Nel 1961, il celebre dirigente del Milan, Giuseppe “Gipo” Viani, fu colpito da un infarto. Nonostante il Milan avesse conquistato lo scudetto, Viani sapeva che era giunto il momento di farsi da parte, cedendo il timone a un nuovo leader. Quell’uomo era Nereo Rocco, che assunse anche il ruolo di allenatore. Rocco si mise immediatamente al lavoro, guidando il Milan alla conquista del titolo nella sua prima stagione. Sebbene sia spesso ricordato come il maestro del catenaccio, i rossoneri segnarono 83 gol in 34 partite nel 1961-1962. Rocco era un innovatore, con una preparazione fisica all’avanguardia e una visione tattica che lo poneva anni luce avanti rispetto ai suoi contemporanei.
Nel mondo del calcio, dove le personalità si scontrano e gli stili si intrecciano, pochi episodi sono emblematici come l’incontro-scontro tra Nereo Rocco e Jimmy Greaves. Era il 1961 quando Greaves, già una leggenda del calcio inglese, arrivò al Milan con un contratto che rispecchiava il suo prestigio. Ma in quella Milano che pulsava di storia e ambizione, il matrimonio calcistico tra l’inglese e il Paròn non decollò mai veramente. Greaves, con il suo talento indiscutibile, era un uomo di gol e di genio, ma anche di pub e serate spensierate. Spesso, dopo l’allenamento, lo si poteva trovare a sorseggiare una birra con il connazionale Gerry Hitchens, all’epoca all’Inter. Questa abitudine, che Greaves portava con sé dalla natia Londra, strideva con l’approccio disciplinato e rigoroso di Rocco, un uomo che credeva fermamente nel sacrificio e nella dedizione totale al calcio.
Rocco vedeva in Greaves un calciatore indisciplinato, un diamante grezzo che non si lasciava affatto levigare. E così, il Paròn, con la sua visione intransigente, prese una decisione drastica: rispedire Greaves in Inghilterra. Fu un trasferimento che fece scalpore, con Greaves che diventò il primo calciatore a essere venduto per la cifra record di 100.000 sterline. Questo episodio ci racconta molto più di una semplice divergenza di opinioni. È una storia di due mondi che si scontrano, di una tradizione calcistica italiana che ancora oggi riverbera nelle mura di Milanello e di un talento inglese che, nonostante tutto, trovò la sua consacrazione definitiva solo dopo essere tornato a casa.
Con la partenza di Jimmy Greaves, Rocco sapeva di aver bisogno di un’altra stella, un pilastro attorno al quale costruire il nuovo Milan. Così, con l’occhio attento di un vero intenditore, volse lo sguardo verso l’Argentina. Un brasiliano in terra “nemica” è un evento piuttosto raro. Difatti Dino Sani disputò poche partite con la maglia del Boca. Centrocampista brasiliano dal tocco elegante e dalla visione di gioco cristallina, Sani era prim’ancora reduce da un’esperienza al San Paolo, dove aveva già fatto vedere lampi di grandezza. Sani non era solo un giocatore di talento, ma incarnava quella raffinata combinazione di tecnica e intelligenza tattica che Rocco cercava disperatamente. L’incontro tra i due fu come una sinfonia perfettamente orchestrata. Il Paròn, con il suo carattere burbero ma profondamente umano, seppe immediatamente come trarre il meglio dal suo nuovo gioiello. Sani, dal canto suo, si lasciò plasmare dal maestro triestino, assorbendo insegnamenti che avrebbero risuonato nella sua mente per anni a venire.
Nel Milan, Sani divenne il metronomo della squadra, il cervello che orchestrava il gioco con precisione e eleganza. La sua capacità di leggere la partita e di distribuire palloni con chirurgica accuratezza divenne il perno attorno al quale ruotava tutto il sistema di Rocco. Il loro rapporto andava oltre il semplice binomio allenatore-giocatore: era un sodalizio di menti, un incontro di anime calcistiche affini. Il centrocampista di origini italiane, che avrebbe poi intrapreso la carriera di allenatore, non mancò mai di riconoscere l’influenza di Rocco nel suo percorso. In Brasile, dove il calcio è religione, Sani divenne un allenatore venerato, e spesso attribuiva gran parte del suo successo a quei giorni passati sotto la guida di Rocco. Diceva che Rocco non solo gli aveva insegnato i segreti del gioco, ma gli aveva anche mostrato cosa significasse veramente essere un leader, un mentore.
