SILENZIO, PARLA IBRA: CHE COSA ABBIAMO CAPITO ( SU DI LUI, SUL MILAN, SUI TIFOSI )

Secondo il grande psicologo americano Paul Watzlawick il primo assioma della comunicazione è che “non si può non comunicare”. In altre parole, tutto il comportamento, e non soltanto il discorso, è comunicazione e pertanto la non comunicazione non può avere luogo. Ve la faccio ancora più semplice. Se entro in una stanza dove c’è un’altra persona (che conosco) e rimango in silenzio, sto comunicando: disagio, rabbia, imbarazzo, rancore, decidete voi a seconda della faccia e del contesto, ma di certo sto comunicando.

Negli ultimi mesi il Milan non ha parlato. Quindi ha comunicato e, a mio modesto avviso, ha comunicato molto male, lasciando oltretutto che ognuno ricostruisse le ragioni dietro a questo lungo, imbarazzato e imbarazzante silenzio. Un errore che ha prodotto più di qualche danno (ci torneremo), del tutto inspiegabile per una società gestita da un fondo americano specializzato nell’entertainment, cioè nella comunicazione.

Per queste ragioni ero particolarmente curioso di assistere alla conferenza stampa di Zlatan Ibrahimovic di giovedì 13 giugno: perché interrompeva un lungo silenzio della società, perché segnava il debutto ufficiale dell’Ibra “manager”, perché tutti attendiamo notizie sulla nuova stagione.

Non parlerò, in questa sede, delle scelte tecniche, di Fonseca o di Zirkzee, ma dei concetti generali espressi e del modo in cui sono stati espressi.

CHE COSA MI È PIACIUTO

In primo luogo, Ibra ha parlato apertamente e ripetutamente di mentalità vincente. “Il quarto posto non ci interessa”, ha detto più volte. “Cardinale è un vincente, io sono un vincente: siamo sulla stessa pagìna (con un curioso accento sulla “i”, a vent’anni dalla sua prima esperienza italiana: si vede che in questi anni non ha letto molto). Questa affermazione dovrebbe essere quella che tranquillizza maggiormente i tifosi, la cui principale preoccupazione è un Milan progettato per arrivare quarto, qualificarsi alla Champions, incassare, ripetere il ciclo. A quanto pare il progetto non è questo, e del resto la proprietà sa bene che se non vinci mai dopo un po’ il brand, la franchise, si offusca e anche gli incassi diminuiscono. Chiunque è libero di pensare che siano frasi di circostanza (e in parte lo sono), ma avere messo la faccia sull’obiettivo di vincere è un impegno che non vorrà disattendere.

In secondo luogo ha insistito molto sull’idea di un gruppo che decide insieme: “C’è una squadra sopra (il club) e una squadra sotto (i calciatori): è facile”, ha detto. Della “squadra sopra” fanno parte lui, Cardinale, Furlani, Moncada e – a quanto pare – Fonseca, che a questo punto è ufficialmente il nuovo allenatore del Milan, come ormai si ipotizzava ampiamente e che, testualmente, “è un allenatore e non un manager” (altra affermazione esplicita di collegialità). La scelta di Fonseca è stata motivata con chiarezza: è l’allenatore giusto per il tipo di gioco che vogliamo fare e per i giocatori che abbiamo, Conte non è mai stato un’opzione. Questo rinnovato elogio della collegialità chiarisce retrospettivamente, caso mai ce ne fosse bisogno, anche la vicenda Maldini: comunque la si pensi, le regole sono chiare.

Ibra ha cercato inoltre di accreditarsi come un interlocutore affidabile, diretto e trasparente, certamente nei limiti che il suo ruolo gli impone (non raccontare le trattative in corso fa parte della logica riservatezza), uno che dirà “pane al pane e vino al vino” quando verrà interpellato. Anche il rifiuto di consegnare il suo numero di telefono nelle mani dei giornalisti, come richiestogli da Carlo Pellegatti, paradossalmente contribuisce a renderlo più vero – ancorché meno accessibile – dal momento che dichiara di volersi sottrarre al tradizionale scambio di confidenze in cambio di buona stampa. “Io sono forte, non ho bisogno di favori”, ha detto in perfetto stile Ibra.

Last but not least, ho apprezzato il ripetuto riferimento, anche in modo non sollecitato, al settore giovanile e soprattutto all’Under 23, identificata come l’anello decisivo per portare talenti italiani in prima squadra. In particolare, Zlatan ha avuto parole insolitamente dolci per Francesco Camarda (“Io alla sua età non ero così forte”), individuato quasi come prototipo di un giocatore fatto in casa di grande prospettiva: un’affermazione che può non essere popolarissima (il tifoso medio vuole il campione per vincere subito, basta fare un giro sui social), ma che a me sa di progetto di lungo periodo e magari di ricostruzione di un nucleo italiano, due cose di cui si sente molto la mancanza.

