Il numero 7 ha tanti significati: è il numero dei vizi capitali e delle virtù. E’ il numero dei colori dell’arcobaleno, dei pianeti, dei mari, dei colli di Roma. Sette sono anche le note musicali, i chakra, le meraviglie del Mondo. E nel calcio? Quando la numerazione delle maglie andava da 1 a 11, il “7” era l’ala destra.
A Manchester, sponda United, il “7” è un numero sacro. Stiamo parlando ovviamente del numero di maglia, un numero che identifica la storia dei Red devils. Non si può scindere questo numero di maglia da chi lo ha indossato nei centoquarantasei anni di storia del club mancuniano. Ma sono soprattutto quattro i giocatori che hanno indossato quel numero e che hanno reso quel numero e la maglia dello United un qualcosa di mistico nella storia del calcio. Un numero ambito, prestigioso ma consapevole che chi lo “prende” non indossa un numero ed una maglia come le altre: la “7” del Manchester United è un’altra cosa. E grazie a giocatori che non giocavano sulla terra ma nello spazio, la “7” dello United è davvero un’altra cosa.
I giocatori in questione sono George Best, Eric Cantona, David Beckham e Cristiano Ronaldo. Ed ogni volta che si pensa a quella squadra e a quel numero di maglia, subito si pensa a questi quattro giocatori. Un numero pesante, quasi ingombrante perché quei quattro giocatori hanno contribuito a fare grande la squadra “rossa” di Manchester che gioca ad Old Trafford, il “teatro dei sogni”. In quattro hanno giocato 1.223 partite, segnato 422 reti totali e hanno portato lo United a vincere sedici titoli nazionali, tre Champions League, una Coppa Intercontinentale e, a livello personale, hanno vinto due Palloni d’oro (Best nel 1968 e Ronaldo nel 2008), due secondi posti (Beckham nel 1999 dietro a Rivaldo, Ronaldo nel 2007 dietro a Kakà) e due terzi posti (Cantona nel 1993 e ancora con “Best the Best” nel 1971) nel premio annuale di France Football.
George Best (1963-1974)
Colui che ha reso, già tra gli anni Sessanta e Settanta, la maglia numero 7 del Manchester United la maglia per antonomasia è stato, senza ombra di dubbio, George Best.
Nativo di Belfast (Irlanda del Nord), Best ha legato il suo destino calcistico alla squadra di Manchester che è diventata la prima squadra inglese a vincere la Coppa dei Campioni. Era uno United molto forte con Law, Charlton, Foulkes in campo e guidati in panchina da Matt Busby.
Giocatore fuori dalle righe, bizzoso, ingestibile ma che ha riscritto la storia del calcio, George Best ha dato il meglio di sé in campionato ma anche in Europa è stato davvero forte. Un altro livello, un’altra interpretazione del calcio grazie al fatto che lui sui campi di tutta Europa di allora sulla fascia destra non aveva eguali e nessuno gli teneva testa: dribbling all’ennesima potenza e avversari lasciati sul posto, corsa verso l’area, tiro e gol.
A dire il vero, il numero 7 non era il suo numero (allora non c’erano i numeri fissi durante la stagione) e almeno fino al 1966 usava altri numeri, come l’8, il 10 e l’11, tranne il 9 che era di proprietà di Robert Charlton detto “Bobby”. Prima di lui, avevano usato il “7” John Berry (scampato alla tragedia di Monaco dove morirono 23 persone, tra cui otto giocatori dello United e tre dello staff in un incidente aereo tornando da Belgrado) e anche un italiano, quel Carlo Sartori da Caderzone Terme, Trento, che tra il 1968 ed il 1973 giocò con i Red devils, primo italiano ad indossare la maglia del Manchester United.
La sua fama in campo andava a pari passo con il gossip, di cui era il re: decisivo in campo e, nel frattempo, su tutte le riviste patinate al fianco della Miss Universo di turno o bevendo champagne. Una pop star vestita da calciatore ma anche il primo calciatore pop della storia, tanto che il suo nickname più famoso è stato “il quinto Beatle”, un giocatore alternativo che portò il concetto di calciatore ad un altro livello. Ed infatti il suo anno migliore in maglia United fu il 1968, un anno di cambiamenti nel Mondo e lui non poteva esimersi dall’essere uno che ha cambiato le carte in tavola e che ha rivoluzionato il gioco: capocannoniere della First Division, Coppa dei Campioni e Pallone d’oro. A 22 anni, George Best era il miglior calciatore del Mondo. Anzi era…the best.
