“The Long And Winding Road” potrebbe essere l’incipit ideale per quest’ultima parte di stagione del Milan, che ancora non è finita: all’esclusione nei quarti di Europa League – ma la Roma era tutt’altro che una corazzata imbattibile e il Bologna ce lo ha fatto capire – si è aggiunto lo smacco – prevedibile, quasi atteso, ma mai fino in fondo, per un appassionato – del derby, con tanto di consegna matematica dello scudetto all’Inter, proprio a casa nostra, davanti ai nostri tifosi, in una serata che, meteorologicamente, non era poi così distante dal titolo del famoso pezzo dei Beatles.
Per non parlare del nostro stato interiore, virato al grigio antracite intorno al diciottesimo minuto, con la rete di Acerbi, e di quel colore rimasto fino alla fine, quando neppure il gol di Tomori aveva più il potere di rischiararlo un po’. Ci avrebbe comunque pensato, al minuto novantasei, il corner fiacco, battuto da Bennacer, indice di un’energia e di una voglia di rivalsa inadatte all’occasione, a farci tornare all’istante back to black.
E poi quelle zuffe finali, brutte da vedere, se allo sport si concede un minimo valore educativo, e davvero evitabili, prima con Theo coinvolto, in seguito con Calabria: contro la Juventus abbiamo giocato senza i nostri terzini titolari. È mancato anche il difensore centrale inglese, ammonito nel derby, al novantaduesimo, per un fallo su Lautaro, e già diffidato. L’umore era pessimo, anche il nostro, e quando l’umore è pessimo, è facile che il self-control vada a farsi benedire. Tuttavia, se si gioca a certi livelli, serve anche un alto grado di consapevolezza. Nel ciclo di Spiderman è diventato una specie di refrain, anche se l’origine del concetto è molto più antica e si riferisce, così pare, a Damocle: “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”.
Ecco, pensando al futuro del Milan, comunque esso ci si prospetti, mi piacerebbe che responsabilità diventasse una parola chiave, qualcosa da cui non si può prescindere, al di là di risultati e titoli. È mia opinione infatti che proprio dalla responsabilità personale il collettivo tragga linfa per non accartocciarsi su sé stesso alla prima difficoltà e ai primi malumori (anche dagli spalti: ci sta, fa parte del gioco, se non si trascende).
Così si arriva alla sfida contro la Juventus. E si badi: qui non si cercano alibi, ma si prova almeno a tenere conto degli elementi che di solito incidono, in un modo o nell’altro, sulla prestazione complessiva di un team.
All’Allianz Stadium, il Milan, falcidiato dalle assenze in difesa, si presenta anche senza Luka Jovic, fermato da un risentimento muscolare alla vigilia del match. A sorpresa, Mike Maignan, per un fastidio all’adduttore durante il riscaldamento pre-partita, è costretto a cedere la porta a Marco Sportiello, protagonista di un ottimo salvataggio su insidiosa punizione di Vlahovic allo scadere dei quarantacinque minuti e di un doppio intervento provvidenziale su Kostić e Danilo.
Allegri non osa dall’inizio con il tridente e si presenta con lo standard 1-3-5-2, con Yıldız preferito a Federico Chiesa per la sua capacità di giocare più centralmente, a ridosso del centravanti serbo.
La squadra di Stefano Pioli, reduce da alcune performance abbastanza fiacche oppure denotate, come quella contro il Sassuolo, da numerose imprecisioni in fase difensiva, opta per la marcatura a uomo di Yıldız e Vlahovic, rispettivamente con i due centrali disponibili, Gabbia e Thiaw, quest’ultimo probabilmente alla sua migliore prestazione stagionale: una sola sbavatura e un salvataggio sulla linea che vale un gol. Il primo tempo ci mostra un dinamismo interessante, sia centralmente che sulla fascia destra, dove Loftus-Cheek, in partenza arretrato, rispetto alle ultime partite, e Pulisic creano intersezioni e favoriscono il movimento verticale di Reijnders, in una posizione più avanzata e a lui più congeniale, benché nello schema di Pioli non si possa parlare di vero e proprio trequartista.