I primi trionfi
Con l’avvento di Rocco alla guida del Milan, emerse una rivalità quasi inevitabile con Helenio Herrera, il leggendario tecnico dell’Inter. Entrambi maestri del catenaccio, rappresentavano due volti di questa tattica. Rocco incarnava l’anima più tradizionale, un custode dell’ortodossia difensiva. Il suo Milan era un baluardo impenetrabile, con terzini bloccati e una rigorosa adesione ai principi difensivi, quasi un tributo alla purezza del catenaccio stesso. Il capitano e stella azzurra Cesare Maldini, triestino come Rocco, era già sulla buona strada per diventare una leggenda a Milano quando il Paròn prese in mano i rossoneri. Fu Maldini, insieme al gioiello del calcio italiano Gianni Rivera, a guidare il Milan sul campo, mentre Rocco dominava in ogni altra faccenda. Spesso furioso a bordo campo, il Paròn rimproverava gli arbitri, umiliava i giovani giocatori e rendeva la vita difficile a chiunque si frapponeva tra lui e la vittoria. In questo scenario, la simbiosi tra il carisma di Rocco e il talento dei suoi giocatori creava un’alchimia unica, capace di scrivere pagine indelebili nella storia del calcio.
Dopo un immediato trionfo in patria, la squadra di Rocco approdò alla finale della Coppa dei Campioni del 1963. L’avversario era il temibile Benfica, guidato dal raffinato e possente Eusébio, spesso ritenuto il secondo miglior giocatore al mondo dopo Pelé. Wembley fu teatro di una battaglia tra Titani. Nessuna squadra italiana aveva mai conquistato la Coppa dei Campioni e, dopo la tragica scomparsa del Grande Torino, il Milan di Rocco si apprestava a raccoglierne l’eredità. La partita vide l’antitesi di due filosofie calcistiche: il rigido Catenaccio contro l’assalto totale del Benfica. Nella prima frazione, l’impeto lusitano prevaleva, grazie al consueto talento di Eusébio, che apriva le marcature. Tuttavia, il Milan, dopo aver vacillato inizialmente, trovava la sua resilienza. Fu il grande Altafini a trasformare il destino, siglando due reti nella ripresa e consegnando la Coppa dei Campioni all’Italia per la prima volta nella storia.
Il nome di Rocco era ormai inciso a caratteri d’oro nella storia del calcio italiano. Maldini, Rivera e Altafini, diventati icone internazionali ed eroi nazionali, riuscivano persino a trascendere le feroci rivalità tra le squadre. Altafini, con i suoi 14 gol nella competizione, era un autentico fenomeno del gol. Maldini, il capitano leggendario, incarnava lo spirito del Milan, mentre Gianni Rivera, “l’abatino” del calcio italiano, ne rappresentava l’eleganza. Il Catenaccio non era solo una tattica difensiva, ma uno stile di vita, e Rocco ne era il venerato guru.
L’intermezzo al Toro
Dopo il trionfo in Coppa dei Campioni, Nereo Rocco compì una scelta audace, passando a guidare il Torino, club un tempo glorioso ma devastato dall’immane tragedia del disastro aereo di Superga del 1949. La società, che un tempo dettava legge nel calcio italiano, era ormai relegata a una mediocrità di metà classifica, priva di ambizioni e colpita dalla malasorte. Rocco era il catalizzatore perfetto per una rivoluzione. Motivante con la stessa ardore di un oratore d’altri tempi, trascorreva ore e ore con i suoi giocatori, non solo sul campo di battaglia calcistica, ma anche nei ritrovi quotidiani, tra ristoranti e bar. Era un maestro, capace di incantare e, se necessario, di piegare i suoi calciatori fino all’umiliazione, tutto per estrarre il massimo rendimento da ciascuno di loro.
Nella delicatezza del duello individuale, Rocco era inimitabile, il vero maestro dell’uno contro uno. Il Paròn analizzava con un’attenzione maniacale ogni punto di forza e di debolezza dei suoi avversari, guidando i suoi calciatori a sfruttare ogni vulnerabilità con precisione chirurgica. Arrivato al Torino, portava con sé non solo una vigorosa energia, ma anche una forza di persuasione in grado di trasformare le macerie di Superga in una squadra vincente. Fino ad allora, pareva che nessuno avesse osato sfidare i fantasmi di quella gloriosa formazione, e la città intera restava immersa nel lutto. Ma il Paròn, con il suo carisma e la sua audacia, si ergeva come il risveglio del gigante addormentato, pronto a sovvertire ogni convenzione e riportare il Toro al suo antico splendore.
