FEBBRE A 90′(FEVER PITCH)

C’è un punto preciso, nella vita di ogni tifoso, in cui ci si accorge che il calcio non è più solo una distrazione, un gioco, un passatempo. Succede una domenica pomeriggio, magari piove, magari lo streaming si inceppa, magari sei solo in casa e la tua squadra ha appena perso una partita insignificante. Eppure ti senti svuotato, come se qualcosa si fosse rotto dentro. Non è solo rabbia, non è solo tristezza. È un senso di non senso. È allora che cominci a capire che la partita che hai appena visto, o che avresti voluto non vedere è il tuo modo di stare al mondo.

Febbre a 90°, il libro di Nick Hornby uscito nel 1992 e arrivato in Italia due anni dopo, non racconta la storia di un tifoso dell’Arsenal. Racconta qualcos’altro. Qualcosa di più profondo, che riguarda anche chi non ha mai messo piede a Highbury, chi non sa chi fosse Charlie George o non ha mai sentito nominare Alan Sunderland. Parla di tutti quelli che, almeno una volta, hanno sentito la propria vita sincronizzarsi con un calendario sportivo. È un libro che non ti spiega il calcio. Ti spiega perché ci resti dentro.

Ci torniamo sempre, a Febbre a 90°, perché riesce a metterci a nudo senza compatirci. Ci guarda mentre prendiamo un treno per uno 0-0 in trasferta con 3 gradi sotto zero. E invece di dirci “sei scemo”, dice “ti capisco”. Racconta l’Arsenal, sì. Ma prima ancora racconta l’ossessione. E prima dell’ossessione, racconta il bisogno. Di appartenenza, di identità, di ordine. E nel raccontare tutto questo, racconta anche noi.

Scrivere oggi, a più di trent’anni dalla sua uscita, che Febbre a 90° è il miglior libro mai scritto sul calcio può sembrare una provocazione. O peggio, una banalità. In un’epoca in cui si scrive tanto e si legge poco, in cui ogni mese esce un nuovo libro che “cambia il modo di vedere lo sport”, rimettere Hornby al centro può sembrare quasi conservatore. Eppure, come quelle canzoni che sembrano parlare solo di te, o come quegli amici che non senti per anni ma quando li rivedi riprendi il discorso da dove l’avevi lasciato, Febbre a 90° ha una verità che non invecchia.

Questo articolo è il tentativo di capire perché. Perché quel libro, così britannico, così legato a una squadra, a un’epoca e a una biografia specifica, riesce a parlare ancora così tanto anche a chi tifa Avellino o Sampdoria, a chi è nato nel 2001, a chi del calcio moderno detesta tutto e a chi invece lo guarda solo su DAZN. È il tentativo di dimostrare che Febbre a 90° è la risposta, cruda e dolce insieme, a una domanda che non smettiamo mai di farci: “Ma perché ci tengo così tanto?”

Un uomo, una squadra, una vita

Per anni ci siamo raccontati che scrivere di calcio voleva dire ricostruire una partita, tenere il punteggio, ricordare chi ha segnato e quando. Poi è arrivato Febbre a 90° e ci ha mostrato che il calcio si può scrivere come un romanzo. Non un romanzo sul calcio, ma un romanzo attraverso il calcio. Come se le partite fossero solo la superficie visibile di una cosa più profonda: la vita che ci gira intorno.

Il libro non ha una trama nel senso classico. È un memoir, ma scritto come se fosse una partitura musicale. Ogni capitolo è un frammento. Ogni frammento è una partita. E ogni partita è un pretesto. Un’ossessione da cui partire per raccontare qualcos’altro: l’adolescenza, la solitudine, il sesso, i padri, la scuola, la depressione, la Thatcher. Non c’è linearità. C’è un montaggio. Hornby scrive come se stesse facendo zapping dentro la sua testa, con una logica emotiva, non cronologica. A guidarlo non è il calendario del campionato, ma quello della memoria.

Questa struttura spezzata non è solo un vezzo letterario. È una scelta politica, quasi. Hornby non vuole raccontare una carriera o una stagione, ma un’identità. E l’identità, si sa, non si costruisce in linea retta. Ci sono i ritorni, le ricadute, le ossessioni che ritornano sempre allo stesso punto. Il cuore del libro non è un climax, ma una ricorsività. Non si arriva da nessuna parte. Si continua a tornare nello stesso posto, nella stessa curva, davanti allo stesso portiere che sbaglia, allo stesso centravanti che non segna mai. E quello che cambia, lentamente, è solo Hornby.

