INTER – MILAN 1-2: MATTEO GABBIA RIDONA IL SORRISO AI MILANISTI

“La poesia può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza – che esso possa un qualche giorno e da qualche parte essere sospinto su una spiaggia, alla spiaggia del cuore, magari. Le poesie sono anche in questo senso in cammino: esse hanno una meta”. Questo disse Paul Celan, ispirandosi al poeta dissidente, Osip Mandelstam.

Senza voler contaminare di prosaico le alte parole di Celan, il senso risuona profondo da ieri sera, almeno se si è tifosi del Milan, pensando agli enjambement, palla al piede, di Christian Pulisic, con la tecnica impeccabile – ah, se ci fossero undici Christian Pulisic in rosa – che gli consente, appunto, di segmentare i versi, di rompere l’ostruzione della facile retorica opponente, fino alla fissione nucleare del gesto atletico e poetico: il piede e il pallone si caricano di forza cinetica, esplodono e si respingono proprio nel momento esatto in cui fenomeno e noumeno paiono, in barba alla filosofia platonica, divenire la stessa cosa.

È stato gol, certo, un gran bel gol, ma è anche la nostra storia, una storia che dobbiamo faticare per riprenderci: ieri abbiamo assistito a un piccolo, e speriamo significativo, duraturo passo. È la storia del Milan che si intreccia con quella di Kylian Mbappé: ospite dai vicini di origini italiane, il futuro campione scopre i colori rossoneri e, chissà, forse comincia a raccontare agli amici di una squadra di Milano che aveva dei giocatori coi nomi che sembrano l’inizio di una filastrocca, Gre-No-Li. O magari raccontava in giro del mito classico del cigno di cristallo: nel pieno del suo splendore prometeico, suscita l’invidia degli dei che lo fanno andare in mille pezzi. Ma il vero incantesimo è un altro, perché dai frammenti del titano olandese nasce un campo sterminato di tulipani e di sogni a occhi aperti, leggiadri quanto lui, da ricordare e da tramandare di generazione in generazione. Ecco, sì, l’incantesimo era dato dalla leggenda in sé stessa, che si può al massimo incrinare, ma non andrà mai distrutta, mai, perché si nutre della propria essenza, come l’uroboro; è la storia dell’uomo volante, Armand Duplantis, ieri a San Siro a vedere il “suo” Milan, oppure del ragazzino di  Budapest, Dominik Szoboszlai, che dalla nonna ha ricevuto il più desiderato dei doni: poter incontrare Paolo Maldini e fare con lui una foto da appendere al muro della cameretta. “Sono milanista, lo sanno tutti i miei amici”, ha detto mercoledì scorso l’ottimo centrocampista del Liverpool, mentre indossava, a fine partita, i nostri colori, che sono ovviamente anche i suoi (almeno idealmente), perché sono di tutti quelli che li amano.

Al di là del tifo: credo che neppure il Real Madrid, ovvero la più gloriosa e vincente tra le squadre europee, sia riuscita a rappresentare così bene la “labilità permanente” – concetto senza dubbio un po’ surrealista, ma calzante – della memoria calcistica. Ogni ricordo si dissolve in altri mille ricordi e si carica del realismo magico che lo scorrere del tempo, quando è un “buon” tempo, talvolta ci regala: per vittorie vissute e per vittorie che ci sarebbe piaciuto vivere, ma che sono state tramandate, nel modo in cui si portano i racconti epici, “tra l’ombra e l’anima”, citando Neruda. E per vittorie – o anche per belle sconfitte – che, se avremo fortuna, potremo raccontare, lasciare a chi tiferà dopo di noi.

E poi c’è Matteo Gabbia, l’uomo del match, come si usa dire ultimamente, ma in realtà molto di più, perché questo ragazzo alto, slanciato, di poche, ma sempre sensate, parole, sembra l’eroe comune di un racconto di Osvaldo Soriano, un vincente che è stato narrato – ma sapete che c’è? La mitopoiesi passa anche attraverso le storie sbilenche, anzi, passa soprattutto attraverso la stortezza – come un perdente “vestito con i panni del sogno”.

