NEREO ROCCO – PRIMA PARTE: GLI ALBORI

NB: La foto di copertina è di Ubaldo Bungaro

In un’epoca in cui il calcio era ancora una scienza inesatta, Rocco emerge come un pioniere, un innovatore con una visione che andava oltre il semplice schema di gioco. Nato a Trieste nel 1912, Rocco ha portato con sé l’anima del porto, un luogo di incontri e di scambi, un crocevia di culture. Il suo approccio al calcio era al contempo pragmatico e filosofico. Non era solo un allenatore, ma un narratore di storie, un maestro che sapeva trasformare undici uomini in una squadra coesa e impenetrabile.

Trieste è una città che danza sulle onde del tempo, una città che ha vissuto una lunga storia di cambiamenti, dove gli imperi hanno varcato le sue porte e rivendicato la città come propria. Trieste, con il suo porto che abbraccia il mare Adriatico, è stata il crocevia di culture, lingue e religioni. La città è stata parte dell’Impero Austro-Ungarico, un punto di contatto tra il mondo latino e quello slavo, tra l’Europa centrale e il Mediterraneo. Le sue strade hanno sentito risuonare le lingue del mondo: italiano, sloveno, tedesco, croato. È una città di confini, non solo geografici, ma anche culturali e storici. Dopo la Prima Guerra Mondiale, Trieste è divenuta italiana, ma le ferite del passato e i segni dei tanti cambiamenti rimangono visibili ancora oggi.

L’eredità di Nereo Rocco è indissolubilmente legata alla sua città. È una città che ha visto l’alba e il tramonto di imperi, che ha resistito e prosperato nonostante le avversità. Allo stesso modo, Rocco ha lasciato un’impronta indelebile nel mondo del calcio, un simbolo di resilienza e passione.

Trieste e Rocco, un connubio perfetto di storia e sport, di passato e presente, di una città e del suo figlio più famoso. Il Paròn calcava i campi di Trieste durante l’epoca oscura della grande depressione. Era un periodo in cui gli stipendi calcistici erano miseri… per chi percepiva uno stipendio. Non era raro che i calciatori, anche quelli che militavano nella massima serie, dovessero arrabattarsi con lavori occasionali per riuscire a pagare le bollette e sostenere le loro famiglie. Questa cruda realtà era particolarmente evidente in piccoli club come la Triestina. Qui, il calcio era passione pura, non ancora contaminata dai meccanismi economici odierni. I tifosi, mossi da un amore viscerale per la squadra, spesso non pagavano per assistere alle partite, e le sponsorizzazioni, rare e di modesta entità, non riuscivano a fornire un sostegno economico significativo.

Dopo oltre 200 presenze con la maglia della squadra della sua città, un 25enne Rocco decise di volare verso sud, accettando la corte del Napoli. La squadra partenopea era in declino. Non era più la compagine fiera e volitiva con il celeberrimo Garbutt al timone, con Sallustro e Vojak a dipingere calcio. Tuttavia, Nereo, in campo, era un centrocampista che incarnava il cuore e l’anima del gioco. I suoi anni partenopei furono un miscuglio di gesta sportive e momenti di vita quotidiana, in una città che viveva il calcio come un atto di fede. Rocco non era solo un giocatore; era un simbolo di tenacia, un gladiatore che lottava su un terreno di gioco spesso avverso, ma sempre con il cuore rivolto verso il cielo azzurro sopra il San Paolo. Si tolse soddisfazioni importanti, rendendosi protagonista di prestazioni straordinarie nelle vittorie contro Milan e Juve.

Come calciatore, la sua carriera è stata dignitosa, onorevole, con momenti di indubbia qualità. Ha calcato i campi con la grinta e la passione tipiche del suo spirito triestino, ma le sue gesta sul rettangolo verde non hanno mai toccato le vette che il destino gli avrebbe riservato in panchina. È come se il suo destino fosse scritto nelle pieghe del tempo: il vero capolavoro di Rocco sarebbe emerso solo una volta indossata la giacca dell’allenatore. Ed è qui che il Paròn ha scolpito il suo nome nella leggenda del calcio. Da Trieste a Milano, da Padova a Torino, ogni squadra sotto la sua guida ha vissuto una metamorfosi, un’evoluzione tattica e morale.

La carriera di Nereo Rocco come allenatore non è solo una storia di vittorie e trofei, ma un racconto epico di leadership, strategia e cuore. Ha trasformato il calcio in un’arte, una filosofia, un modo di vivere. La sua eredità non risiede solo nei successi ottenuti, ma nella trasformazione profonda del gioco stesso, lasciando un’impronta indelebile che risuona ancora oggi nei campi e nei cuori di chi ama questo sport.

Rocco inventore del catenaccio?

Un dibattito che ha infiammato per decenni gli animi dei puristi del calcio e degli storici dello sport: Chi ha davvero inventato il catenaccio? La domanda rimbomba nei corridoi del tempo, evocando nomi e leggende. Una cosa è certa: il catenaccio, con la sua rigida struttura difensiva e l’introduzione del “libero”, è stato un’arte. Ma chi ne ha fatto l’uso più efficace? Su questo non c’è discussione: Nereo Rocco.

