Uomini deboli, destini deboli. La retorica dell’homo faber si è ritorta contro all’uomo che, da inizio europeo, predicava forza, personalità, spirito e valori per determinare la propria sorte. Definendola attraverso un percorso (non c’è altra strada!) che, a conti fatti, si è rivelato fallimentare. Luciano Spalletti e l’Italia escono dal torneo a testa bassa, bassissima, completamente sfibrati e senza anima, con molti oneri e alcun onore, con un carattere microscopico e un temperamento inesistente. Idee, tante, sulla carta. Certezze, poche, all’atto pratico.
Al netto del buon primo tempo contro l’Albania e dell’ultima frazione nervosa con la Croazia, l’Italia è sembrata la brutta copia di quella proclamata da Federazione, CT e giocatori alla vigilia della competizione. Una formazione perennemente work in progress, senza spina dorsale e l’anima in pena, un’organizzazione precaria con ricorrenti cambi di modulo e di interpreti.
1-4-3-3, 1-4-2-3-1, 1-3-5-2, 1-3-4-3, 1-4-2-4: tattiche ballerine e metamorfosi liquida per un’Italia che non è mai sembrata squadra, identità assente e scollamento tra i reparti, principi confusi e schemi alla rinfusa, con una condizione precaria (che non può e deve essere un’attenuante in una competizione in cui tutte le Nazionali giocano ogni tre giorni) e un atteggiamento fossile. Team alle corde e allenatore nel pallone come l’omonimo film di Sergio Martino con Lino Banfi. Nel bigino spallettiano è mancato soltanto il modulo a farfalla di Oronzo Canà, quel 1-5-5-5 con 16 elementi che, probabilmente, seppur in superiorità numerica, non avrebbe garantito il successo.
Severo ma giusto il commento a fine gara di Fabio Capello ai microfoni di Sky Sport (via Corriere dello Sport):
“A livello tattico abbiamo cambiato ma senza vedere niente ho visto una squadra sparpagliata per il campo. Spalletti aveva delle idee e pensava di giocare in un certo modo ma ha sopravvalutato la rosa in cui mancavano qualità e dinamismo. Ma voi pensate che questa Nazionale abbia delle qualità? Sul pressing non c’era movimento o tecnica per riprendere la palla, tatticamente le abbiamo provate tutte ma non abbiamo visto niente. Andavano solo a comprimere degli spazi e basta. Non c’è la qualità. La squadra ha commesso troppi errori tattici, Fagioli stava lì come un pesce fuor d’acqua. Perché i giocatori non cambiavano mai il campo? Perché evidentemente non vedevano il gioco e quindi si limitavano al passaggio a sei, sette metri. Quando lasciamo il gioco ad una squadra che aggredisce e riparte come oggi e tu non recuperi, ma dove vuoi andare?”
PANE E CIOCCOLATA AMARA PER L’ITALIA
Poteva finire come l’immigrato Nino Manfredi a esultare per un gol dell’Italia in un bar svizzero nel film Pane e Cioccolata di Franco Brusati, e invece è terminata nel modo opposto, con gli elvetici a deridere i confinanti italiani con un carico di cioccolata amara.
Azzerata, piatta, assopita, arida, mentalmente bloccata e tecnicamente ridotta, in ginocchio sul piano atletico, povera e diserbata, inspiegabilmente fuori dalla gara ancor prima di giocarla, carente nelle motivazioni e nell’intensità, sotto ritmo e annebbiata totalmente nel gioco: è un’Italia ai minimi storici, senza gambe e senza testa, due elementi fondamentali secondo la visione di calcio di Johan Cruijff.
Gli azzurri dicono addio a Euro 2024 in malo modo, deludendo e calpestando non solo il torneo, ma la storia calcistica italiana e una maglia con 4 stelle sul petto.
Prestazione incomprensibile della squadra di Spalletti (fluttuante a bordo panchina e con poco polso sul gruppo), una Nazionale individualista-difensivista che non si allontana di una virgola dal pensiero di Arrigo Sacchi nel documentario La favola di un visionario (“Il calcio è uno sport di squadra offensivo che noi lo abbiamo tramutato in uno sport individuale difensivo“), spenta e mai combattiva, da matita rossa in ogni reparto (ad eccezione di Donnarumma, il miglior degli azzurri, e Calafiori, assente per squalifica contro la Svizzera), con un collettivo debole e troppo timido, con un coraggio polverizzato e un morale sotto le scarpe.