In questo senso, Febbre a 90° è un romanzo di formazione. Ma è anche un romanzo senza redenzione. Non c’è catarsi, non c’è epifania finale. Alla fine Hornby è ancora lì, con la stessa dipendenza, la stessa incapacità di separare la propria felicità dal risultato di una squadra. E qui sta forse il tratto più onesto del libro. Non vuole farti uscire migliore, non vuole insegnarti niente. Ti mostra una cosa vera e la lascia lì, cruda, ingombrante, a farti compagnia.

C’è qualcosa di joyciano, nel modo in cui Hornby fa affiorare il flusso della coscienza attraverso i goal. Come se ogni pallone toccato dall’Arsenal avesse in sé una parte della sua infanzia, del suo rapporto con il padre, del suo corpo adolescente. E c’è anche un’eco proustiana, nel modo in cui il tempo si deforma, si spezza, si scompone dentro il rito del tifo. Ogni partita è una Madeleine. Ogni stadio è un luogo della memoria.

Eppure, non c’è niente di sofisticato, niente di artificioso. Hornby scrive in un modo che sembra parlarti a bassa voce, come un amico che conosce le pause. Ma se lo leggi con attenzione, ti accorgi che tutto è costruito con una precisione chirurgica. La selezione degli episodi, la misura del tono, la gestione dei salti temporali: tutto contribuisce a una narrazione che non è mai solo personale, ma collettiva. È la storia di un uomo, sì. Ma nel riflesso, ci vedi te stesso.

Scrivere di calcio è scrivere d’amore

Ci sono parole che Hornby non usa mai, o quasi mai. Parole che nella scrittura sportiva tradizionale sono invece onnipresenti: epica, leggenda, mito. In Febbre a 90° non ci sono eroi, né nemici archetipici, né partite destinate a entrare nella storia. Quello che c’è è una vita. Con i suoi silenzi, le sue miserie, i suoi sbalzi d’umore. E soprattutto: c’è un’ossessione. Raccontata come si racconterebbe una relazione lunga, disordinata, troppo importante per essere razionalizzata.

Il vero oggetto del libro non è l’Arsenal. È l’ossessione stessa. Un’ossessione che si nutre di dettagli minuscoli, di gesti ripetuti, di rituali che per gli altri non significano nulla: il posto nello stadio, il panino prima della partita, la voce dell’amico che ti accompagna da anni. Hornby scrive del calcio come si scriverebbe di un amore finito male e che però non riesci a lasciare del tutto. Un amore che ti ha formato, che ti ha reso quello che sei. E che continua a chiamarti ogni domenica, anche quando non rispondi più.

Questa è la grande intuizione di Febbre a 90°: che il linguaggio del calcio non ha bisogno di essere nobilitato. È già carico di senso. Non va reso “poetico”, va solo raccontato per quello che è: quotidiano e ossessivo, a volte grottesco. Hornby non cerca metafore. Offre precisione. Non vuole fare del calcio un’allegoria della vita. Vuole far vedere come il calcio diventa la vita.

Il suo stile ha qualcosa di radiofonico. Sembra parlato. Ma in quella voce c’è un lavoro enorme: sulla misura, sulla cadenza, sull’equilibrio tra ironia e confessione. Non c’è mai una frase troppo lunga, mai una parola buttata lì per fare effetto. Hornby non vuole impressionarti. Vuole che tu riconosca la tua voce nella sua. E quando succede – e succede spesso – ti fa male.

Quella sua voce, così umana, così normale, è diventata un modello. E al tempo stesso un’eccezione. Perché Hornby è riuscito in qualcosa che quasi nessuno riesce a fare quando scrive di sport: trasformare l’ossessione in una lingua. Una lingua fatta di sarcasmo e fragilità, di ricordi imprecisi e di emozioni nitidissime, di parole comuni che però all’improvviso esplodono come rivelazioni.

Quando scrive di una sconfitta, non ti dice che è stata “amara”. Ti dice che ha passato il lunedì a letto, col buio in camera e la sensazione di aver rovinato la settimana. Quando racconta una vittoria, non la mitizza. La guarda con sospetto, come se fosse una trappola. Un’illusione che ti rende ancora più vulnerabile la volta dopo. Nel mondo di Febbre a 90°, la felicità è sempre transitoria. E la disperazione, stranamente, è quasi rassicurante: è la prova che ci tieni ancora.