Orfeo Pianelli, fresco di nomina a presidente del Torino, esercitò il suo carisma per persuadere Nereo Rocco a prendere le redini della squadra. Non solo, Pianelli era riuscito a portare con sé anche il magico Gigi Meroni. Sotto la guida di Rocco e con l’estro di Meroni, il Torino conquistò la Coppa Italia nel 1967 e centrò un illustre terzo posto in campionato, il miglior risultato dal tempo di Valentino Mazzola. Purtroppo, il destino si accanì crudele: Meroni, investito e tragicamente ucciso mentre attraversava la strada dopo una partita contro la Sampdoria nell’autunno del 1967, segnò un colpo mortale per il Torino, che non riuscì più a ritrovare il suo slancio.
Il ritorno al Milan
Dopo il trionfale ritorno al Torino, Nereo Rocco riprese le redini della panchina rossonera, e il suo secondo ciclo al Milan fu addirittura più esaltante del primo. La squadra, rigenerata sotto la sua guida, tornò a brillare ai vertici del calcio italiano, accendendo la storica rivalità con Helenio Herrera. Questo periodo d’oro per Rocco e i suoi ragazzi vide il Milan sollevare con orgoglio la Coppa delle Coppe e la Coppa Italia, culminando in un’ascesa trionfale che consacrò definitivamente la sua era. Alla conclusione della stagione 1968-69, l’eco delle imprese spaziali e delle turbolenze del Vietnam dominava il panorama globale, ma un’altra epica si stava per scrivere sul campo di gioco. Al Santiago Bernabéu di Madrid, un confronto titanico si preannunciava: la finale della Coppa dei Campioni. Il Milan, con la sua tradizione di maestria e gloria, era pronto a fronteggiare l’Ajax, un’armata guidata dal prodigioso Johan Cruyff, che con la sua leggenda stava per plasmare il futuro del calcio.
Dopo aver superato il Malmö e il Celtic, il Milan si trovava di fronte all’ultimo ostacolo prima della gloria: il Manchester United, campione in carica e condotto dal leggendario Matt Busby, che aveva annunciato il proprio ritiro a fine stagione. Tutti i pronostici erano favorevoli agli inglesi, ma il destino aveva in serbo un’altra storia. Davanti a 80.000 spettatori, il Milan, in un San Siro che vibrava di attesa, stese i rossi con un 2-0 che portò le firme di Angelo Sormani e Kurt Hamrin. Bastarono quei due gol per ridisegnare il cammino verso la vittoria, con il Milan che controllò il match con maestria. La sfida di Old Trafford segnò il congedo di Busby dalla Coppa dei Campioni sulla panchina del Manchester United. Il Milan, con una difesa implacabile e magistrale, arginò ogni assalto. Il gol di Bobby Charlton, giunto in extremis, non fu sufficiente a mutare le sorti della contesa.
Sulla leggendaria finale tra Milan e Ajax è stato scritto di tutto, e il confronto tra catenaccio e totaalvoetbal ha monopolizzato le cronache. Gli avversari, come sempre, erano i favoriti: Johan Cruyff e Rinus Michels parevano avvolti in una dimensione calcistica futurista, lontani anni luce da un sistema considerato ormai obsoleto. Eppure, quel sistema, tanto vituperato alla vigilia, rimase immutato di fronte ai maestri olandesi. Nereo Rocco, il volto emblematico di questo stile, doveva dimostrare che il suo catenaccio non solo era vivo, ma capace di trionfare anche contro l’innovazione. Rocco, maestro di pragmatismo e cinismo, incitava i suoi giocatori a colpire tutto ciò che si muoveva: palla o gambe, senza distinzione. “Segui quel centrocampista,” ordinava a uno dei suoi difensori, “dallo spogliatoio al gabinetto”. Il Milan, con una disciplina militare, avrebbe negato all’Ajax ogni possibilità di costruire il proprio gioco, perché la Coppa dei Campioni doveva restare a Milano. Quando il fischio d’inizio era previsto al Santiago Bernabéu, la presenza massiccia di giornalisti sul campo era tale da costringere a un ritardo di 15 minuti per liberare l’area. Quella serata doveva segnare l’inizio di una nuova era, con la partita che sarebbe stata la prima trasmessa in televisione a colori.
