Nei primi anni duemila, uscì al cinema un film di Antonietta De Lillo, tratto dal romanzo storico omonimo di Enzo Striano. Aveva un titolo molto evocativo: “Il resto di niente”.
Nei momenti buoni, il tifoso – in generale, ogni tifoso, qualunque squadra sostenga ché tutto ci differenzia, tranne la passione – scopre la sottile arte del panegirico: è il corollario di una gioia che esplode di fronte al gol, al risultato positivo o alla serie di risultati utili. Ogni elemento si amplifica fino a diventare una prodezza, una magia, un gesto atletico mai visto prima (anche se lo abbiamo visto identico decine di volte). I giocatori sono tutti top player e l’allenatore diventa un epigono di Leonardo da Vinci: il rettangolo di gioco al posto del quadrato e poi le proporzioni perfette del campione vitruviano entro il cerchio stellato dello stadio del cuore.
Nei periodi di crisi, invece, è più complicato, molto più complicato, perché occorre capire da che parte si vuole stare, se da quella celeberrima di Gino Bartali col suo “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare” o piuttosto da quella dell’intellettuale Daumier nel pre-finale di “8½”, di Federico Fellini: “distruggere è meglio che creare, quando non si creano le poche cose necessarie”. L’”intellettuale” Yoda non la pensava in modo troppo diverso: “fare o non fare, non c’è provare!” O, ancora, stare dalla parte di Amleto: “essere (squadra) o non essere, è questo il dilemma”.
Se è calzante, e lo è eccome, la definizione di Harold Bloom secondo cui Shakespeare ha “inventato l’uomo”, tanta è l’abilità che ha avuto nel descriverne impulsi, anche sordidi, e moti d’animo, è necessario fare uno sforzo per scoprirsi tifosi nuovi e rispondere alla domanda: qual è il “resto di niente” che vogliamo?
La demolizione è facile, segue un approccio nichilista – il resto di niente è ancora niente, serve un reset completo e serve ora – la costruzione implica un grosso sforzo, ma potrebbe farci giungere alla conclusione opposta: il resto di niente è… tutto.
Non che non serva cambiare, anzi, ma bisogna farlo dopo essersi posti le domande giuste. E forse non lo si può pretendere, umanamente, all’indomani di una sconfitta così bruciante; una sconfitta giusta, perché, al contrario di altre situazioni recenti, il risultato collima con ciò che si è visto in campo, con i principi e i valori tecnici espressi dalle due formazioni. Secondo la definizione cara a Sacchi, Daniele De Rossi ha saputo scegliere una valida strategia (anche in inferiorità numerica), non si è limitato ad adottare una tattica furba e, se pure il fato ci mette del suo, vincente.
Ieri sera la Roma ha schierato dapprima un 1-4-4-2, con El Shaarawy ancora a destra, Lukaku a proteggere le verticalizzazioni, grazie a una supremazia fisica incontestabile, e con Dybala a fare da jolly tuttocampista (proprio l’argentino sarà il primo “sacrificato” nel riassetto). Intorno al minuto 30 del primo tempo, l’espulsione di Çelik, per intervento da dietro su Leao, ha modificato i piani tattici, ma non l’attitudine propositiva degli undici di De Rossi.
Il fallo de Celik su Leao che è costato l’elspulsione al giallorosso
A onor del vero, non sono sicura che una sanzione così severa sia stata corretta, anche se tecnicamente non ho gli strumenti per affermare il contrario. Senz’altro l’arbitro, non uno qualunque, ma colui a cui sono state affidate la finale dei Mondiali, la finale di Champions League e la finale del Mondiale per club, ha giudicato l’intenzione, con il difensore turco in netto ritardo rispetto al portoghese del Milan. Posso altresì immaginare che la scivolosità del terreno di gioco, zuppo a causa delle abbondanti piogge, abbia amplificato gli esiti di quel contrasto. Corretta, senza dubbio, la decisione di Marciniak sul reclamato fallo di mano in area di Smalling: il rigore non c’era.
Fatto sta che la Roma, con Lukaku già fuori per un probabile risentimento muscolare, si riposiziona in campo, adottando una sorta di 1-5-3-1 (o persino, a tratti, un 1-5-4-0) che talvolta spinge in avanti gli esterni in un 1-3-5-1 che funge da imbuto per gli avversari, costretti a muoversi in spazi strettissimi.
