CALCIO USA, DAI PROCLAMI FALLITI ALLA STELLA PULISIC

Ah, gli USA, il Paese delle opportunità infinite, della megalomania e dei sogni senza fine. Dopo USA ’94, si alzò un coro unanime, un proclama roboante, un urlo di sfida al mondo intero: “Tra 20-25 anni saremo tra i migliori nel calcio!” Ah, sì, certo. Come no. Come se il calcio fosse un’altra impresa da conquistare, da strappare alla storia con la prepotenza di un mercato onnivoro, che tutto ingloba e nulla digerisce.

Eppure, eccoci qui, vent’anni, anzi trenta anni dopo. Il calcio americano non è diventato la potenza annunciata, non è esploso nel firmamento calcistico come l’ennesima supernova made in USA. No, il soccer, come lo chiamano, è rimasto un affare di nicchia, una passione secondaria, uno sport che, nonostante la retorica e gli investimenti, non è riuscito a solcare davvero i grandi palcoscenici del mondo. La storia del calcio americano, un affresco incompiuto, si svela in tutta la sua ingenuità e potenza durante il Mondiale di USA ’94.

I protagonisti del Mondiale casalingo

In quell’estate americana, il mondo intero scoprì un gruppo di uomini che, con la loro autenticità e forza d’animo, incarnarono un’idea di calcio quasi primitiva, libera dalle sofisticazioni tattiche e dalle manie di grandezza delle potenze calcistiche.

Alexi Lalas, con la sua chioma di fuoco e il suo aspetto da guerriero celtico, divenne l’icona di quella nazionale. Un personaggio in bilico tra l’eroismo e la provocazione. Non era solo un difensore ruvido e implacabile; era un simbolo, un volto che sembrava provenire da un altro tempo, da una dimensione in cui il calcio era ancora un gioco di strada, una sfida tra amici su campi polverosi. Lalas rappresentava la ribellione contro l’ordine precostituito, un rifiuto estetico e culturale delle convenzioni. Era il manifesto vivente di un calcio che non aveva ancora ceduto alla mercificazione.

Accanto a lui, c’erano figure come Tony Meola, il portiere che sembrava un attore hollywoodiano prestato al calcio, con la sua presenza scenica e i suoi riflessi felini. L’estremo difensore di origini italiane divenne il baluardo di una squadra che, pur consapevole dei propri limiti tecnici, si aggrappava a ogni occasione per dimostrare di poter competere con i giganti del calcio mondiale.

Poi c’era Eric Wynalda, l’attaccante che, con il suo gol contro la Svizzera, accese una speranza mai sopita. Wynalda non era un genio del pallone, ma incarnava quella tenacia e quella voglia di emergere che rendevano gli americani un avversario temibile. Non cercava il colpo di classe, ma l’efficacia, la concretezza di chi sa che ogni opportunità potrebbe essere l’ultima.

Tab Ramos e John Harkes, con il loro calcio più raffinato, portarono una nota di poesia in una squadra altrimenti caratterizzata dalla forza e dalla resistenza. Ramos, in particolare, era l’artista della squadra, il creatore di gioco che dava respiro e ritmo alle azioni, cercando di domare l’impetuosità dei compagni con la sua visione di gioco e la sua eleganza nei passaggi. Come dimenticare la gomitata presa dal “nostro” Leonardo.

Infine, c’è il ricordo di Paul Caligiuri, l’uomo che con il suo gol contro Trinidad e Tobago aveva portato quattro anni prima, gli Stati Uniti al Mondiale dopo decenni di assenza. Caligiuri rappresentava il sacrificio, la dedizione, l’idea che il calcio potesse essere una missione, un percorso da intraprendere con disciplina e abnegazione. Quei calciatori si sono fatti ricordare, rimanendo impressi nella memoria collettiva come protagonisti di un’epopea rivelatasi irripetibile, a dispetto dei suddetti proclami.

Un cammino senza seguito

Christian Pulisic è la grande speranza, il golden boy, l’eccezione che conferma la regola. Uno dei pochi, pochissimi, ad aver toccato con mano quei traguardi che gli altri, là, nella terra dei fast food e delle partite di football, continuano a guardare attraverso uno schermo. Ma è abbastanza? È sufficiente per rivendicare quel trono che si credevano destinati a conquistare?

Il calcio è ben altra cosa, altro mondo, altra dimensione. Non si piega alla volontà del più forte, non si compra con i dollari, non si adatta ai capricci di chi vuole tutto e subito. Ah, il calcio è tradizione, è sofferenza, è poesia, è un’arte che sfugge alle mani di chi crede di poterla afferrare con la forza del denaro.

E così, gli americani, il loro “faremo, disfaremo”, sono rimasti ai margini. Con una Major League Soccer che sì, cresce, certo, ma non brilla, non incanta. Con squadre che ospitano le vecchie glorie europee e sudamericane (incluso un Messi al crepuscolo) più per fare cassa che per costruire qualcosa di duraturo. Con un pubblico che ancora preferisce il ruggito del football, l’adrenalina del basket, la velocità del baseball.

