IL RISULTATO: L’OSSESSIONE CHE OSCURA IL PROCESSO

In Italia c’è una parola che sembra dominare ogni discussione calcistica: risultato. È l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine di ogni discorso. Eppure, questa ossessione per il risultato, per il freddo numero che appare sul tabellone alla fine dei 90 minuti, rischia di soffocare qualcosa di molto più importante: il processo.

In Italia, il risultato è il sovrano assoluto. Una vittoria è celebrata, una sconfitta è condannata, senza che vi sia una reale analisi del percorso che ha portato a quell’esito. È come se la magia del gioco fosse compressa in un singolo momento, riducendo l’intera narrazione calcistica a un freddo punteggio finale. Un gol al 90° minuto, una parata decisiva, un rigore sbagliato: sono questi i dettagli che diventano il fulcro del dibattito, lasciando nell’ombra il tessuto connettivo di una partita.

Ma c’è un’ipocrisia sottile e persistente che attraversa questa ossessione per il risultato: quella relativa all’arbitraggio. Il risultato viene messo in discussione solo quando, a detta della parte danneggiata, è stato l’arbitro a incidere in modo determinante. È un lamento che conosciamo bene, un coro di proteste che si leva ogni volta che un episodio dubbio o una decisione controversa sembrano aver influito sul risultato finale. Perché il risultato è sacrosanto e intoccabile, salvo quando c’è un presunto errore arbitrale? È una domanda che svela la fragilità del nostro modo di vivere il calcio, dove la ricerca del colpevole diventa un rituale consolatorio, un modo per esorcizzare la sconfitta e mantenere intatta l’immagine della propria squadra.

Nel calcio, come nella vita, la variabile umana è sempre presente. Gli arbitri, con le loro decisioni, fanno parte del gioco quanto i giocatori stessi. È facile dimenticare che l’errore arbitrale è parte integrante della storia del calcio, un elemento che ha sempre generato discussioni, polemiche e, a volte, leggende. L’arbitro, nel bene e nel male, è un protagonista silenzioso, spesso invisibile, ma sempre presente.

L’Illusione del Successo

I successi della nazionale italiana, in particolare la vittoria ai Mondiali 2006 e agli Europei del 2020, hanno alimentato questa ossessione. Sono stati trionfi che hanno riportato orgoglio e speranza nel cuore dei tifosi, ma hanno anche nascosto sotto il tappeto problemi strutturali evidenti. L’entusiasmo per i titoli ha oscurato questioni come le problematiche nelle nostre giovanili e la mancanza di veri talenti emergenti. Il nostro calcio ha bisogno di introspezione, ma l’euforia del momento ha anestetizzato la necessità di un’analisi critica.

In Italia, si tende a prendere alla lettera le affermazioni di grandi sportivi del passato come “Arrivare secondo significa soltanto essere il primo degli sconfitti” o “Chiunque dica non conta tu abbia vinto o perso, probabilmente ha perso”. Queste frasi, cariche di significato e pronunciate da leggende che hanno fatto la storia, vengono spesso usate per giustificare un’ossessione quasi maniacale per la vittoria. L’approccio asettico al risultato in sé ci porta a dimenticare che lo sport è anche una questione di valori, di impegno e di crescita personale. La retorica del “Chi vince festeggia, chi perde spiega” riduce tutto a un semplice dualismo vittoria-sconfitta, trascurando le storie di resilienza, di coraggio e di sacrificio che si celano dietro ogni prestazione.

Il livello delle giovanili italiane è uno specchio fedele delle problematiche più profonde del nostro sistema calcistico. Mentre il mondo evolve, abbracciando nuove metodologie e investendo in tecnologie avanzate per la formazione dei giovani, l’Italia resta aggrappata a modelli ormai obsoleti.

Nel contesto attuale, dove la tecnologia permea ogni aspetto del calcio, dall’analisi dei dati alle metodologie di allenamento, rischiamo di perdere di vista un elemento fondamentale: l’umanizzazione del gioco. Questa mancanza di attenzione al giocatore come persona, come individuo immerso in un complesso sistema di relazioni, sia dentro che fuori dal campo, può avere ripercussioni significative sulla sua traiettoria di carriera. L’umanizzazione, in questo contesto, non è un semplice atto di “buonismo”. Non si tratta di un sentimentalismo fine a sé stesso. È, invece, un riconoscimento della complessità dell’essere umano, della sua necessità di sentirsi parte di qualcosa di più grande, di essere compreso e sostenuto non solo come atleta, ma come persona. Le relazioni, le emozioni, le esperienze di vita sono elementi che influenzano profondamente la crescita di un giocatore.