Rocco ha trasformato il catenaccio in un balletto strategico, un’opera d’ingegno calcistico che ha portato il suo Milan e il suo Padova alla gloria. Non era solo difendere; era una filosofia, un approccio esistenziale al gioco. Le sue squadre erano sinfonie di disciplina, dove ogni nota – ogni giocatore – aveva un ruolo preciso in un’armonia difensiva impenetrabile. Rocco ha reso il catenaccio più di una tattica: ne ha fatto un’epica calcistica.

Nereo Rocco, il Paròn di Trieste, era un uomo che portava con sé l’odore della terra, il calore del popolo. La sua filosofia calcistica era tanto semplice quanto efficace: difesa solida, contropiede letale. Nella sua idea di catenaccio, ciascun giocatore aveva un ruolo ben definito, una missione da compiere. Il suo Milan era una fortezza impenetrabile, costruita su valori di umiltà e determinazione. Herrera, l’argentino con il fascino del Mago, era un visionario, un innovatore. La sua Inter non solo difendeva, ma lo faceva con una tale disciplina e rigore che sembrava una macchina perfetta. Sotto la sua guida, l’Inter vinse tutto, diventando una leggenda. Il catenaccio di Herrera non era solo un sistema difensivo, ma un manifesto di superiorità tattica e mentale. Rocco vedeva nel catenaccio una necessità, un modo per livellare il campo contro avversari tecnicamente superiori. Herrera, invece, lo vedeva come un’arma per dominare, per imporre la sua volontà.

Gli inizi della leggenda

Nereo Rocco, allora alla guida della Triestina nella stagione 1947-48, si trovava a fronteggiare il mito in carne e ossa del Grande Torino, una formazione che danzava sul campo come se il gioco fosse un’opera d’arte. La Triestina, una piccola squadra dal cuore grande, era destinata a essere l’outsider in un campionato dominato da colossi. Sotto la guida di Rocco, però, il club triestino non si limitò a essere un comprimario in questa epopea calcistica. Con la sua visione e il suo carisma, Rocco riuscì a portare la Triestina a un secondo posto storico, finendo a 16 punti dal Grande Torino ma ben sopra il Milan, la squadra con cui il destino di Rocco sarebbe stato indissolubilmente legato.

Con una squadra che sfidava i colossi e un allenatore che stava per diventare un maestro, Rocco e la Triestina rappresentano il paradosso di un inizio umile che portò a una carriera monumentale. Questo secondo posto non è solo un risultato; è un simbolo di potenziale e di passione, un preludio a una carriera che avrebbe rivoluzionato il calcio italiano. Le stagioni successive furono positive, anche se lontane dai livelli di un’annata culminata con un piazzamento tanto inaspettato quanto storico.

Per motivi mai chiariti, Rocco lasciò la casa madre e andò ad allenare il Treviso in Serie B. Dopo un ritorno lampo alla Triestina, culminato con l’esonero a seguito di uno 0-6 contro il Milan, la carriera di Rocco sembrava in bilico. I cattivi risultati avevano visto cadere su di lui la scure del fallimento. L’idea di tornare alla macelleria di famiglia era più che una semplice tentazione. Ma il destino aveva altri piani. Fu Bruno Polazzi, un padovano con l’occhio lungo per il talento, a contattarlo in un momento cruciale. Polazzi vide in Rocco non solo un uomo caduto in disgrazia, ma un allenatore con un potenziale inespresso. “Se mi date la casa, più tanto al mese e mi lasciate tornare a Trieste ogni settimana senza creare problemi, posso venire a salvare la barca. Ma non prometto nulla; per il futuro vedremo“. Avrebbe fatto di tutto per tornare, anche per poche ore, nella sua città natia e respirare nuovamente l’aria di casa e quella della bottega di famiglia.

I Biancoscudati di Padova erano impantanati nei bassifondi della Serie B, un luogo dove i sogni sembravano destinati a languire. Nelle restanti undici partite della stagione, Rocco condusse il Padova a un’impresa che sembrava impossibile. Dodici punti, un bottino che ai tempi significava salvezza, rivalsa, rinascita. Il vero capolavoro, però, arrivò nella stagione 1957-1958. Guidati dalla saggezza tattica di Rocco, i patavini raggiunsero un inaspettato terzo posto in Serie A. Era un trionfo che sfidava ogni previsione, un’apoteosi calcistica per una squadra che, fino a poco tempo prima, sembrava destinata alla mediocrità eterna. Ma come tutte le belle storie, anche quella del Padova aveva una nota malinconica. I problemi economici iniziarono a erodere le fondamenta di quella squadra straordinaria. I migliori giocatori furono ceduti, le speranze infrante. Quel terzo posto rimase l’apogeo di un Padova che aveva toccato il cielo con un dito, solo per essere trascinato nuovamente giù dalle spietate leggi del mercato. CONTINUA…

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

Una risposta

  1. Vincenzo Di Maso buongiorno!
    Complimenti veri per la stesura della narrativa biografia dell’allenatore che io personalmente ritengo uno dei più grandi di sempre.
    Aggiungo una perla alla tua piacevole disamina. Ebbi la fortuna nel lontanissimo 14.6.1967 di stringere la mano del Paron al termine della finale di Coppa Italia giocata all’Olimpico contro il Padova e vinta dal Milan per 1 a 0 con goal di Amarildo. Nella sua calorosa stretta mi disse:
    ” Ti ze’ milanista anche ti?… a Roma??… ohhh!! Madonna Santissima sperem che porti ben!!” Un caro abbraccio
    Massimo 48

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