LOUIS VAN GAAL E LA POKER FACE

QUANDO UN LEADER DIVENTA UN MAGO

Nel bellissimo film di John Dahl del 1998 “The Rounders”, tradotto in Italia con il titolo “Il giocatore”, Matt Damon si trova a fronteggiare un impenetrabile John Malkovich, entrambi schierati davanti ad un fumoso tavolo di poker.

La storia racconta di un giovane studente universitario che decide di misurare sé stesso con la rappresentazione di tutti i suoi demoni, incarnati da un diabolico mestierante del gioco d’azzardo, un russo avvolto dalla sua tuta da ginnastica e da un’aura d’invincibilità che sbrana i suoi avversari mentre degusta con piacere la sua scatola di biscotti Oreo.

Durante tutte le scene di gioco del film si vive immersi in una tensione costante, più facilmente attribuibile ad una finale olimpica piuttosto che ad una bisca clandestina. Il carisma dei due giocatori è l’alimentatore indiscusso di quest’atmosfera densa, un’intensità sotterranea di un mondo con regole uniche.

Anche nel mondo del calcio capita spesso d’imbattersi in figure incredibilmente potenti in termini di personalità, capaci d’influenzare tutto e tutti.

In questi giorni la sottile intelligenza di Zvonimir Boban ha messo in dubbio le premesse del ruolo ricoperto da Ibrahimovic al Milan, interrogandosi su quanto abbiano inciso il volume carismatico del campione svedese nell’investitura di un ruolo obbligatoriamente vincolato a competenze specifiche.

Ma è sempre così facile valutare quanto incida la preparazione e quanto semplicemente le caratteristiche umane?

Potremmo partire facendoci aiutare dalla definizione di leadership data nel 2001 da Northhouse, che la descrisse come il processo attraverso cui un individuo può influenzare un gruppo di persone nel raggiungimento di un obbiettivo comune, stimolando la motivazione e la collaborazione reciproca. Gli studi derivanti da questa definizione hanno definito caratteristiche da cui un leader non può prescindere, passaggi obbligati nel definire strumenti funzionali a far muovere il gruppo nella direzione migliore.

Proviamo a soffermarci un attimo su quest’ultimo elemento, cioè il grado di adesione di una squadra, il modo in cui essa decide di seguire o meno il suo leader. Ciò può diventare lo specchio più rivelatore per qualsiasi allenatore, osservare il modo in cui i suoi ragazzi lo guardano è il modo in cui lui stesso dovrà riconoscersi.

Nei mondiali del 2014 in Brasile l’Olanda arrivò ai quarti di finale contro il Costarica, dopo un percorso positivo ma non esaltante, illuminato soprattutto da uno dei più bei goal della storia dei mondiali di calcio segnato dal suo attaccante Robin Van Persie.

Ma quella partita divenne uno di quei momenti-sottosopra che agli dèi del calcio piacciono tanto.

I colleghi dell’Olimpo erano soliti castigare quello che chiamavano Ubris, una sorta di arroganza di cui s’impossessavano gli esseri umani per osare sfidare il loro potere, cosa che ovviamente li esponeva ai più dolorosi supplizi (chiedere a Sisifo, Icaro, Tantalo etc etc).

In quella notte sudamericana di dieci anni fa i giocatori costaricensi si ritrovarono ad un passo dalla gloria eterna, vicino alla semifinale di un campionato mondiale di calcio per una nazione che, fino a quel momento, aveva sempre considerato un successo la semplice qualificazione alla fase finale.

Ma da quella partita non si sarebbero portati via, almeno nell’immediato, alcuna traccia di gloria, nessuna sconfitta onorevole, solo la sensazione di aver osato guardare troppo in alto e, per questo, essere stati puniti con la più crudele delle sconfitte.

Sulla panchina dell’Olanda si espandeva la figura mitologica di Luis Van Gaal, un totem capace di lasciare il segno ovunque sia andato, nella buona e nella cattiva sorte.

I cugini belgi, nella persona del fumettista Morris, molti anni prima avevano dato vita al personaggio di un cowboy silenzioso quanto letale, il fantastico Lucky Luke, rappresentato da un volto che ricordava incredibilmente l’inespressività di Van Gaal, un verticale immobilismo facciale.

Ma come ci spieghiamo allora il fatto che Van Persie, dopo il suo splendido goal in tuffo, sia andato a cercare nell’esultanza proprio il suo imperturbabile allenatore, trovando invece un plateale scambio di “cinque”?

Siamo davanti al cliché del duro dal cuore tenero? Il sergente di ferro con l’animo dolce?

Forse, ma quello che ci viene consegnato è il monito più importante per qualsiasi leader, cioè la possibilità di non precludersi alcuna possibilità! La disponibilità, se il caso lo richiede, di poter rinnegare anche alcuni dei dogmi comportamentali o emotivi su cui abbiamo costruito la nostra figura.