Qualche problema in più sulla fascia sinistra per la scarsa propensione di Rafa Leao a partecipare alla fase di copertura: gli scambi tra Weah, Cambiaso e Gatti hanno impensierito a più riprese la nostra difesa. In generale l’ala portoghese, per tutto il primo tempo, si è dimostrato abbastanza opaco, anche in fase di costruzione, sebbene abbia costretto gli avversari a triplicarlo a ogni possibile imbucata.
Titi Henry, di recente, ha parlato del ruolo degli attaccanti, sostenendo che sono importanti gol e assist, ma anche gli spazi che riescono a creare, cioè il numero di avversari che riescono ad attirare con le loro azioni. Rafa è senz’altro un giocatore che desta un senso di pericolo nelle difese opponenti, ma non può limitarsi ai passaggi indietro. Ogni giocatore ha il proprio ruolo d’elezione e le proprie caratteristiche, e ci mancherebbe, ma per capire cosa intendo, almeno in teoria, si può guardare l’azione di Ollie Watkins, attaccante per natura velocissimo, che ha generato l’assist per il raddoppio dell’Aston Villa contro l’ottimo Bournemouth di Iraola. Watkins sfrutta la velocità, certo, ma è anche un giocatore che non ha paura di scendere sotto la linea di centrocampo e, una volta ottenuto il possesso, di fungere da attrattore gravitazionale per il movimento delle maree, dal punto di vista della densità avversaria: attrarre su di sé, liberare gli altri e poi smarcarsi e proseguire l’azione. Non attendere e sprintare, ma provare a costruire e poi sprintare.
Nel secondo tempo, cambia Leao, un po’ più mobile e propositivo, e cambiano, in verità, diversi assetti. Con l’ingresso di Bennacer, al posto di Adli, Loftus-Cheek si spinge in avanti, cercando di far valere il fisico nell’ultimo quarto. Chiesa, al posto di Kostic e Milik, in sostituzione di un contrariato Vlahovic, danno rapidità e ampiezza all’attacco della Juventus, tanto da obbligare Pioli a spostare Florenzi, più esperto rispetto a Yunus Musah, in copertura sullo stesso Chiesa, sovente assai insidioso coi suoi scatti sulla fascia (le migliori occasioni della Juventus sono arrivate da lì), e a inserire a rinforzo i due giovanissimi, Zeroli e Bartesaghi, anche per mancanza di alternative.
Entrano – un po’ tardi, forse – anche Okafor, per un evanescente Giroud, e Chukuwueze, ma le occasioni offensive per noi rimangono poche. Il pareggio a reti inviolate, con una discreta energia complessiva che in alcuni momenti ha minimizzato una certa, e non inedita, disorganizzazione, è un risultato del quale, soprattutto alla luce dell’ultimo scorcio di partita, non ci possiamo lamentare.
“The Long and Winding Road” è l’ultimo singolo dei Fab Four e la sua storia riflette i malumori interni al gruppo, ormai in procinto di sciogliersi (anzi, la data di pubblicazione, l’11 maggio del 1970, è di poco successiva all’annuncio dello scioglimento).
Basti sapere, per non stare a fare un’esegesi inutile, in questo contesto, che, nell’idea iniziale, il brano composto da Paul McCartney sarebbe dovuto essere accompagnato da un’orchestrazione minimalista, totalmente opposta al muro di suono dell’arrangiamento di Phil Spector, noto proprio per i barocchismi dello stile: una trentina d’archi, trombe, tromboni e un coro femminile di quattordici elementi.
Eppure, ad ascoltare questo arrangiamento orchestrale sbagliato, ci si accorge che non tutto è da buttare, anzi. La voce di Paul che si arrampica sul suono, non riuscendo a prevalere, sembra aderire al tono melanconico, disperato del testo, con quel “yeah” finale, ripetuto quattro volte, che non può (più) avere il sapore di una resa: “Many times I’ve been alone, and many times I’ve cried./Anyway you’ll never know the many ways I’ve tried,/And still they lead me back, to the long winding road.”