Il tifoso come maschera moderna

Uno dei meriti più trascurati di Febbre a 90° è che ha inventato – o meglio, svelato – un personaggio che prima non esisteva nella letteratura: il tifoso come figura tragica. Non l’ultrà, non il fanatico, non il romantico da bar. Il tifoso come figura esistenziale. Come maschera della modernità.

L’Hornby protagonista del libro non è un appassionato. È uno che vive attraverso il calcio. Che misura le sue emozioni con il calendario dell’Arsenal. Che fatica a costruirsi un’identità autonoma fuori dalla squadra per cui tifa. Non perché sia malato. Ma perché è cresciuto in un tempo – l’Inghilterra degli anni Settanta – in cui il calcio è diventato l’ultimo spazio simbolico in cui riconoscersi. Il padre se n’è andato, la scuola è distante, il mondo è grigio. Allora si cerca un’appartenenza. E la si trova là, dove nessuno può negartela: in curva.

Hornby racconta tutto questo senza mai dirlo apertamente. Ma è chiaro che il calcio, per lui, non è solo evasione. È sopravvivenza simbolica. L’unica forma possibile di continuità in una società che si sta sgretolando. Sotto questo aspetto, Febbre a 90° è molto più di un memoir sportivo. È un libro sulla costruzione dell’identità maschile nel tardo Novecento. Un’identità ferita, indecisa, incapace di emanciparsi dai riti di passaggio adolescenziali. E aggrappata, per non sparire, a qualcosa di eternamente ripetitivo: il campionato.

La maschera del tifoso, in Hornby, è quella dell’uomo che non riesce a crescere. Che trova nella squadra la scusa perfetta per non prendere decisioni, per non affrontare il vuoto. Il calcio diventa un’ideologia privata: qualcosa che dà senso, ma lo fa in modo opaco, doloroso, ambivalente.
Non c’è compiacimento, in questo. Solo una lucidità disarmante.

In controluce, il libro fotografa un’epoca in cui la mascolinità britannica è in crisi profonda. È il tempo del post-industriale, della disoccupazione giovanile, del thatcherismo che disintegra le classi popolari. È anche il tempo degli stadi che crollano, della violenza che esplode, del tifo che diventa identità tribale.

Questa tensione – tra bisogno di appartenenza e incapacità di affrancarsene – è ciò che rende Febbre a 90° ancora oggi attuale. Perché il tifoso che descrive non è scomparso. È cambiato. È diventato iper-connesso, profilato, mercificato. Ma la radice è la stessa: una forma di fame, un bisogno di essere parte.

Per questo quel libro riesce a parlare anche a chi non è inglese, a chi non ha mai sentito l’odore di Highbury, a chi è cresciuto con i gol su YouTube. Perché il cuore del libro non è l’Arsenal. È il vuoto che il calcio prova a colmare. E quel vuoto – sotto forme diverse – lo conosciamo tutti.

Essere nati nel decennio sbagliato

C’è una frase che Hornby scrive a un certo punto, quasi di sfuggita, ma che da sola basterebbe a spiegare tutto il senso del libro: “Penso spesso che il mio amore per il calcio derivi dal fatto di essere nato nel decennio sbagliato”. Come a dire: se fossi nato dieci anni prima, avrei visto le grandi vittorie. Dieci anni dopo, avrei avuto altri strumenti per definirmi. Ma sono nato lì, in mezzo, nel vuoto.

Ecco, Febbre a 90° è il racconto di chi cresce mentre intorno tutto sembra franare. L’Inghilterra degli anni Settanta e Ottanta è una macchina che si sta rompendo: le fabbriche chiudono, le miniere si svuotano, le città si spengono. La working class perde centralità, perde potere, perde voce.
In questo scenario, il calcio non è spettacolo. È rifugio. È ancora uno dei pochi posti in cui la classe operaia può vedere se stessa, contare, esistere.

Ma anche quel rifugio sta cambiando. Gli stadi diventano pericolosi. Le partite si giocano tra recinzioni, manganelli, tensioni razziali. L’hooliganismo non è una deviazione. È una conseguenza. Una risposta violenta alla violenza dell’abbandono.

Hornby non è un sociologo. Ma è uno scrittore che ha lo stomaco per ascoltare. E quello che ascolta, in quegli anni, è il rumore sordo di una generazione che non sa più chi è. Ragazzi che crescono senza padri, senza promesse, senza futuro. Ragazzi che trovano nel calcio l’unico filo possibile per legare insieme i pezzi della propria biografia.

Il suo libro è pieno di piccoli segnali di questa crisi. Il modo in cui parla della scuola, del sesso, del lavoro. Tutto sembra secondario rispetto alla prossima partita. Non perché il calcio sia più importante. Ma perché è l’unico posto dove le regole sono chiare. Dove si vince o si perde, punto.
Fuori da lì, tutto è più confuso. L’amore, la carriera, l’identità. Il calcio diventa una grammatica semplificata per sopravvivere alla complessità del mondo.

E qui, inevitabilmente, arriviamo a noi. All’Italia. Alla generazione che ha letto Febbre a 90° negli anni Duemila, e che si è riconosciuta anche se non aveva mai visto una partita dell’Arsenal.
Anche noi siamo nati nel decennio sbagliato. Quello in cui il calcio italiano stava passando dal dominio europeo al sospetto, all’autodistruzione e poi, inesorabilmente, alla nostalgia. Siamo cresciuti con le cassette dei Mondiali, con la retorica di Italia ’90, con la convinzione che tutto fosse già successo prima.

Febbre a 90° ci ha parlato proprio per questo. Perché è un libro su chi arriva in ritardo. Su chi eredita i sogni degli altri, ma senza più la forza per crederci davvero. Su chi si attacca al calcio non per gloria, ma per bisogno. Perché non ha altro.

Cosa resta della febbre

Nel calcio di oggi tutto è più grande, più veloce ma purtroppo anche più ovvio. Ci sono più telecamere, più commentatori, più dati, più dirette. Le partite si giocano su dieci fusi orari diversi, i campionati si accavallano, il mercato non si ferma mai. Tutto è connesso, monitorato, ottimizzato. Eppure, in mezzo a questo rumore bianco, Febbre a 90° continua a risuonare. Forse perché è scritto in un’altra lingua. O forse perché, paradossalmente, è il libro che meglio descrive il nostro smarrimento contemporaneo.

C’è qualcosa di profondamente attuale, nel modo in cui Hornby racconta il calcio come un sistema di compensazione emotiva. Oggi che tutto è spettacolo, che ogni passaggio viene scomposto in numeri, che ogni narrazione è filtrata da un algoritmo, la vecchia febbre del tifoso appare quasi romantica. Ma quella febbre non è mai stata semplice nostalgia. Era un modo per dire: io ci sono.
Una forma di resistenza contro la dispersione, contro l’indifferenza del mondo.

Il calcio moderno ha perso molti dei punti di contatto che Hornby usava come coordinate. Le partite si guardano da soli, in streaming, con il commento personalizzato. Le squadre sono multinazionali, i giocatori brand globali. Gli stadi sono teatri, i derby eventi internazionali. Eppure, il bisogno di sentirsi parte di qualcosa – anche solo per novanta minuti – non è mai stato così urgente. È questo che Febbre a 90° ci ricorda, ogni volta che lo rileggiamo: che dietro il gesto di tifare c’è una fame più grande. Fame di senso, di identità, di comunità.

Cosa direbbe oggi Hornby del VAR, delle superleghe, delle seconde maglie viola con pattern optical? Forse scrollerebbe le spalle. Forse scriverebbe un capitolo amarissimo, pieno di sarcasmo. Ma più probabilmente, lo racconterebbe per quello che è: un altro capitolo del libro. Un altro stadio da attraversare. Perché quello che Febbre a 90° ha davvero insegnato è che il calcio cambia. Ma il modo in cui noi ci leghiamo al calcio resta.

BIO: Vincenzo Corrado, classe ’87, è un giornalista professionista. Nato al mare e cresciuto tra la nebbia. Ha lavorato per 15 anni per il Gruppo Gedi (ex Espresso-Repubblica) occupandosi di sport e cronaca. Specializzato in storytelling, collabora con diverse testate nazionali. Da novembre 2023 è direttore della rivista sportiva Puntero. Ha pubblicato quattro libri (due belli, due così così).

Una risposta

  1. Libro, film e articolo di un altro livello. Una gioia leggere e ripercorrere fotogrammi ben impressi nella memoria. Quella memoria.

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