Nel 1985 prima di Gara 2 il grandissimo coach dei L.A Lakers, Pat Riley, demolì una sua regola ferrea secondo cui solamente i membri della squadra potevano salire sul bus, concedendo ad un affranto Abdul Jabbar di poter portare con sé suo padre.

Risultato: Kareem lo ripagò con una partita da urlo contro gli odiatissimi Celtics al Boston Garden, trascinando i Lakers con una prestazione eroica da 30 punti, 17 rimbalzi, 8 assist e 3 stoppate.

Diciamo che un leader forte può arrivare ad esercitare la sua leadership anche fino a poter rinnegare sé stesso e i suoi modelli.

La capacità di essere irriverente rispetto alle sue certezze creerà il paradosso della sua conferma.

Il 6 luglio 2014, durante il quarto di finale tra la sua Olanda ed il Costarica, Luis Van Gaal fece l’esatto contrario, vinse puntando tutto su sé stesso!

La partita stava ormai scivolando verso i supplementari e, come succede in alcuni di questi incontri, si percepiva una subliminale accettazione della risoluzione finale attraverso i rigori, un patto non scritto di comune accortezza piuttosto che di reciproca belligeranza.

Le cose andarono effettivamente così, le due squadre barattarono quei trenta minuti di relativa quiete per i successivi di assoluta tensione.

Tutto secondo copione tranne una cosa…

Nei minuti finali del secondo tempo supplementare davanti alla panchina olandese cominciò a scaldarsi il secondo portiere, Tim Krull, giocatore del Newcastle.

Il fatto fu di per sé inconsueto ma apparentemente semplice da decifrare: Van Gaal ha deciso di mettere uno specialista, il così detto “para-rigori”.

Tutto lineare quindi?

Assolutamente no!

Nel 2014 si era già ampiamente nell’era degli assistenti con i tablet, delle statistiche come stelle polari, perciò recuperare il fatto che Krull non fosse uno specialista (il terzo portiere Vorm aveva statistiche decisamente superiori alle sue)non  avrebbe dovuto rappresentare un ostacolo.

Nonostante ciò, il suo riscaldamento e il successivo ingresso in campo cominciarono a diventare l’epicentro della partita, l’aspettativa lievitò in maniera spropositata, proprio come lo chef Luis aveva previsto.

A distanza di anni Krull stesso racconterà come tutto fosse stato definito nella preparazione della partita, il fatto che lui sapesse già che sarebbe entrato, nel caso di finale ai rigori, in qualità di supposto specialista.

Il suo riscaldarsi ancora seduto in panchina, perciò, suscitò la curiosità anche dei compagni seduti vicino a lui, ignari di tutto, soprattutto del fatto di essere diventati complici involontari di un grande bluff.

Krull entrò in campo completamente calato nel ruolo, in pochi minuti aveva già convinto tutti del fatto che lui fosse lì per un motivo ben preciso!

Anche quando il primo rigore del Costarica s’insaccò alla sua sinistra lui mantenne la maschera, calciando con forza il palo per rimarcare come non fosse normale per lui subire un goal su rigore.

Il proseguo fu un tripudio di strategia, tra il disturbante e l’irritante, trash talking per il povero Bryan Ruiz, colpevole di parlare un po’ di olandese, con perdite di tempo inverosimili (Krull cominciò a riscaldarsi sul vertice dell’area!) per indurre Michael Umana all’ultimo fatale errore.

Tutto come previsto da qualcuno che, evidentemente, riusciva a vedere qualcosa che a noi è precluso.

L’elemento che ha cambiato il destino di quell partita non è stato chiedersi se Krull fosse o meno uno specialista, ma dare per scontato che un allenatore con la carriera di Van Gaal avesse fatto quella mossa perché ne fosse assolutamente certo.

Nella fantastica partita finale del film il “Giocatore” Matt Damon ci dice che “non puoi perdere quello che non metti nel piatto…ma non puoi neanche vincere!”.

Probabilmente Van Gaal in quella scelta si è affidato a qualcosa di più indefinibile, di meno rassicurante delle statistiche o di competenze apprese, ma sul piatto ha messo la posta più alta, tutto sé stesso.

6 risposte

    1. Grazie mille per le belle parole!
      Anche se penso che lei sia un po’ di parte…diciamo che, probabilmente, il fatto di essere mio padre la condiziona un pochino…

    1. Grazie mille Massimo, contento che ti sia piaciuto!
      La difficoltà con personalità così importanti è ricche è sempre quella di non scivolare nel giudizio.
      Ci sono anche grandissimi giocatori che hanno avuto un pessimo rapporto con Van Gaal, criticandolo aspramente, ma diciamo che loro si sono conquistati quel “privilegio “ sul campo.

  1. “Ci fece allenare anche la mattina dopo aver vinto la Champions, perché nella sua programmazione 9 mesi prima aveva deciso così”.

    Marc Overmars

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