Il Milan, come il contrariato McCartney, deve fare tesoro di ciò che di sbagliato c’è stato in questa stagione – e forse, se non ci si lascia andare ai massimalismi, si può intravedere che non tutto lo è stato, proprio no – e trovare il modo di continuare a provare, anche se pioverà, se ci sarà il vento, anche se capiterà di piangere, metaforicamente parlando; perché, lo sappiamo bene, i risultati sono il frutto di un percorso, anche valoriale, non di mera improvvisazione, e il nostro è adesso tutto da inventare.
Voglio dire, è bello leggere il calcio come una jam session jazzistica, ma solo se si ha la percezione di quanto lavoro ci sia dietro quegli strumenti che sembrano accordarsi da soli. Come riprendere a camminare, senza inciampare? Be’, sicuramente servono una rosa e una guida tecnica di livello (non capisco cosa ci sia di scandaloso nelle parole di Adli, a questo proposito). In termini più aulici, nel modo che Beppo Spazzino suggeriva a Momo nel romanzo omonimo di Michael Ende: “Non si può mai pensare alla strada tutta in una volta, tutta intera, capisci? Si deve soltanto pensare al prossimo passo, al prossimo respiro, al prossimo colpo di scopa. Sempre soltanto al gesto che viene dopo.”
Sappiamo poi che, se all’epoca ci fossero stati i social network e, con loro, un certo modo di fare comunicazione calcistica, anche per Arrigo Sacchi, dopo la sconfitta contro l’Espanyol di Javier Clemente, nei sedicesimi di coppa UEFA, sarebbero arrivati, immancabili, i #sacchiout. Non c’erano, per nostra fortuna e per quella della gloria imperitura che è arrivata dopo, ma comunque si vociferava che l’ex allenatore del Parma, già visto come un parvenu condannato al fallimento, non avrebbe “mangiato il panettone” a Milano.
Il Liverpool non è l’unica squadra a usare “You’ve Never Walk Alone” come proprio inno, ma sentirlo cantare ad Anfield fa un effetto particolare, unico, con buona pace di Borussia e co. Lo stesso Cruijff, non proprio uno incline alle smancerie, ne rimase colpito fin quasi alle lacrime.
E quindi, caro Milan, facciamo come cantano loro: “When you walk through a storm/ Hold your head up high/ And don’t be afraid of the dark.” Non bisogna avere paura del buio. Alla fine della tempesta, anche per noi, ci sarà il canto argentato di un’allodola.
FORMAZIONI:
Milan (1-4-2-3-1): Sportiello – Musah, Gabbia, Thiaw, Florenzi – Adli, Reijnders – Pulisic, Loftus-Cheek, Leao – Giroud.
Juventus (1-3-5-2): Szczęsny – Gatti, Bremer, Danilo – Weah, Cambiaso, Locatelli, Rabiot, Kostić – Vlahovic, Yıldız.
SOSTITUZIONI:
Milan: (62’) ESCE Yacine Adli ENTRA Ismaël Bennacer; (71’) ESCE Olivier Giroud Noah Okafor; (82’) ESCE Ruben Loftus-Cheek ENTRA Kevin Zeroli ESCE Yunus Musah ENTRA Davide Bartesaghi; (83’) ESCE Christian Pulisic ENTRA Samuel Chukuwueze.
Juventus: (62’) ESCE Dusan Vlahovic ENTRA Arkadiusz Milik; (63’) ESCE Filip Kostić ENTRA Federico Chiesa; (71’) ESCE Timothy Weah ENTRA Weston McKennie; (82’) ESCE Kenan Yıldız ENTRA Fabio Miretti.
BIO Ilaria Mainardi: Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita.
Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema.
Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.
Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!
Sono titolare della pagina Instagram @ilarie.ed.eventuali