Mandato in prestito al Villareal, Matteo, milanista fin da bambino, deve tornare in fretta e furia a causa della quantità ingestibile degli infortuni della scorsa annata: e lui torna, ragazzo di terra e di concretezza – si parva licet, per carità, un po’ come Baresi, il poeta, secondo il sentire Werner Herzog, mica uno qualunque – con pochi grilli per la testa e tanti progetti da realizzare. Torna però, nella percezione generale, come un esule malvoluto. Eppure da subito dimostra attaccamento alla maglia, precisione, e dedizione: se ieri si è involato, sullo scadere dei novanta minuti, tanto da raggiungere altezze che gli avversari, attoniti, non potevano neppure immaginare, è giusto per ricordarci che tra la vita e il calcio, tra un uomo normale e il supereroe di un derby che ormai non pensavamo di riuscire a vincere passa una linea sottilissima.

Non il talento puro, non la benedizione divina per un piede a cui la palla resta avvinghiata come il serpente ai figli di Laocoonte: la costanza, l’impegno, la dedizione e l’attaccamento a cui accennavo in precedenza. Per certi versi, l’eroe sta tutto lì e Arrigo Sacchi, infatti, ama ripeterlo, citando Romain Rolland ed evidenziando in questo modo come il fuoriclasse e il gregario siano fatti, a ben guardare, della stessa sostanza: “eroe è colui che fa ciò che può”. Senza il supporto di Samvise Gamgee, Sauron avrebbe l’anello e tocca al paladino Astolfo il compito ingrato di andare sulla luna, a bordo dell’ippogrifo, per riprendere il senno perduto di Orlando.

A proposito di attaccamento: ieri sera Matteo Gabbia ha festeggiato su Instagram il gol e la vittoria. Uno dei primi commenti visibili è quello di Yacine Adli che scrive: “grazie, campione”. Al che, Alessandro Florenzi risponde con un “mi manchi”. Manca a tutti, ma ci si augura che, come cantava, meravigliosamente, Sam Cooke, a change gon’ come, oh yes it will.

Ci si augura un cambiamento che possa partire proprio dalla convincente prestazione da ieri sera: non deve restare un unicum, questo è chiaro. Sono abbastanza convinta che, al di là del risultato tragico, Fonseca ci avesse provato anche contro il Liverpool (che però è una squadra molto più imprevedibile e questo è un elemento da considerare). Quel 1-4-2-4, che lasciava una voragine a centrocampo, di fatto incapace di reggere gli assalti avversari come pure di impostare il gioco offensivo, doveva verosimilmente essere un 1-4-4-2 che però non aveva trovato gli interpreti adatti in Pulisic e Leão, troppo poco portati per la copertura. Era, come spesso accade e come è normale che accada, anche se parlare oggigiorno di schemi, come se fossero dei monoliti impenetrabili, è quantomeno obsoleto, una prova tattica da perfezionare. Ieri sera invece ha funzionato, complice una Inter probabilmente stanca, un po’ appannata e in difficoltà anche per ciò che riguarda gli automatismi acquisiti dalla squadra di Simone Inzaghi (blocco difensivo chiuso e progressione rapida in tre passaggi). Fatto sta che l’americano era in stato di grazia, ma mi sento di comprendere anche un certo smarrimento da parte di Rafa che, è vero, non ha “sgroppato” e tira con davvero troppo poca precisione, ma ha saputo mantenere la posizione e ha dato, pur senza offrire un aiuto consistente in fase difensiva, quella compattezza di uomini che l’allenatore ricercava. Si è mosso, coi suoi limiti, che ancora ci sono, come parte di una squadra: conta, a volte, più della soluzione grandiosa e personale.

Ha funzionato anche Morata, punta di sostegno alla punta principale, Tammy Abraham, e capace di garantire una dimensione di cinghia mobile tra centrocampo e attacco.

A dire il vero ieri ha funzionato quasi tutto e, nonostante la telecronaca provasse a convincerci di momenti di profonda difficoltà rossonera, il risultato ci sta persino stretto, considerando le varie opportunità sfumate e che il gol di Dimarco arriva soprattutto per una svista di Emerson Royal che corre verso la palla, già presidiata, dimenticandosi la marcatura! Poco male: ce lo teniamo così.

Allora, tutto a posto? Be’, non proprio, perché è bene che sia chiaro che i meriti stanno tutti entro il perimetro verde: Fonseca, apprezzabile per la tenuta mentale in una situazione non facile, e i ragazzi che ci hanno ci provato e creduto, nonostante le statistiche e il solito svolazzo degli avvoltoi.