Il talento grezzo è presente, ma manca la visione strategica per coltivarlo e trasformarlo in eccellenza. Le accademie e i settori giovanili non riescono a tenere il passo con le richieste del calcio moderno, rimanendo intrappolati in un’era passata. Guardiamo ai grandi maestri del passato, figure come Johan Cruyff o Carlo Mazzone, che hanno sempre sottolineato l’importanza dell’aspetto umano nel calcio. Questi allenatori sapevano che dietro ogni calciatore c’è una persona con i suoi sogni, le sue paure, le sue ambizioni. Erano consapevoli che per ottenere il massimo da un giocatore, bisognava comprendere e valorizzare anche questi aspetti.

Nei settori giovanili, si plasma il futuro, ma c’è un problema: troppo spesso, l’attenzione è rivolta esclusivamente al trofeo di turno. La coppa in bella mostra nella bacheca della società conta più del percorso che i ragazzi hanno fatto per ottenerla. E in questo microcosmo, il risultato diventa una tirannia che schiaccia il processo, l’evoluzione, la crescita. Nei campionati giovanili italiani, si punta spesso a vincere a ogni costo, anche se questo significa schierare undici stranieri in campo. Il calcio giovanile diventa una parodia del professionismo, dove l’unico obiettivo è il successo immediato. Ma cosa resta alla fine? Qual è il vero valore di un trofeo giovanile se non accompagna una crescita organica e strutturata dei giocatori?

Forse, quello che manca è una cultura del risultato che sappia apprezzare il gioco nella sua interezza. In altre nazioni, il calcio viene vissuto con una prospettiva diversa, dove il risultato è importante, ma non esclusivo. C’è una maggiore tolleranza per l’errore, una comprensione più profonda delle dinamiche del gioco. Pensate a Paesi come la Spagna o la Germania, dove il processo è tutto. In Spagna, la “cantera” del Barcellona non è solo una fabbrica di talenti, ma un laboratorio di idee calcistiche, dove si insegna una filosofia di gioco che va oltre il semplice risultato. Da segnalare, inoltre, il florido settore giovanile dell’Athletic Bilbao. La società basca applica da diversi decenni la politica dei calciatori nati e/o cresciuti nella zona dell’Euskal Herria, area geografica che abbraccia un territorio al confine tra Spagna e Francia. Tutto inizia al Baskonia, una culla dove i talenti nascono e crescono sotto l’occhio vigile dei maestri. Da lì, i giovani passano al Bilbao Athletic, una sorta di scuola superiore del calcio, dove affinano le loro abilità e comprendono il peso della maglia che indossano. Solo quando sono pronti, quando il fuoco della passione e la disciplina della tecnica si fondono perfettamente, questi giovani sono chiamati a calcare il sacro terreno del San Mamés con la prima squadra. È un viaggio che va oltre lo sport, è un rito di passaggio che intreccia identità e orgoglio.

In Germania, la rinascita calcistica è passata attraverso una rivoluzione culturale e metodologica, dove ogni passaggio, ogni movimento, ogni dettaglio è studiato, perfezionato, interiorizzato. Il calcio tedesco è un’ode all’organizzazione, alla disciplina, alla lungimiranza. Non si tratta solo di vincere, ma di creare un ecosistema in cui i talenti possano fiorire, maturare, esplodere. E in questo contesto, due club emergono come fari luminosi: il Borussia Dortmund e il Lipsia. a gestione dei talenti al Dortmund è una sinfonia di scouting, formazione e opportunità. Non è solo calcio, è un’arte. Un’arte di trasformare il potenziale in prestazioni, di alimentare sogni e ambizioni con una cura quasi paterna. Per quanto riguarda il Lipsia, la Red Bull Academy è il cuore pulsante di questo processo, un luogo dove il talento grezzo viene affinato con precisione quasi scientifica. In un mondo calcistico in continua evoluzione, la Germania rimane una stella polare, guidando il cammino con la sua visione chiara e la sua instancabile dedizione alla crescita dei giovani talenti.