Ah, gli americani! Dove sono finiti i loro proclami? Dove sono i loro grandi campioni, le loro squadre temibili? Tra i migliori? No, miei cari. Non basta un Pulisic a scrivere la storia. Non basta un talento, per quanto fulgido, a ribaltare la realtà dei fatti.

Ecco il paradosso: nella loro febbrile corsa alla gloria, si sono dimenticati che il calcio, quello vero, non si conquista con gli annunci, ma con l’anima. E l’anima del calcio, quella, gli americani non l’hanno mai davvero capita.

Tra meteore e calciatori forti ma non eccelsi

Dopo USA ’94, si sognava una rivoluzione, un cataclisma calcistico che avrebbe dovuto spezzare le catene della mediocrità. Invece, ci siamo trovati di fronte a un teatro dell’assurdo, dove i protagonisti sono apparsi e scomparsi come meteore, illuminando brevemente un cielo che è rimasto irrimediabilmente buio.

Freddy Adu, un nome che oggi suona come un’eco lontana, il ragazzino prodigio che doveva cambiare tutto, che doveva trasformare l’America in una superpotenza calcistica. Una stella, ci dicevano, destinata a brillare per anni. Ma quella stella si è spenta prima ancora di riscaldare la terra fredda del suo paese. Un talento sprecato, o forse mai esistito, intrappolato in una spirale di illusioni e disillusioni.

E poi Jozy Altidore, il “nuovo Drogba”, ci dissero. Un’ipotesi tanto ridicola quanto tragica. Potente sì, ma impalpabile, un gigante dai piedi d’argilla che non ha mai saputo reggere il peso delle aspettative. Altidore, altro nome scritto nella sabbia, lavato via dalle onde del tempo.

Ma non tutti sono stati semplici meteore. Donovan e Dempsey, i due pilastri di una generazione che ha provato a riscattare un destino segnato. Bravi, certo, ottimi calciatori, ma campioni? No, la parola “campione” ha un altro sapore, un’altra risonanza. Donovan e Dempsey hanno portato l’America su un palco internazionale, ma il loro passo è stato quello di attori in un’opera minore, protagonisti in un dramma che non ha mai avuto un vero climax. Tantissime presenze in Premier per il secondo, qualche comparsata in Bundesliga per il primo, ma poca ribalta internazionale.

Pulisic, the best is yet to come?

“The best is yet to come”, “Il meglio deve ancora venire”, recitava il celeberrimo Frank Sinatra. Pulisic è probabilmente il miglior prodotto calcistico che gli Stati Uniti abbiano mai visto, un ragazzo capace di dribblare, segnare, creare. Ma siamo onesti: nemmeno lui è un fenomeno, non uno di quelli che cambiano la storia del gioco, non uno di quelli che fanno sognare le folle con un tocco di palla. No, Pulisic è un buon giocatore, forse un ottimo giocatore. Ma il calcio americano continua a cercare, invano, quel messia che, forse, non arriverà mai. L’ex Chelsea è uno dei migliori calciatori di questo campionato, ma nel Milan di Ancelotti sarebbe stato un semplice subalterno.

Qui si apre un varco, si dilata il tempo. Paulo Fonseca, nuovo demiurgo di San Siro, è chiamato a svelare il vero volto di Pulisic, quell’essenza che ancora sfugge a noi poveri mortali. Trequartista, dite voi? Sì, ma non solo! Non è semplicemente un uomo tra le linee, no. Pulisic è lo spazio stesso che si piega e si dilata, che si contorce e si snoda, trasformando ogni respiro in un nuovo orizzonte di possibilità. Fonseca, con il suo piglio moderno, con la sua mano leggera ma decisa, deve cucire addosso a Pulisic un abito di pura follia calcistica. Deve esplodere, deve farsi lampo, fuoco fatuo, pura energia che trascende la partita, che la trasfigura in un’opera d’arte.

Non aspettatevi, dunque, quel Pulisic che avete visto in Premier League, ridotto a semplice pedina di un gioco che non era mai il suo. Fonseca sembra aver compreso che per far emergere il vero Pulisic, bisogna offrirgli un palcoscenico dove possa danzare liberamente, inventare, sbagliare e creare. Aspettatevi un Dioniso calcistico, che danza sul filo del rasoio, che si diverte a sfidare il caos, a crearne di nuovo. Fonseca, tu che hai l’arduo compito di plasmare questa creatura di pura poesia, devi liberarlo dalle catene del banale, devi lasciarlo volare, alto, oltre il cielo di San Siro. Sia dunque questo il patto: Fonseca, fallo tuo, rendilo un fattore. Noi, umili spettatori, ci accontenteremo di contemplare l’opera, persi nel turbine dell’immenso.

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

Una risposta

  1. Bellissimo articolo con la parola usata come uno strumento musicale. L’America è lontana e lo sport esprime l’anima profonda di un popolo e una nazione, per gli Usa vedo difficilmente scalabili baseball, football americano, pallacanestro e hockey 🏒…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *