NAZIONALI MULTIETNICHE: IN EUROPA È LA NORMA, IN ITALIA È UN PROBLEMA

L’Italia del calcio è un Paese con una memoria cortissima e, in troppi casi, privo di cultura sportiva. E se c’è una cosa che nel tempo abbiamo imparato, è che il pallone non perdona chi non conosce la propria storia.

Le contestazioni nei confronti degli oriundi potrebbero anche avere una parziale legittimità. Il problema sono le modalità di espressione del dissenso. Quelli che “ma non sono davvero italiani”, quelli che vengono presi di mira perché “non cantano l’inno” o perché il cognome non suona come Bianchi, Rossi, Galli, Ferrari o Esposito. Eppure, se oggi aprissimo l’album delle nostre imprese più grandi, ci accorgeremmo che le pagine sono piene di volti e nomi che raccontano di un’Italia più grande della sua geografia, più vasta dei suoi confini.

Quando nel 1934 e nel 1938 l’Italia di Pozzo conquistava i primi due Mondiali della sua storia, a guidare l’assalto c’erano Luis Monti, Raimundo Orsi, Enrique Guaita e Anfilogino “Filò” Guarisi, argentini e brasiliani d’origine, azzurri per scelta. Poi, tanti anni dopo, l’ultimo Mondiale vinto, quello del 2006, aveva tra i suoi protagonisti un italo-argentino con i capelli lunghi e la garra nel sangue: Mauro Camoranesi. Più di recente, nel trionfo dell’Europeo 2021, è toccato a un altro brasiliano, Emerson Palmieri, essere parte della storia. Non era partito titolare, ma l’infortunio di Spinazzola gli ha spianato la strada verso l’undici di Mancini e ha ripagato il tecnico per la scelta.

E oggi l’oriundo del momento si chiama Mateo Retegui. Con la maglia azzurra ha segnato già diversi gol, ma resta nel mirino di chi non accetta che un argentino possa difendere i colori italiani. Diverse nazionali hanno naturalizzato i propri calciatori. Basti pensare che tre dei quattro centrali principali spagnoli non hanno alcuna origine iberica: francesi Laporte e Le Normand, olandese Hujsen. Si elogia la qualità della Roja, sublimata dall’Europeo vinto: pochi tengono presente tuttavia che, senza i due francesi naturalizzati, i valori difensivi sarebbero stati ben lontani da quelli attualmente espressi. Coerenza, questa sconosciuta! Tutt’al più si potrebbe dibattere circa la qualità di alcuni oriundi. D’altronde negli ultimi anni hanno vestito la maglia azzurra calciatori di origine sudamericana decisamente inferiore rispetto a quelli nati e cresciuti nel Belpaese.

Tuttavia, se per un Retegui si storce il naso, per un Gnonto si alzano i forconi. Se un Emerson Palmieri è un caso da bar sport, un Destiny Udogie diventa bersaglio di insulti nei commenti social. Moise Kean, Michael Kayode, Giovanni Ndour… ragazzi nati e cresciuti in Italia, educati calcisticamente nelle nostre scuole, più italiani di una pizza margherita in una domenica di Serie A, ma che per una fetta di popolazione restano “diversi”.

E qui non si parla di conservatorismo calcistico, di romanticismo per la maglia. No, qui si parla di razzismo, puro e semplice.

Basta guardare oltre le Alpi per capire quanto sia anacronistico il dibattito che si vive in Italia. Francia, Inghilterra e Germania hanno da anni squadre nazionali costruite su talenti nati altrove o con origini africane. In Francia, il Mondiale 2018 è stato vinto con una squadra in cui oltre la metà dei giocatori aveva radici africane: Mbappé, Kanté, Pogba, Varane, Umtiti, Dembélé, Mendy, Coman… e potremmo continuare. In Inghilterra, nessuno mette in discussione calciatori come Bukayo Saka, Marcus Rashford, Jude Bellingham, figli di immigrati ma perfettamente integrati nel tessuto sportivo e sociale del Paese. In Germania, lo stesso discorso vale per Leroy Sané, Antonio Rüdiger, Serge Gnabry, Jamal Musiala, tutti cresciuti calcisticamente in Germania senza che nessuno osasse discutere la loro “tedeschità”.

Certo, anche in questi Paesi esistono episodi di razzismo, ma la differenza è che restano fenomeni isolati, frutto della stupidità di pochi individui. In Italia, invece, il razzismo verso gli italiani di seconda generazione è sistemico, diffuso, accettato quasi come se fosse normale. I social, privi di regolamentazione e pieni di utenti che si sentono al sicuro dietro una tastiera, non fanno altro che alimentare questo odio, amplificando pregiudizi e discriminazioni. Se un Udogie, un Kean, un Gnonto o un Kayode sbagliano una partita, la critica diventa subito personale, razziale, velenosa. Non si giudica il loro rendimento, si mette in dubbio il loro diritto a vestire la maglia azzurra.

Ecco la differenza tra l’Italia e le grandi nazioni calcistiche d’Europa. Da noi, il problema non è il talento, ma la cultura. Un Paese che rifiuta il cambiamento è destinato a rimanere indietro, dentro e fuori dal campo. E forse, i fallimenti della Nazionale negli ultimi anni non sono solo un caso.

E il paradosso più grande è che questa deriva culturale non arriva dagli ultra-nostalgici, quelli che rimpiangono il calcio di una volta. No. Arriva da una generazione che vive sui social, che si riempie la bocca di modernità ma ragiona come negli anni ’30. Da ragazzi e giovani adulti che commentano post e articoli con frasi che puzzano di naftalina e ignoranza. Come se la nazionale dovesse essere un’istantanea scolorita di un’Italia che non esiste più, come se l’azzurro fosse un club privato con ingresso riservato solo a chi ha cognomi italiani nel pedigree.

Eppure, il calcio è il riflesso di un Paese. E se l’Italia, oggi, è anche quella di un ragazzo nato da genitori africani ma cresciuto con il mito di Del Piero, Totti e Baggio, di Maldini, Baresi, Cannavaro o Pirlo, se è quella di un bomber con il sangue argentino ma il cuore tricolore, allora è il calcio che deve aprire la strada, non chiuderla. Perché l’azzurro non è un colore per pochi eletti (nonostante nell’ultracentenaria storia della nostra nazionale, quasi 1000 calciatori abbiano indossato la maglia azzurra). È di chi lo merita. Sul campo e fuori. E chi non lo capisce… beh, è meglio che si guardi allo specchio. Perché il problema non sono gli oriundi, non sono gli italiani di seconda generazione. Il problema sono solo ed esclusivamente essi stessi.

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

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