CHE COSA MI È PIACIUTO UN PO’ MENO

Confesso di non avere mai apprezzato molto lo stile comunicativo di Ibrahimovic: il parlare di sé in terza persona, il definirsi “dio”, i post enigmatici sui social, la costante apologia di se stesso, il machismo ostinato che – se posso permettermi – è diventato addirittura un po’ malinconico negli ultimi, eroici, anni, quelli dell’ultimo Ibra più acciaccato e frenato dagli infortuni, a lungo assente dal campo: “Ibra non ha preso il Covid, è il Covid che ha preso Ibra”, e intanto noi giochiamo senza attaccante.

Questa retorica è riemersa a tratti (“sono bello”, “sono in forma”, “questo è mio show”, “sono il tuo boss”), anche se mitigata, almeno nelle intenzioni, da una specie di goffa ironia che per ora non funziona: il risultato è una specie di Terminator, di androide progettato per uccidere che cerca di simulare le emozioni umane senza capirle. Ecco: proprio da Arnold Schwarzenegger Zlatan dovrebbe imparare come si fa a far convivere un corpo imponente e minaccioso con un’ironia profonda che gioca su quel corpo accentuandone i tratti e quindi in fondo arrivando a caricaturizzarlo e quindi a renderlo simpatico. Non è facile: Arnold è un uomo intelligentissimo, che ha avuto successo nello sport, nel cinema, nella politica. Sono sicuro che Ibrahimovic, a modo suo, saprà lavorare sul suo personaggio facendolo evolvere insieme al suo ruolo. Oggi siamo solo all’inizio e il risultato è ancora parecchio legnoso.

CHE COSA NON MI È PIACIUTO PER NIENTE

Mentre Ibra parlava, anzi, ancora prima che iniziasse a parlare, nella chat del canale YouTube del Milan sono apparsi commenti prevalentemente negativi, offensivi nei confronti della società e del management, alternati a qualche invocazione a Maldini e poi – come si vede nello screenshot – quasi solo icone del pagliaccio, ripetute ossessivamente.

Come dicevo all’inizio, questa è la dimostrazione di come il lungo silenzio del Milan (e, aggiungerei, la solitudine nella quale è stato lasciato Pioli dopo i disastri nei derby e in Europa League) abbiano causato danni quasi irreparabili. Dov’era la “squadra sopra”, quando perdevamo con la Roma senza neanche provare a giocare? Non è colpa di Ibra, beninteso: quando le cose vanno male, la colpa è sempre di chi comanda.

Però gli evidenti errori di gestione, oltre alle cocenti delusioni sul campo, non bastano a spiegare un simile agguato, che sembrava quasi organizzato, tanto è vero che è partito prima di qualsiasi annuncio. Chi sono questi fini opinionisti che hanno invaso la chat di faccine da clown? Sono abbonati? Sono mai stati allo stadio? Sono davvero tifosi o sono abitanti del pianeta dei social media, la cui aria irrespirabile genera notoriamente danni alla salute?

Persino durante le meste giornate di “sciopero della curva”, il pubblico di San Siro, pur non entusiasta del momento, ha continuato a tifare, ha festeggiato i gol, ha scandito i nomi dei marcatori, ha persino tentato di far partire qualche coro pur senza avere, ovviamente, la forza e la compattezza sonora della curva. I milanisti, insomma, hanno tifato Milan anche nei momenti più sgradevoli, come sempre abbiamo fatto anche in momenti ben più sgradevoli di questo.

I peggiori in campo, insomma, sono stati loro: i “leoni da tastiera” (uso volutamente questa espressione un po’ datata) che hanno dileggiato per un’ora il leone Ibra, naturalmente tenendosi prudentemente a distanza non tanto da lui, ma dalla realtà. Quella che – come ci ricorda il nome stesso di questo blog – è sempre più complessa delle bandierine e delle faccine.

BIO: Luca Villani è nato a Milano il 31 gennaio 1965. Giornalista professionista, oggi si occupa di comunicazione aziendale e insegna all’Università del Piemonte Orientale. Tifoso milanista da sempre, ha sviluppato negli anni una inspiegabile passione per il calcio giovanile e in particolare per la Primavera rossonera. Una volta Kakà lo ha citato in un suo post su Instagram e da quel momento non è più lo stesso.

2 risposte

  1. Ho apprezzato l’analisi nel complesso, in particolare “cosa mi è piaciuto meno”, non così tanto le altre due sezioni. Sono tuo coetaneo e dunque tifoso di lunga data. Sono anche contestatore di lunga data, nel senso che diffido di Singer e Cardinale dalla loro apparizione. Non li reputo il tipo di proprietà adeguato a valorizzare il Club. Il goffo Ibra alla scrivania li simbolizza in modo perfetto, più o meno come Scaroni presidente. Non ho messo faccine di pagliaccio ma seguo alcuni canali e ti posso confermare che il dissenso esiste ed è genuino. Ci hanno quasi tutti messo un po’ troppo ma alla fine si sono svegliati. Chi sembra meno genuino è la curva sud, ormai “normalizzata”…
    Complimenti e alla prossima

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