E qui in Italia? Inseguiamo il risultato come se fosse l’unica cosa che conta. Non ci soffermiamo sul come si arriva a quel risultato. Non analizziamo i processi, non studiamo le metodologie. La vittoria diventa un obiettivo fine a se stesso, senza un contesto, senza una cornice di crescita e sviluppo.

Il processo creativo del calcio

Il calcio non è solo una sequenza di numeri e risultati, ma un processo creativo che richiede tempo, dedizione e comprensione profonda. La bellezza del gioco risiede nei dettagli: nella costruzione di un’azione, nella tattica, nella visione di gioco. La vittoria è importante, certo, ma è altrettanto fondamentale capire come si è arrivati a quel successo. Senza questa consapevolezza, ogni trionfo è destinato a essere effimero.

Prendiamo, per esempio, la storica finale di Coppa del Mondo del 1970 tra Brasile e Italia. Un match che terminò 4-1 per i verdeoro, consegnando alla storia una delle squadre più forti di tutti i tempi. Tuttavia, soffermarsi solo sul risultato sarebbe un errore grossolano. Quella partita rappresenta molto di più: il confronto tra due filosofie di calcio, la maestosità di Pelé e la determinazione di un’Italia che non si arrese mai, nemmeno di fronte a una sconfitta inevitabile.

Le vittorie e le sconfitte fanno parte del gioco, ma ciò che realmente conta è come si arriva a quei momenti. La dedizione, la passione, il sacrificio e la capacità di rialzarsi dopo una caduta sono valori che vanno oltre il semplice risultato. Affinché calcio italiano possa ritrovare la sua gloria duratura, è necessario un cambiamento di mentalità. Dobbiamo imparare a guardare oltre il risultato immediato, a valorizzare il processo tanto quanto il prodotto finale. Questo significa investire nelle giovanili, adottare nuove tecniche di allenamento, e creare un ambiente che favorisca lo sviluppo dei talenti. Solo così potremo costruire una base solida per il futuro.

Ogni storia di successo è fatta di innumerevoli piccoli passi, di momenti di sacrificio e di crescita. Il calcio italiano deve riscoprire questa filosofia, abbandonando l’ossessione per il risultato immediato e concentrandosi sul lungo percorso che porta alla vera eccellenza. Solo allora potremo celebrare non solo le vittorie, ma anche la bellezza del viaggio che le rende possibili.

In definitiva, l’ossessione per il risultato e l’ipocrisia dell’arbitraggio sono due facce della stessa medaglia. In Italia, questa ossessione per il risultato è un fenomeno radicato, ma non per questo giustificabile. Certe parole, anche quelle proferite da celebri “bocche”, se prese alla lettera, rischiano di impoverire il vero significato dello sport. Il calcio è una narrazione continua, fatta di storie, di personaggi, di emozioni. Ma anche di processi, di crescita, di sviluppo. E forse, se riusciamo a sovvertire determinati status quo, cambiando la nostra prospettiva, potremo scrivere nuove pagine gloriose nella storia del calcio italiano.

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

4 risposte

  1. Incantato da questo articolo capolavoro che non solo riassume meravigliosamente la mia idea di calcio … Ma che è talmente bello e profondo che avrei voluto scriverlo io!!!!😉😊PS e l’esempio del mio adorato ATHLETIC Club de BILBAO è semplicemente perfetto.

    1. Ciao Remo,
      troppo buono! Questo tuo commento è un onore. Leggo sempre con enorme piacere i tuoi contributi e la stima è più che ricambiata. Grazie di cuore!

  2. mi chiedevo da dove nascesse tanto buon senso, cultura e senso dell’etica, quasi lungimirante, poi ho letto: “residente a Lisbona” e ho completato il puzzle. Altri livelli, altro spirito del gioco, della vita nel suo senso più profondo. Complimenti, evviva la Vita e il Calcio !

  3. mi chiedevo, leggendo, da dove nascesse tanta cultura, senso dello sport, dell’etica e della vita, e poi ho letto “residente a Lisbona”. Città fantastica nella sua essenza di vita, intesa nella più profonda e totale “mission”. Complimenti vivissimi ! Manuel

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