La partita si dipanò come un monologo di scuola milanista, con il Milan che asfissiò l’Ajax in un dominio incontrastato. All’ottavo minuto, Pierino Prati, con l’eleganza di un artista, realizzò il primo gol, scatenando una reazione di shock nella formazione olandese. Non pago, Prati raddoppiò prima dell’intervallo, e il secondo tempo non mutò il copione. La solidità del Milan respinse con autorità ogni offensiva orchestrata da Michels e il suo genio Cruyff, ridotto a una misera comparsa. Sormani siglò il terzo gol, mentre Prati completò la sua memorabile tripletta. Così, il Milan e il Paròn Rocco si incoronarono nuovamente campioni d’Europa, confermando ancora una volta che il catenaccio non era solo una tattica, ma la quintessenza di un’epoca. Il Paròn aveva raggiunto l’apice della sua carriera, e il Milan, con la sua implacabile difesa, aveva scritto una nuova pagina di storia calcistica.
Gli ultimi scampoli di carriera e di vita
Rocco guidò il Milan fino al 1973, impreziosendo la sua carriera con una Coppa Intercontinentale nel 1969, una Coppa Italia e una Coppa delle Coppe. Tuttavia, il trionfo sull’Ajax rimane il vero gioiello del suo palmarès. Quando, al termine della stagione 1972-73, il Paròn lasciò il Milan per accogliere la proposta della Fiorentina, i suoi metodi non trovarono terreno fertile a Firenze. La sua fame di calcio, un tempo insaziabile, iniziò a affievolirsi.
Rocco fece ritorno a Milano nel 1977, questa volta con il titolo di Direttore Tecnico, consolidando il suo nome tra i giganti del calcio. Già inciso nei libri di storia per il suo ruolo di prim’attore, il Paròn vanta il record di essere l’allenatore più longevo nella gloriosa annata rossonera, avendo diretto la squadra in ben 323 incontri. Rocco morì a Trieste, la sua città natale, nel 1979, all’età di 66 anni. La cirrosi epatica, comparsa in età non particolarmente avanzata, fece calare il sipario sulla sua carriera e la sua vita. Le lunghe notti trascorse tra riflessioni tattiche e ricordi di battaglie sul campo rappresentano il ritratto di un uomo che ha vissuto intensamente ogni sfumatura del calcio, lasciando un’eredità immortale nel mondo del pallone.
Rocco aveva vissuto una vita densa di esperienze – esattamente come desiderava – transitando dalla sua Trieste natale fino a Napoli, città che accolse la nascita del figlio, per poi attraversare Torino e Padova, prima di consacrarsi a Milano. I suoi trionfi e i suoi fallimenti, sempre in equilibrio, hanno avuto un peso equivalente nella sua esistenza, contribuendo in misura pari ai suoi maggiori successi come allenatore. Con uno stadio a lui intitolato nella città natale, l’eredità del Paròn continua a infiammare e coinvolgere gli appassionati di calcio di tutto il mondo, rivelandosi un faro luminoso nella storia del calcio.
Nereo Rocco, da re indiscusso del catenaccio a pioniere di un calcio italiano che ha brillato a livello europeo, non può che essere ricordato come un autentico maestro di questo sport. Il suo approccio tattico, che ha trasformato il modo di difendere e ha consacrato l’arte del “libero” come simbolo di efficacia, non è solo una strategia, ma una lezione di calcio che continua a influenzare il gioco. Rocco non è stato solo un allenatore, ma un visionario che ha scritto pagine indelebili nella storia del calcio, rivelando che, dietro ogni successo, c’è sempre una mente che sa come coniugare l’arte della difesa con quella della gloria.
BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.
Una risposta
Ancora i miei complimenti Vincenzo per la minuziosa stesura della seconda parte dedicata al grande Paron.
La sua prematura morte lo privo’ per soli tre mesi di poter assistere alla conquista della prima stella del Milan.
Purtroppo il suo declino fisico avvenne subito dopo l’ottavo di finale di ritorno di Coppa Uefa al Maine Road perso contro il Manchester City in una gelida notte anglosassone che lo vide sbracciarsi e sgolarsi in panchina dopo uno speranzoso pareggio della gara di andata.
L’inizio della broncopolmonite contratta unitamente ad uno stato fisico precario ci privera’ di uno dei più grandi allenatori della storia del calcio.
Un caro saluto.
Massimo 48