Era arrivato a Manchester nel 1963 scoperto da Bob Bishop, allora osservatore del club. Lo vide giocare in un torneo e scrisse subito a Busby dicendogli che aveva trovato ciò che serviva al club. Più o meno quel telegramma diceva così: “abbiamo trovato un fenomeno”.
Sono due le partite culto di Best in maglia United, entrambe contro il Benfica: i quarti di finale del 1966 e la finale di Wembley del 29 maggio 1968. Vedere gli highlights di quelle due partite per capire che si parla di un calciatore unico.
L’aura di George Best in maglia United dura fino al 1974, quando già da qualche tempo era l’ombra di sé stesso in campo: ritardo costante in allenamento, scarso impegno durante i training e le partite, testa altrove. La maglia numero 7 passa quindi sulle spalle di Willy Morgan: bravo, ma in comune con Best aveva solo il piede (il sinistro) ed il ruolo e basta: non perché fosse scarso, ma perché Best era unico ed inimitabile.
Aveva altre idee, George Best: il meglio di sé lo aveva già dato. Lasciò Manchester per girare il Mondo indossando maglie di squadre improbabili tra Stati Uniti, Irlanda, Australia e squadre inglesi di Second e Third division, lasciando dietro di sé il consueto detto “se si fosse impegnato di più”. Se non avesse fatto la vita risoluta che ha fatto (celebre la frase che tutti gli attribuiscono ma che non ha mai detto: “ho speso tutti i soldi in macchine veloci, alcool, donne ed il resto l’ho sperperato”) chissà che giocatore sarebbe stato. Ma grazie al ciò che ha fatto in campo se da allora la numero 7 del ManUnited è…la numero 7 del ManUnited.
Eric Cantona (1992-1997)
La stagione 1991/1992 è stata uno spartiacque nella storia del calcio inglese: è stata l’ultima edizione (la 93ma) della First division, la massima serie inglese, che avrebbe lasciato spazio alla sua erede, la Premier League. A vincere l’ultima “First” è stato il Leeds United di coach Howard Wilkinson. Quello è stato il terzo (e finora ultimo) titolo del club del West Yorkshire. A guidare l’attacco della squadra dei “pavoni”, un ragazzo nato a Marsiglia figlio di un francese di origine sarda e di una catalana. Si chiamava Eric Cantona, aveva 26 anni ed era un tipo fuori dagli schemi, dalle regole ma con una tecnica ed una forza fuori dal comune.
Lo United nell’ultima “First” arrivò secondo a quattro punti dal Leeds United e non vinceva il titolo da 26 anni, dall’anno dopo la nascita di Cantona. Dalla vittoria della Coppa dei Campioni del 1968 fino a quel momento, il club aveva vinto qualche coppa domestica, una Coppa delle Coppe ed una Supercoppa europea. Questi erano i primi trofei inglesi dopo l’esclusione dei club di Sua Maestà dalle coppe europee per cinque anni dopo i fatti dell’Heysel.
Alla guida allora dello United, in panchina c’era, da cinque stagioni, Alexander Ferguson detto “Alex”, scozzese di Glasgow e considerato un buon allenatore. Per ripartire, lo United doveva rifarsi il look e per tornare a vincere in Inghilterra ed in Europa doveva diventare cattivo, spregiudicato e trovare un giocatore che li avrebbe condotti alla vittoria. E cosa fecero i Red devils? Tesserarono quell’attaccante del Leeds United figlio di un francese di origine sarda e di una catalana: Eric Cantona.
Dalla stagione 1992/1993 alla 1996/1997, Eric Cantona prese per mano (quasi nel vero senso della parola) lo United e lo portò a vincere quattro Premier League, tre Charity Shields, due Coppe d’Inghilterra, ma nulla in Europa (la migliore posizione fu la semifinale di Champions League 1996/1997 persa contro il Borussia Dortmund).
