester United, protagonista di una recente, fantastica, epopea che si dirama a partire dall’ultimo decennio dello scorso millennio fino ad una decade fa, è riuscito, soprattutto grazie alle inconfondibili e pittoresche atmosfere del calcio britannico in concomitanza con l’incedere a ruolo apicale della Premier League, ad assurgere a club punto di riferimento del panorama mondiale.
Ma, storicamente e per continuità di rendimento, quanto ciò corrisponde realmente alle gesta racchiuse nella narrazione emozionale e cronologica della compagine di Old Trafford? Lo United è l’unica fra le grandi società del caro, decadente, ininfluente (per dinamiche sfuggenti alla beltà e alla condivisione della felicità quale finalità etica della vita) Vecchio Continente, a non aver raggiunto la doppia cifra in ambito di trionfi internazionali ( in compagnia dell’Inter e del Chelsea, fermi a quota nove, e altresì dell’Atletico Madrid e del Siviglia, che come i “red devils” vantano in bacheca otto titoli europei ma naturalmente, gli appena succitati club, complessivamente, sono contraddistinti da una caratura e da un blasone non equiparabile alla nobiltà del calcio continentale), a differenza di Real Madrid, Milan, Barcellona, Liverpool, Bayern Monaco, Juventus e Ajax, capaci di sollevare al cielo stellato dell’emisfero boreale dieci o più titoli internazionali (fino agli ormai apparentemente irraggiungibili 32 trofei della “Casablanca”, un distacco sulla concorrenza reso inevitabilmente principalmente incolmabile dai 17 conquistati nelle ultime 11 stagioni).
Il Manchester United ha disputato solamente 5 finali nella storia della Coppa dei Campioni (vincendone tre, due delle quali a dir poco rocambolesche, in Catalogna durante i minuti di recupero al cospetto dell’allora prossimo ai festeggiamenti Bayern Monaco, in virtù delle marcature dei subentrati Solskjaer e Sheringham, e altresì la gioia ai rigori contro il Chelsea nel 2008 dopo l’iconico scivolone di Terry nell’atto di calciare il rigore decisivo che avrebbe sigillato e suggellato, differentemente, la prima coppa dei londinesi), una in meno di Inter ed Ajax, due in meno rispetto al Benfica, a tre lunghezze dal Barcellona, ben quattro dalla Juventus, cinque dal Liverpool e ben sei atti conclusivi in meno rispetto a Milan e Bayern Monaco che a quota undici s’inchinano al solo Real Madrid che guarda tutti dall’alto in basso in virtù delle diciotto finali inanellate nella massima competizione continentale.
Secondo l’Istituto di Storia e Statistica del calcio ufficialmente riconosciuto dalla federazione internazionale (e noto con l’acronimo di IFFHS), il Manchester United non compare fra le prime dieci squadre nella classifica stilata per sancire in ambito europeo (e negli altri continenti), successivamente allo sconfinamento nel nuovo millennio, quali fossero le compagini migliori per risultati raggiunti nel secolo scorso: in rigoroso ordine di graduatoria Real Madrid, Juventus, Barcellona, Milan, Bayern Monaco, Inter, Ajax, Liverpool, Benfica ed Anderlecht surclassano i rossi mancuniani, seppur nobilmente incastonati e ritratti nel ventesimo secolo grazie alle pennellate di Charlton e Best ( icone della squadra di Sir Busby che trionfò nel sessantotto in quel di Wembley contro il Benfica di Eusebio).
Seppur lodevolmente compagine più “scudettata” d’Inghilterra (in attesa che la matematica consegni al Liverpool di varcare la soglia dei venti titoli di campione nazionale, esattamente come lo United), il Manchester conta, nel variegato universo del calcio monarchico, addirittura 22 tornei nelle serie minori d’oltremanica.
Nelle ultime quattordici stagioni, successivamente all’ultima finale di Champions League disputata nel 2011 contro il Barcellona e persa per tre reti ad una, i “red devils” si sono spinti in sole due circostanze sino ai quarti di finale della più importante competizione internazionale, differentemente collezionando mancate qualificazioni al più prestigioso torneo continentale o, nella migliore delle ipotesi, eliminazioni alla fase iniziale. Si aggiunga che in campo nazionale l’ultimo campionato in bacheca risale al 2013.
In sostanza molto dell’inebriante e, va da sé dopo aver sciorinato alcuni dati inequivocabili, onestamente oltremodo ingigantito alone che avvolge storicamente le gesta del Manchester, è da circoscriversi ai fasti dell’era Ferguson, ventisei anni durante i quali gli undici dell’Old Trafford hanno raccolto ben 13 Premier League (fino all’avvento di Sir Alex, or dunque, appena sette erano gli “scudetti” a nobilitare la sala dei trofei), due Champions League, una Coppa delle Coppe (vinta contro il Barcellona nel 1991 dopo che le società britanniche erano state costrette a non frequentare i cortili al di fuori dei confini per cinque anni a corollario dei tragici fatti dell’Heysel), una Supercoppa Europea e due coppe Intercontinentali, vale a dire la totalità delle manifestazioni internazionali vinte nell’ intera storia ad eccezione della prima Coppa dei Campioni risalente al 1968 e dell’Europa League conquistata otto anni or sono.
