PHIL FODEN: LA STELLA DI MANCHESTER

Per aspera ad astra (la via della virtù e della gloria è irta di difficoltà), dicevano i latini. E sulle spalle, uno dei migliori giocatori al mondo – e probabilmente, insieme a Antoine Griezmann, il mio preferito, per tecnica, visione e uso dello spazio, eleganza – ha il numero 17: nei tarocchi è la carta delle Stelle.

Si tratta di un caso, naturalmente, dato che il medesimo De Bruyne racconta che quando è arrivato al Manchester City – lui, unico superstite della gestione di Manuel Pellegrini – erano rimaste disponibili solo la maglia numero 9 e, appunto, la 17. Non essendo un centravanti, tradizionale depositario del primo numero, la scelta del secondo gli parve ovvia, l’unica possibile. Lui, che è introverso e razionale, non poteva che scegliere bene, lasciandosi guidare dal buonsenso e non dal mero istinto.

Ma alle stelle, che Jodorowsky ne convenga o meno, secondo il significato proprio dell’arcano maggiore, Kevin c’è arrivato, di nuovo, a seguito di un brutto infortunio che lo ha tenuto fermo per circa cinque mesi. Ce lo ricordiamo tutti uscire dal campo quasi in lacrime, per la seconda volta, durante una finale di Champions League. In entrambi i casi le lacrime sono sgorgate anche dopo il fischio finale dell’arbitro, ma a Istanbul erano lacrime dal diverso sapore. Uno come lui avrebbe meritato di giocarsele fino all’ultimo istante, quelle due finali, la prima persa, contro il Chelsea di Tuchel, e la seconda vinta, ma il corpo aveva scelto in modo diverso e ci sono segnali che non puoi proprio ignorare. Del resto stava resistendo al dolore dalla partita dei quarti di finale contro il Bayern Monaco. Lo aveva fatto, stoicamente, anche quando, con una magia, aveva annichilito i tifosi madrileni e l’amico-nemico (questioni private vecchissime, ormai sorpassate), Courtois, nel tempio laico del Santiago Bernabeu.

Al posto di De Bruyne, nella finale contro l’Inter, era entrato il giovane Phil Foden che, quel 10 di giugno, aveva compiuto ventitré anni da una manciata di giorni. Prima del match aveva impressionato Alessandro Del Piero, presente a bordo campo come inviato per un’emittente televisiva, grazie all’abilità, davvero pregevole, negli stop su lanci lunghi.

Al contrario di quello del centrocampista belga, il numero di maglia di Phil Foden, che è fin dal suo debutto il 47, ha un significato biografico e struggente. L’amato nonno di Phil, Ronnie, grandissimo tifoso del Manchester City, è scomparso infatti ad appena quarantasette anni. Ronnie è anche il nome del figlio maggiore di Foden, un bimbo simpaticissimo che i tifosi del City, e per estensione il web tutto, hanno soprannominato “El Wey”. La locuzione deriva dal gergo messicano – güey – ed è un termine comunemente utilizzato per riferirsi a qualcuno di cui ancora non si conosce il nome. Insomma, sta per qualcosa di simile a “il ragazzino”.

Sergio Aguero, prima di lasciare la squadra mancuniana, ha chiesto al giovane talento se volesse indossare la maglia numero 10, ma Foden ha cortesemente declinato l’offerta, dicendo di preferire la creazione di una propria eredità, legata al 47: «The ten shirt is such a big number in the club, but I just have a thing with 47. I’d like to create my own legacy and keep that number.»

Un legame, quello di Phil con il suo club, che è dunque emotivo, umano, prima ancora che sportivo, nonostante le offerte non siano mancate. Pep Guardiola, del resto, quando ancora Phil Foden giocava nell’Academy del City, lo aveva individuato, insieme a Jadon Sancho e a Brahim Diaz, come uno dei profili da tenere d’occhio. L’allenatore fu addirittura perentorio: Foden non se ne va neppure per cinquecento milioni!

Il giocatore ha ricambiato la stima, scegliendo di restare, anche quando la panchina sembrava l’unico luogo da cui poter vedere la partita. Lo ha fatto – ed è una scelta personale, rispettabile al pari di quella di Cole Palmer che è andato via alla prima offerta buona – perché ha creduto, da subito, in quella cosa che sovente i tifosi dimenticano, smaniosi di vincere subito, di vincere tutto: il processo, ovvero la creazione, lenta e non priva di inciampi, della struttura della squadra; è un’intelaiatura necessaria che privilegia l’ensemble – un gruppo che deve suonare al giusto ritmo – rispetto al talento, pur prodigioso, del solista.

Ha dichiarato Foden, di recente, alla BBC: «I never had intentions of leaving ManCity, I believed in what the manager was saying and I believed in the process… When I wasn’t playing, I knew there were better players in front of me. I knew the more I grew up and the longer time went, there would be opportunities for me. I’m just happy that I took my opportunity.»

Sono le parole di un ragazzo che è maturato moltissimo sul campo, ma che dimostra grande stabilità mentale anche al di fuori di esso. Ci sono voluti anni di lavoro, anni di sacrifici, anni di errori, come quello che negò alla sua squadra il raddoppio proprio contro l’Inter di Simone Inzaghi, dopo un’azione poco meno che perfetta.

Fretta di concludere la giocata? Guardiola, che non ha mai lesinato complimenti al suo gioiello, definito più volte come uno tra i più fulgidi talenti che abbia mai allenato, lo ha fatto presente anche in occasione della recente vittoria in Premier League contro il Brighton, sostenendo che deve stare attento a non mettere la sesta marcia in ogni singola azione poiché altrimenti c’è il rischio di perdere il focus e di non saper comprendere quando è il caso di aggredire e quando di rallentare/controllare.