Vero è, d’altra parte, che è il movimento a creare lo spazio, ma ciò a cui abbiamo assistito è assimilabile al boccheggiare di pesci rossi, in costante ipossia. È pertanto curiosa, ma non illogica, dato che ogni lettura può avere in teoria una sua ragion d’essere, la scelta dell’inserimento, in prima battuta, di Luka Jovic che, invece di provare a far saltare le fasce, ha contribuito a creare ancora più traffico nella zona centrale della trequarti (con l’ingresso di Chukwueze, anche Pulisic si situerà in un’area, diciamo così, congestionata). Mi pare infatti che, almeno negli esiti, una mossa di questo tipo, invece di provare a trovare una superiorità numerica vantaggiosa sull’ultima linea avversaria, abbia finito per favorire, paradossalmente, il sistema di gioco dalla Roma, ovvero sia andata a intasare il collo di bottiglia che il fraseggio tra difesa e centrocampo capitolino riusciva sovente a creare.
Chukwueze entrato nel secondo tempo ha dato vivacità all’attacco rossonero
Non a caso le migliori occasioni – ma sono poche, troppo poche, per una squadra che era chiamata a ribaltare un parziale sfavorevole di misura – vengono dalle ali: Chukwueze, entrato nel secondo tempo, ci prova con una certa caparbietà, spesso sbagliando l’ampiezza dei cross, Leao ci riesce con l’assist, fortuito, magari, ma pur sempre provvidenziale, per Matteo Gabbia. È un bene che proprio lui, giocatore sempre generoso verso i compagni, abbia segnato il gol della bandiera, dopo l’errore nel rinvio che di fatto si è tramutato in un passaggio “fatale” per Paulo Dybala, in occasione della seconda rete della Roma. Troppo tardi: credo che in pochi abbiano esultato per un gol che è arrivato fuori tempo massimo, quando ormai le speranze di agguantare la semifinale si erano dissolte come i fumogeni dell’Olimpico.
Da dove ripartire dunque? È davvero troppo presto per dirlo né io ho l’autorevolezza per proporre ricette.
Mi verrebbe da rispondere, dal basso della mia passione, non dalle bandiere, vere o presunte che siano, ma dalla concretezza del lavoro; non dai nomi e dai talenti, alcuni sulla via del fisiologico tramonto, altri troppo indolenti per sbocciare e restare aperti, ma dalla voglia di fare squadra.
Ieri, come nella gara d’andata, non è mancata solo la coesione tra i vari reparti, e pure all’interno dei reparti stessi – si veda la lunga diatriba tra Maignan e Tomori – ma soprattutto la propensione a giocare la migliore partita possibile, a prescindere dal risultato, quest’ultimo condizionato, lo sappiamo bene, anche da fattori imponderabili, sebbene Cruijff sostenesse che la fortuna non esiste. Il volenteroso Musah, che fluttua senza un ruolo o una posizione precisi, è purtroppo il sintomo e non la cura.
Mi verrebbe da rispondere, tenendo dritta la barra di una riflessione pedagogica, non obnubilata dall’amarezza (che c’è ed è grande), di adattare al contesto Milan, per quello che è possibile, per quello che si renderà necessario, non una controrivoluzione calcisticamente giurassica – rinvii kilometrici, catenaccio, ecc. – piuttosto qualcosa di analogo a quello che ha fatto, dapprima in ambito ciclistico, Dave Brailsford, ossia l’uomo a cui si associa la teoria dei guadagni marginali (marginal gains).
Si tratta di piccoli, ma costanti, cambiamenti: piccoli perché non siano rigettati da chi li “subisce”, costanti perché il miglioramento richiede tempo, disciplina e fiducia, da parte degli atleti, nella possibilità di una evoluzione produttiva. La teoria, in buona sostanza, si basa sul miglioramento dell’1% in specifiche aree. Dalla somma di tanti, piccoli miglioramenti può scaturire un enorme miglioramento complessivo. La gloria di Brailsford, all’inizio ostracizzato come spessissimo accade agli innovatori, deriva in particolare dai risultati del ciclismo britannico alle Olimpiadi di Pechino 2008 e di Londra 2012: sedici medaglie d’oro complessive per una squadra priva di una grossa tradizione e che, in precedenza, aveva vinto poco o nulla.