Cantona diventerà “padrone” della numero 7 con la stagione 1993/1994, quando si decide che da allora, e per tutta la stagione, un giocatore avrebbe avuto quel numero di maglia per tutta la stagione (in Italia ci sarà da attendere la stagione 1995/1996): Cantona si terrà stretto quella maglia (e quel numero) fino alla stagione 1996/1997, la sua ultima non solo ad Old Trafford ma nel mondo del calcio, decidendo di ritirarsi a soli 31 anni.
Fino a quel momento la “7” se la contendeva con Paul Ince, un tranquillo centrocampista di Ilford dal 1989 a Old Trafford e molto rispettato dai tifosi, e con Bryan Robson, dal 1981 a Manchester, capitano del club e primo ad alzare un trofeo europeo (la Coppa delle Coppe 1991) dai tempi della finale di Wembley del 1968.
Rispetto a Best, Cantona è un’altra cosa: è sfrontatezza e arroganza pura. Se per Best, nell’immaginario collettivo, la sua immagine è rappresentata dai capelli lunghi e dalle basette, in Cantona il suo look diventa il suo brand: capello rasato, petto in fuori e colletto alzato. E fascia di capitano al braccio, primo non britannico ad esserlo dal 1878, anno di fondazione della squadra.
In campo era forza, potenza e gol. Grazie a lui tutti iniziarono a scoprire la Premier League e tutti iniziarono a ricordarsi che in Inghilterra c’era anche il Manchester United, per troppi anni una nobile decaduta del calcio inglese ed europeo. L’unico “buco” nelle vittorie fu l’anno in cui Cantona fu squalificato per un’intera stagione: appena tornato, la squadra tornò a vincere.
Il motivo della squalifica se lo ricordano tutti: 25 gennaio 1995, Selhurst Park, 48’ di Crystal Palace-Manchester United. Cantona commette un brutto fallo su un avversario e l’arbitro lo espelle. Deve lasciare il campo e cammina a bordo campo. Un tifoso del Crystal Palace lo apostrofa in maniera poco elegante. Cantona sente l’insulto, lo individua e si scaglia su di lui con un calcio da kung fu. E’ il delirio. Il numero 7 di Marsiglia è squalificato per 9 mesi e condannato, in secondo grado, a 120 ore di lavori socialmente utili e anche il tifoso che lo ha provocato (Matthews Simmons) è condannato per aver provocato il giocatore.
Nel 2001 i tifosi del Manchester United votarono Eric Cantona “Best Manchester United football player ever”. Come è stato possibile che un club così storico e vincente abbia promosso un marsigliese spaccone, irriverente e arrogante come miglior giocatore di sempre del loro club? Eh si, perché i tifosi non possono non amare colui che li ha fatti innamorare per cinque stagioni anche se spaccone, irriverente ed arrogante.
Cantona è stato forte e diventa “uomo immagine” del Manchester United e del calcio inglese che deve togliersi definitivamente le scorie post Heysel. Se Best è “the fifth Beatle” (o “Best the Best”), Cantona diventa “The King”. Con colletto alzato e numero 7 sulla schiena. Grazie a lui, la maglia numero 7 del Manchester United diventa iconica, mistica e pesante da indossare per chi vorrà farlo in futuro.
David Beckham (1992-1994 e 1995-2003)
Il 1992 è un anno di cambiamenti in Inghilterra: bye bye First division, welcome Premier League. E’ lo United a dominarla e lo farà per sei volte fino al 2000 (almeno).
Anche a livello giovanile lo United si fa valere e nella squadra (possiamo dire) “Primavera” dei Red devils si fanno notare dei ragazzi che nel giro di pochi mesi, neanche maggiorenni, entrano in pianta stabile in prima squadra. Quei ragazzi, passati alla storia come “The Class of ‘92”, sono Paul Scholes, Nicky Butt, Ryan Giggs, i fratelli Gary e Phil Neville e…il futuro numero 7 dello United. Questo ragazzo è anche lui un’ala che gioca a tutta fascia, ha un piede destro con un tiro telecomandato ed i compagni sanno che da un suo cross se non nascerà un gol nascerà un’azione da gol. E’ una sentenza.