Un’epopea sicuramente sublime figlia di una straordinaria competitività, culla di calciatori fantastici che hanno scritto la storia del calcio inglese, di una mentalità forgiata ai primordi dalla decisione di lanciare un ciclo con i terribili “ragazzi del ‘92”, che, però, non proietta lo United alla stregua di club oggettivamente più grandi.
Restano magistralmente consegnate agli albori del calcio per oltre quattro lustri le diverse, qualitativamente elevatissime, formazioni: difficilmente replicabile, per completezza, per quantità e qualità, la linea mediana costituita da Beckham (la confusione fra fama estetica e caratteristiche da fuoriclasse ha spesso contraddistinto i giudizi sul miglior piede destro del calcio europeo: la purezza del calcio di Beckham, sia a breve che soprattutto a lunga gittata, suggerisce una tale, azzardata, celebrazione; modalità tecniche, precisione e facilità di calcio dello “spice boy” avallano tale considerazione…che, ben inteso, non rende a mia veduta l’inglese il giocatore più tecnico della storia del Vecchio Continente: Zidane, Platini, Roberto Baggio, Iniesta, Cruijff, Best, Van Basten, sono complessivamente di un altro pianeta sotto il profilo puramente qualitativo, ma David colpisce, indirizza, fa viaggiare il pallone senza in questo essere secondo a nessuno), Keane, Scholes e Giggs( il gallese, tecnica sopraffina, funambolico e ubriacante, è il calciatore più vincente della storia del calcio inglese, con l’incredibile record consistente nell’aver segnato in ognuna delle edizioni del campionato inglese e contemporaneamente nel maggior numero di edizioni consecutive da quando ha per l’appunto assunto la denominazione attuale nel 1992; è fra i pochi ad aver disputato oltre mille gare da professionista e con le sue 963 presenze con lo United è il calciatore ad aver indossato più volte di chiunque altro la maglia di un unico club).
Altresì difficilmente accostabile a qualsivoglia altra figura forse il volto per antonomasia, poiché capostipite dell’epopea, del periodo aureo dei mancuniani, Eric Cantona: sembrava dovesse essere, la sua, una carriera costretta ad essere ridimensionata, sin da subito, dall’aspro carattere. Forte, talentuoso, carismatico ma cattivo, focoso, eccessivamente sui generis. Venticinquenne, nel Marsiglia che punta a vincere tutto, Eric suggerisce non poterci stare. Maglie scaraventate al suolo, risse, offese al commissario tecnico della Francia in diretta televisiva, rapporti difficili nello spogliatoio, sia al Montpellier che all’Auxerre che al Bordeaux. E al Nimes: squalificato per tre mesi dalla federcalcio (pallonata all’arbitro) annuncia il ritiro e si dedica all’arte.
Platini lo convince a proseguire e ne caldeggia il trasferimento in Inghilterra. Cantona non è “francese”, non è leggiadro, non è elegante, è ruvido, ha colpi fantastici, ama le zuffe, i tackle, il contatto fisico, un clima caldissimo dentro lo stadio. Insomma, è british. Leeds United: poi, lo United. Dal ’92 al ’97. Le inglesi erano state da poco riammesse alle competizioni europee ed il Manchester aveva vinto la Coppa delle Coppe. I red devils hanno però solo sette titoli inglesi. Il Liverpool 18. E Ferguson è seduto già da sei anni sulla panchina dell’Old Trafford. Cantona arriva alla corte dello scozzese da campione in carica col Leeds. È la prima edizione della Premier League. A Manchester il titolo manca da 26 anni. Eric Cantona, con l’iconico 7 sulla casacca, ne vince 4 su 5: è il Blackburn di Alan Shearer a non consentire l’en plein, nell’anno in cui “the king”, però, manca.
Selhurst Park, Eric esagera: reazione violenta verso un tifoso del Crystal Palace poco cordiale, squalifica inevitabile, ben nove mesi lontano dal campo. La nazionale francese lo silura per sempre. Giocatore del secolo per i tifosi dello United. Lascia ad appena 31 anni il calcio. È stato uno dei pochi fuoriclasse degli anni novanta a non aver militato nel campionato di Serie A.

ANDREA FIORE
BIO: ANDREA FIORE
Teoreta, assertore della speculazione del pensiero quale sublimazione qualitativa e approdo eminentemente più aulico della rivelazione dell’essenza di sé e dello scibile, oltre qualsivoglia conoscenza, competenza ed erudizione quali esclusive basi preliminari della più pura attuazione di riflessione ed indagine. Calciofilo, per trasposizione critico analitico di ogni sfaccettatura dell’universo calcistico, dall’ambito tecnico-tattico all’apparato storico, dalla valutazione individuale e collettiva ai sapori geografici e culturali di una passione unica. La bellezza suprema del calcio è anche il suo aspetto più controverso: è per antonomasia di tutti e tutti pensano di poterne disquisire.