Ma cosa riguardano le implementazioni proposte? Sorprendentemente, a prima vista, anche aspetti che non hanno attinenza con la pratica sportiva (ma non deve sorprendere, in realtà, se si ha a che fare con un approccio più olistico alla pedagogia). Un esempio riguarda la qualità del sonno: Brailsford fece adattare alla struttura di ogni ciclista sia il materasso che il cuscino. Non importava dove la squadra – nel 2010, nasce Team Sky – si trovasse, cuscino e materasso in dotazione dovevano essere sostituiti con quelli personalizzati.
La teoria dei guadagni marginali ha attirato anche molte voci critiche. Per alcuni si tratta di ovvietà (ma se lo sono, perché nessuno lo aveva mai fatto prima?), per altri risultati così eclatanti sono sospetti e i marginal gains servono per sviare l’attenzione da pratiche addirittura illecite, insomma, dal doping. La storia, forse, chiarirà il loro reale valore, anche in relazione a ciò che avverrà, di qui a qualche anno, nel martoriato, dopo la fine del regno di Sir Alex Feguson, Manchester United, il quale al momento si avvale della collaborazione proprio di Brailsford.
Pensando al pragmatismo di Gian Piero Gasperini che, ispirato dal Dramma Scozzese, ha fatto quello che andava fatto e lo ha fatto presto, espugnando nientemeno che il tempio laico di Anfield, mi sarebbe piaciuto concludere questo articolo con le prime battute del soliloquio di ingresso di Riccardo III nella tragedia che porta il suo nome: “Ora l’inverno del nostro scontento s’è mutato in luminosa estate…”
Purtroppo mi tocca citare un’altra battuta, dello stesso Riccardo, ma tratta dall’”Enrico VI”: “I am myself alone”.
Ed è subito derby.
Di seguito le formazioni e le sostituzioni:
ROMA (1-4-4-2): Svilar; Celik, Smalling, Mancini, Spinazzola; El Shaarawy, Bove, Paredes, Pellegrini; Dybala, Lukaku. All. De Rossi.
MILAN (1-4-2-3-1): Maignan; Calabria, Gabbia, Tomori, Theo Hernandez; Bennacer, Musah; Pulisic, Loftus-Cheek, Leao; Giroud.
SOSTITUZIONI
Nella Roma, esce Romelu Lukaku per Tammy Abraham (28’), esce Paulo Dybala per Diego Llorente (43’), esce Edoardo Bove per Renato Sanches (82’), esce Lorenzo Pellegrini per José Tasende.
Nel Milan, esce Ismaël Bennacer per Luka Jovic (40’), esce Davide Calabria per Tijjani Reijnders (46’), esce Ruben Loftus-Cheek per Samuel Chukwueze (46’), esce Christian Pulisic per Noah Okafor (69’), esce Yunus Musah per Alessandro Florenzi (69’).
BIO Ilaria Mainardi: Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita.
Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema.
Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.
Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!
Sono titolare della pagina Instagram: @ilarie.ed.eventuali
Una risposta
Perfetta analisi! Brava!!
Quei “marginale gains” che, qualcuno,aveva capito quanto fossero necessari dopo la vittoria dello scudetto.
Salvo poi venire defenestrato.
Spiace,al momento, soprattutto il salto indietro “mentale” della squadra (visto nelle ultime prestazioni)…eravamo arrivati ad un discreto livello, ma c’era (e c’è) ancora tanto lavoro da fare! Peccato, perché aldilà delle sconfitte più o meno brucianti ma che fanno parte della crescita (umana o di un team), quando spariscono coesione e testa tutto si fa in salita.
E, concludo, per fare dei “marginal gains” , ci vorrebbe qualcuno che sappia cosa sono e , ancor prima, come metterli in pratica.
E questi “prof” sono merce rarissima nel calcio di oggi (un esempio potrebbe essere De Rossi, visto quello che è riuscito a portare alla Roma dopo “il vate” Pianginho)…