Questo ragazzo è nato a Leytonstone (sobborgo nord-orientale di Londra) e a Manchester è diventato un grande del calcio inglese, europeo e mondiale. E a contribuire alla sua aura c’è stato quel numero di maglia pesante che si è preso senza tanti fronzoli: se Best era sregolatezza e Cantona arroganza, il loro erede (di maglia) aveva la faccia del bravo ragazzo, quello che tutti i padri vorrebbero avere come genero. Lui era David Beckham e con lui il Manchester United diventa la squadra numero 1 al Mondo per seguito e merchandising venduto.
Beckham si prende la numero 7 nella stagione 1997/1998, subito dopo l’addio di Cantona, lasciando la maglia che ha il numero che nel calcio identifica il campione, la 10, a Teddy Sheringham. Lui si prende la “7”, appartenuta al suo idolo Bryan Robson.
Il 1997 è l’anno in cui tutti conoscono Beckham al di fuori dell’Inghilterra: si fidanza con Victoria Adams, di un anno più anziana (1974 “contro” 1975), di professione cantante della più grande girl band della storia della musica, le Spice Girls. Dopo due anni, i due si sposano. Era il 1999, l’anno in cui Beckham è capitano del club, diventa un calciatore globale ed è l’anno del quadruple dei Red devils: titolo nazionale, FA Cup, Coppa Intercontinentale e, soprattutto, la vittoria della Coppa dei Campioni a Barcellona contro il Bayern Monaco in quella che è considerata la finale più pazza nella storia della competizione. Motivo? I tedeschi passano in vantaggio dopo 5 minuti e dominano la partita fino all’89’, colpendo anche due legni. La partita prende una piega diversa in quel minuto: corner di Beckham, palla a Sheringham e gol dell’1-1. Due minuti dopo, altro corner: dall’altro angolo Beckham calcia in mezzo, la palla è spizzata da Sheringam es arriva a Ole-Gunnar Solskjær che supera Kahn. 1-2 United e Red devils che alzano al Coppa più importante di tutte dopo 31 anni: il 29 maggio 1968 ad alzare la coppa era stato Denis Law, la sera del 26 maggio 1999 l’onore toccava a David Beckham. Nel 1999 Beckham si piazzò al secondo posto nella classifica del Pallone d’oro dietro Rivaldo: era dal 1986 che un giocatore di Sua Maestà non saliva così in alto nel premio di France Football (allora era stato Gary Lineker).
Beckham, capello mechato, diventa un’icona di stile e di moda. Lui e Victoria diventano “Posh & Becks” ed il giocatore diventa una tendenza: lo cercano tutti perché tutti sanno che arricchisce qualsiasi azienda per cui fa l’endorsement. Se Best è “il quinto Beatle” e Cantona “The King”, Beckham è lo “Spice boy”. Grazie anche al matrimonio con la cantante meno dotata (vocalmente) delle Spice Girls, la maglia numero 7 del ManUnited diventa un brand e lo sarà anche in Nazionale: con il numero 7, Beckham “spedisce” la Nazionale dei Tre leoni ai Mondiali di Corea Giappone del 2002 con un gol su punizione al 94’ contro la Grecia. Beckham, testa rasata e fascia di capitano, fa partire un destro al fulmicotone su punizione lasciando fermo il portiere ellenico. Con quel gol, Beckham si riconciliò con i tifosi inglesi dopo la sua espulsione nel match degli ottavi di finale di Francia ’98 contro l’Argentina, subendo le provocazioni di Simeone e lasciando i compagni in inferiorità numerica. Da “dio del calcio inglese” divenne in pochi secondo un reietto per poi tornare a prendersi i galloni di “dio del calcio inglese”.
Lasciò il Manchester United (e la numero 7) dopo una furiosa litigata con Ferguson (con l’allenatore che negli spogliatoi lo colpisce in faccia con una scarpa) per approdare al Real Madrid dei “galacticos”. Lì ebbe la numero 23 perché la “7” laggiù ce l’aveva un mito vivente del calcio blancos come Raul Gonzalez.
Beckham è stato una bandiera del club mancuniano, un’icona di stile, glamour e per la prima volta un calciatore diventava un marketer: tutti volevano pettinarsi come lui (ha cambiato tante acconciature in pochi anni), le case di moda se lo contendono, è cercato dai registri ed è l’idolo sia dei tifosi che delle tifose di tutto il Mondo. E se non avesse fatto il calciatore, poteva sicuramente far parte di una boy band, formazioni musicali allora in voga. George Best non ebbe mai parole dolci nei suoi confronti: “Beckham a parte che non usa il sinistro, a parte che non dribbla nessuno, a parte il fatto che non colpisce di testa, a parte il fatto che spesso durante le partite non si vede, è ok”.