Siamo d’accordo, nella deperita società dello spettacolo guydebordiana, che tutto ingloba, anche il nostro amato calcio, l’economia non è mezzo, ma fine ultimo: non importa “cosa” e “come”, ma importa tantissimo “quanto”. E dal punto di vista del “quanto”, il Milan sta benone. Sta male tuttavia, e ogni tifoso, in base al grado di consapevolezza (di classe?) che possiede, lo sa, per il cosa e, soprattutto, per il come.

Perché, da tifosa, spero di non dover più essere costretta a sentire dichiarazioni su leoni e micini, o autoesaltazioni superomistiche che non vanno bene neppure come battute, non in una fase delicata come quella che la squadra sta affrontando. Spero di non dover più leggere, tra la cronaca e il gossip becero, di colloqui con i giocatori, tenuti, esautorando il mister. Perché questo fa male al Milan e ciò a prescindere da accordi e contratti. Sono finiti, e Ibrahimovic – e gli altri con lui – deve capirlo, i tempi della “sboronaggine” come cifra stilistica di un personaggio, finiti i tempi in cui il carattere viene confuso con la prepotenza e la sicurezza di sé con la presunzione. Sono finiti e per fortuna che lo sono.

Ieri, con una vittoria che ci mancava e ci serviva, una vittoria del tutto meritata, sono cominciati, si spera tanto, i giorni di una rinascita che richiede tempo, fiducia comune nel progetto, ancora tutto da ripensare, e volontà di lavorare insieme per il bene del collettivo. I personalismi e i casting degli allenatori (sic), alla vigilia di una partita importante, devono diventare, il prima possibile, facciamo oggi stesso, il lascito di una gestione imprudente e inelegante, così poco… da Milan. Chi ci sta, è ben accetto, gli altri, per quanto mi riguarda, possono andare. Il calcio che ci piace è quello che si ferma, ad Anfield, per onorare la memoria di un giovane tifoso dell’Everton, morto mentre lavorava per costruire lo stadio della sua squadra del cuore, non quello che assomiglia a un reality televisivo di terz’ordine.

A buon intenditor, poche parole.

INTER (1-3-5-2): Sommer; Pavard, Acerbi, Bastoni (dall’82’, Carlos Augusto); Dumfries (dal 63’, Darmian), Barella (dal 74’, Zieliński), Çalhanoğlu (dal 63’, Asllani), Mkhitaryan (dal 63’, Frattesi), Dimarco; Lautaro Martinez, Thuram. Allenatore: Simone Inzaghi.

MILAN (1-4-4-2): Maignan; Emerson Royal, Tomori, Gabbia, Theo Hernandez; Pulisic (dal 78’, Okafor), Fofana, Reijnders, Leão (dall’87’, Chukwueze); Morata (dal 78’, Loftus-Cheek), Abraham (dal 92’, Pavlović). Allenatore: Paulo Fonseca

BIO Ilaria Mainardi:

Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita. 

Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema. 

Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.

Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!

4 risposte

  1. L’incipit anche in questo articolo è impreziosito con metafore storico letterarie perfettamente calzanti con l’impresa realizzata dal Diavolo nella serata in cui de profundis e valigie già pronte al deposito bagagli avrebbero riempito i cliché delle prime pagine dei tabloid sportivi in attesa di essere sfornati e gridare al popolo dei tifosi: ” E son 7!” Chapeau Ilaria!! Così non è stato!
    Ed il nome di Paulo Fonseca, il cui destino solo un giorno prima era molto simile a quello di un certo Amatore Scesa, diviene grazie alla magia di Matteo Gabbia, quello di un Enrico Toti, un altro eroe che vinse prima di spirare lanciando la sua stampella contro il nemico….ma la guerra calcistica, per noi tifosi rossoneri, è appena iniziata… dunque barra dritta e pedalare!

    Massimo 48

    1. Grazie mille, Massimo, delle tue sempre attente letture e degli spunti che offri. Hai proprio ragione: it’s just the beginning. Ora occorre consolidare un progetto che fino a ieri sembrava sull’orlo del fallimento perché ci serve una fiammella costante e in divenire, non un fuoco fatuo.

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