SPROFONDO AZZURRO A BERLINO
L’Italia torna a casa contro una Svizzera in forma, centrata e diretta, decisa nell’atteggiamento e tatticamente ordinata, attenta nelle due fasi e sempre equilibrata, con una manovra a rispettare tempi e spazi, con concentrazione e lucidità nelle giocate, aggredendo gli avversari e tenendo una pressione costante. Freuler e Vargas annegano con merito gli azzurri, murati vivi da Murat Yakin e umiliati senza appello, accompagnati alla porta d’uscita con una facilità imbarazzante. Citando il titolo di un film di Wim Wenders, “Il cielo sopra Berlino“ è grigio per l’Italia, quello stesso cielo che si colorò di azzurro nel 2006.
Nel calcio, come ricordava lo scrittore Eduardo Galeano, “undici uomini in pantaloni corti sono la spada del quartiere, della città o della nazione”. Esattamente il contrario degli azzurri nella capitale tedesca, una Nazionale che esce dal rettangolo verde con le ossa rotte, concedendo l’iniziativa agli svizzeri e incassando una pesante sconfitta. 2-0, gelo totale all’Olympiastadion e un’altra Caporetto: niente scuse, solo un doveroso – e sacrosanto – mea culpa da recitare a un Paese intero.
Gli elvetici fanno festa con merito, gli azzurri sprofondano in un abissale black out.
Euro 2024 perde così, nel modo peggiore possibile, i campioni in carica, con giocatori senza gradi, talenti (o presunti tali) incompiuti e virtù in fuga. L’uscita agli ottavi del team di Spalletti riapre vecchie ferite e le faglie di una crisi che nasce dalla mancata esclusione dal Mondiale in Qatar nel 2022 e l’addio di Mancini dopo l’esaltante vittoria di Euro 2020.
RIFONDARE E RIPARTIRE
Ora è il tempo delle riflessioni per una Nazionale seppellita dall’oratoria criptica (dei miti e degli eroi) del suo CT, riempita di aspettative e livellata nella qualità, con un movimento da rifondare in vista del Mondiale 2026 e un progetto da ricostruire a 360°. Un passo indietro inaccettabile da parte dell’Italia, al grado zero e con problemi endemici a tutto tondo, trascinata nel gorgo di un sistema che negli anni ha sostituito il gioco al business, il divertimento alle procure potenti, il giudizio obiettivo alle etichette pompose, il lancio dei giovani alla conferma di veterani a fine corsa.
“A volte per creare bisogna prima distruggere“, diceva Michael Fassbender nel film Prometheus di Ridley Scott. Riedificare e ripartire con nuove basi: l’obiettivo è quello di tornare a essere squadra, con programmazione e responsabilità, con idee chiare e coraggio, con impegno e duro lavoro. E se “non c’è altra strada”, come dice Spalletti, questo è il momento di trovarne una diversa, esplorando e magari anche osando, con meno parole e più fatti, per il bene della Nazionale e del calcio italiano.
BIO: Andrea Rurali
Brianzolo Doc, classe 1988. Da sempre appassionato di cinema, tv, calcio, sport e viaggi.
- Lavoro a Mediaset dal 2008 e attualmente mi occupo del palinsesto editoriale di Cine34.
- Sono autore del programma di approfondimento cinematografico “Vi racconto” con Enrico Vanzina e co-regista dei documentari “Noi siamo Cinema” e “Vanzina: una famiglia per il cinema”.
- Dal 2014 dirigo la rivista web CineAvatar.it (http://cineavatar.it/)
- Nell’autunno 2022 ho fondato la community Pagine Mondiali e nell’estate 2023 la piattaforma sportiva Monza Cuore Biancorosso.
- Da agosto 2023 collaboro con la testata giornalistica Monza-News, scrivendo le analisi delle partite dei biancorossi e partecipando alla trasmissione Binario Sport.
- Dal 2019 collaboro con la casa editrice Bietti, in particolare per la realizzazione di saggi sul cinema inseriti nelle monografie di William Lustig, Manetti Bros, Dario Argento e Mike Flanagan.
- Tra le mie pubblicazioni, il saggio “Il mio nome è western italiano” nel volume Quando cantavano le Colt. Enciclopedia cine-musicale del western all’italiana (F. Biella-M. Privitera, Casa Musicale Eco, 2017).