Del resto, non si può piacere a tutti. Anche se proprio tutti amavano Beckham e la sua numero 7 in quegli anni.
Cristiano Ronaldo (2003-2009 e 2021-2022)
Con la cessione di David Beckham, la maglia numero 7 dello United rimane libera; chiunque, se se lo sentiva, poteva prenderla ed indossarla. Ferguson decise nell’estate 2003 che la mitica maglia dei Red devils l’avrebbe indossata il nuovo acquisto estivo del club da 17 milioni di euro. Un ragazzo di 18 anni nato a Madeira, un’isola portoghese nell’Atlantico, che si diceva fosse un predestinato. Si dice che tra lui e “Fergie” nacque un siparietto: lui voleva la maglia numero 28, il numero che aveva allo Sporting Lisbona (la sua squadra) ma Ferguson gli impose la numero 7. Quel giocatore indossò quella maglia fino al termine della stagione 2008/2009, vincendo una FA Cup, una Coppa di Lega, due Community Shield, tre campionati, una Champions League, un Mondiale per club FIFA e, a livello individuale un Pallone d’oro, primo portoghese a vincerlo dai tempi di Eusebio (ed era il 1965). Questo calciatore era Cristiano Ronaldo dos Santos Aveiro, noto come Cristiano Ronaldo. La maglia numero 7 era stata assegnata un giocatore che nei successivi 20 anni (o poco meno) ha scritto la storia del calcio.
Dal punto di vista del marketing (perché a partire dai Novanta, calcio e marketing vanno a braccetto), con Cristiano Ronaldo si toccano cime mai raggiunte: una vera macchina da soldi per lui e per la squadra per cui giocava. Grazie all’imposizione di Ferguson, nacque un nome distintivo: CR7. Ed infatti Ronaldo tra il 2003 ed oggi, solo nella stagione 2009/2010 (il suo primo anno a Madrid aveva la “9”), ha sempre indossato la maglia numero 7 (anche alla Juventus, con Juan Cuadrado, legittimo proprietario di quel numero di maglia, che la cede al nuovo compagno).
A differenza dei tre predecessori con la numero 7 dei Red devils, Ronaldo è più forte, più tecnico, più totale. E proprio con indosso quel numero, CR7 diventa uno dei giocatori più forti della storia del calcio. Con lui in campo, lo United mantenne alta l’asticella sia in patria che in Europa, grazie ad una serie di rose veramente competitive guidate in attacco da quel ragazzo alto, palestrato, di bell’aspetto che con la sua velocità, tecnica e imprevedibilità non lasciava spazio ad avversari e portieri con skills e tricks di ogni genere e reti che si gonfiavano.
Addirittura, Ronaldo ha indossato la maglia numero 7 dello United in due momenti distinti, la seconda a dodici anni di distanza dalla sua ultima partita in maglia Red devils: CR7, con la chiusura del mercato estivo 2021, ha lasciato la Juventus ed è tornato ad indossare la maglia più ambita del club più ambito (anche se non tanto più competitivo come una volta). Per lui un ritorno “a casa” dove la magia era iniziata.
Ronaldo complessivamente a Manchester ha giocato sette stagioni, segnando 145 reti totali e avendo la particolarità di migliorarsi ogni anno, sia come numeri, come giocate e come presenza scenica in campo.
La numero 7 dello United non è per tutti: è ambita, ma è pesante da indossare visto chi l’ha indossata negli anni precedenti, ma Cristiano Ronaldo quel “peso” non lo ha sentito minimamente, anzi sembrava che lo eccitasse ancora di più e sentiva addosso una pressione che sembra piacergli e non gli dava fastidio.
Ronaldo però incarna in sé tutte le caratteristiche dei tre predecessori: sfrontatezza, arroganza, precisione nei lanci e nei tiri. Rispetto a Best, Cantona e Beckham, CR7 è molto meno simpatico, ma a lui non interessa piacere: lui aveva una missione, ovvero riscrivere la storia del calcio. E non ci fu maglia perfetta che la numero 7 del Manchester United.