C’è stata e c’è ancora a spingerlo, almeno in parte, una volontà di assurgere a una sorta di anti-Übermensch (superuomo), o si dovrebbe dire magari di anti-Überfußballer; non è quindi mosso dalla smania di primeggiare (e si nota), ma in modo proprio dalla volontà di opporsi, per il bene del gruppo, all’ineluttabilità dell’amor fati (amore per il destino), in accezione nietzschiana.

Phil Foden non va troppo veloce per esibizionismo atletico – sebbene gioioso – piuttosto per anticipare qualunque possibile scherzo del destino, ovvero quella formula che, secondo il filosofo di Zarathustra, impone di “non volere nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta l’eternità”.

Perché lui, personificazione dell’eroe filmico, Jimmy Grimble, qualcosa la vuole con la forza dell’amore che nasce da bambini – venne “notato” quando aveva poco più di cinque anni – e perdura per sempre: vuole il meglio per il Manchester City. C’è un delizioso scambio di battute, nel film di John Hay, purtroppo pressoché introvabile, in Italia. A un certo punto un selezionatore dello United chiede a Jimmy se gli farebbe piacere unirsi alla sua squadra. Lui, senza pensarci due volte, risponde di aver ricevuto un’offerta migliore. Notando un po’ di perplessità nell’interlocutore, precisa: ho un’offerta da parte del Man City. Be’, insomma, davvero potrebbe essere una risposta data da Phil!

Lo chiamano (o, per meglio dire, chiamavano, giacché l’esplosione del talento è coincisa con la necessaria ammissione di unicità, non più bisognosa di stampelle illustri di paragone) l’Iniesta di Stockport perché originario della periferia industriale di Manchester, in una zona, a una decina di kilometri a sud-est della main city, nota per la lavorazione della seta e per la fabbricazione dei capelli di feltro. Mancino, d’elezione, spesso utilizzato sull’ala, in modo da consentirgli maggiore libertà di seguire il “flusso”, appare chiaro, primi fra tutti a Kevin De Bruyne e, ovviamente, allo stesso Guardiola, che la forza che muove l’evoluzione calcistica di Phil Foden ha natura centripeta. Ammise il manager catalano, a proposito di ruoli e posizioni: «Yeah, absolutely, I agree with Kevin […] Phil can play in five positions. I would say he can even play as a left-back. He played a few minutes there at home and he played really well. To play in the middle he might have to play a little more attention and in some aspects he still has to grow. He still has room for his natural, unbelievable instinct to play football.»

Pep parla (l’intervista citata è del 2022) di duttilità estrema e di istinto, ma anche di attenzione e di necessità di progredire, come calciatore; parla di maturazione, insomma. Si tratta di un giochino senza fini probatori, ma ci si può divertire a trovare una sorta di punto di fumo, l’istante dell’evaporazione, quello, cioè, in cui si può, sempre per gioco, collocare lo spartiacque tra un Phil Foden e un altro, tra la degradazione ossidativa del giocatore straordinario, ma talvolta inaffidabile, e il consolidamento del pilastro vero e proprio (il che non preclude la possibilità di errore, ma colloca quest’ultimo su un piano pedagogicamente diverso).

A mio avviso, il momentum, nel senso di impulso, di svolta rapida, è collocabile nei pressi della partita d’andata di questa stagione contro il Crystal Palace, allenato ancora da Roy Hogdson. In apparenza è una partita come le altre, con meno hype di altre, a dire il vero. Solo che intorno al novantatreesimo minuto, coi padroni di casa del City in vantaggio di due gol a uno, succede qualcosa. Bernardo Silva perde palla vicino alla propria area di rigore, Mateta sfrutta l’occasione e si precipita verso la porta. Phil Foden, sotto lo sguardo attonito di Kyle Walker, alza la gamba all’altezza dello stinco dell’avversario e ne interrompe bruscamente la corsa: calcio di rigore e un pareggio che, anche in una fase precoce della corsa al titolo (alla fine sappiamo come è andata: four in a row!), rischia di mettere il Manchester City in una posizione scomoda rispetto agli altri principali contendenti.

Ecco, quell’errore sciocco, frutto di una decisione azzardata e precipitosa, dal mio punto di vista ha fatto da innesco a un cambiamento fondamentale. Come accade non di rado, è dall’errore che scaturisce il capolavoro.

In seguito Guardiola ebbe modo di tornare sulla questione: «It’s part of the process. At that moment he felt so bad, because he is an incredibly lovely guy. Lessons to learn, hopefully the last time to happen. It’s football, it’s human beings, sometimes it happens.»

Il processo, le lezioni da imparare, gli errori sui quali riflettere: c’è tutto, c’è il Foden che abbiamo visto nella seconda parte dell’anno.

Sosteneva Cruijff: «tecnica non vuol dire essere capaci di palleggiare mille volte. Chiunque può farlo con l’allenamento. E poi puoi lavorare al circo. Tecnica è passare la palla con un tocco, con la giusta velocità, sul piede giusto del tuo compagno.»

Sembra che descriva King Kevin De Bruyne. E ogni stagione, in modo sempre più netto, la definizione si attaglia a Phil Foden, non più giovane promessa, ma realtà di una squadra che sembra un ibrido (quasi) perfetto tra l’agone di violino e basso nella Follia del fusignanese Corelli, tanto amata da Arrigo Sacchi (non a caso, altro fusignanese doc!), e il titanismo dell’Eroica op. 55 di Ludwig van Beethoven.

BIO Ilaria Mainardi: Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita. 

Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema. 

Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.

Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!

Sono titolare della pagina IG: ilarie.ed.eventuali

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