Las7 bu7 no7 leas7: Bryan Robson (1981-1994)
Dal 1878 a oggi, tantissimi giocatori hanno indossato la maglia del Manchester United e tanti hanno indossato la mitica “seven”. Il primo a dargli un’aura però è stato George Best e dal giorno del suo addio ai Red devils, datato 1974, sono passati cinquant’anni e quel numero vive di luce propria grazie anche agli eredi del talento di Belfast (Cantona, Beckham e Cristiano Ronaldo). Tra i giocatori che meritano una menzione in questa legacy (ovvero un lascito) c’è un giocatore molto amato ancora oggi dalle parti di Old Trafford. Amato e considerato ancora oggi dopo 30 anni che ha lasciato la Manchester “rossa” e votato dagli ex giocatori del club “Best United football player ever”: Bryan Robson.
Arrivato ad Old Trafford nel 1981 grazie al suo mentore Ron Atkinson (neo coach del club), Robson giocò fino al 1994 con i Red devils disputando 465 partite, segnando cento reti e vincendo due titoli nazionali(nelle stagioni 1992/1993 e 1993/1994), riportando il Manchester United sul tetto d’Inghilterra dopo 26 anni. Con lui in campo, lo United vinse anche quattro FA Cup, una Coppa di Lega, due Charity Shield e, soprattutto, le prime coppe europee del club dai tempi dei successi del 1968: la Coppa delle Coppe e la Supercoppa Uefa, alzate al cielo di Rotterdam e Old Trafford da Bryan Robson capitano nella partita vinta contro il forte Barcellona di Johan Cruijff. Capitano del club che fu dal 1984 e fino al suo addio al club. Con in panchina il suo secondo padre putativo (calcistico), quell’Alex Ferguson che nel 1986 subentrò ad Atkinson (il suo primo mentore quando erano entrambi al West Bronwich Albion) e che portò il club a diventare un’icona mondiale ed allenatore (ed altrettanto mentore) degli altri tre giocatori diventati leggendari con la maglia numero 7 del Manchester United.
Lo chiamavano Captain Marvel, Bryan Robson perché era il super eroe del centrocampo del club e dopo esserlo stato del club mancuniano, lo fu già a 25 anni della Nazionale inglese.
Uniche pecche della carriera di “Robbo” Robson sono state il fatto di non aver giocato all’inizio in un Manchester United competitivo in Inghilterra ed il fatto di aver pagato, come tutte le squadre inglesi, la squalifica post-Heysel che ha tolto le squadre di Sua Maestà dalle coppe europee per cinque anni a seguito di ciò fecero, il 29 maggio 1985, i tifosi del Liverpool (o meglio gli hooligans dei Reds) contro quelli della Juventus. Liverpool e Juventus da sempre interessate a tesserare Bryan Robson, nato a Chester-le-Street, Durham, nord-est inglese. Invece “Robbo” Robson non ha mai voluto lasciare il club e ritirandosi ha lasciato il numero magico del Manchester United (per tredici anni sulle sue spalle) ad Eric Cantona, proseguendo una legacy bella da morire.
Gli altri numeri “7” del Manchester United: il peso di una maglia troppo ingombrante
Cristiano Ronaldo lasciò lo United nel 2009 e vi tornò nel 2021 per poi andare via poco più che un anno dopo. A partire dal suo addio, la maglia numero 7 dello United non è stata ritirata (una pratica molto diffusa da una squadra quando un giocatore scrive la storia del club e nessun altro sarà “più degno” di indossarla), ma il suo mito è continuato anche se coloro che l’hanno scelto dopo di lui non si sono mai dimostrati all’altezza.
Il primo è stato Michael Owen, l’ex Golden boy del calcio inglese, che vestì il “seven” tra il 2009 ed il 2012 vincendo un campionato, una Coppa di Lega e due Community Shields. Via un campione (CR7), dentro un altro: peccato che l’attaccante di Chester era in fase calante dopo una carriera pazzesca a Liverpool.
Dopo il vincitore del Pallone d’oro 2001, la numero 7 è affidata ad un sudamericano, l’ecuadoriano Antonio Valencia. Valencia, arrivato dal Wigan l’anno in cui lasciò CR7, solo con l’addio di Owen prese la numero 7 e la indossò solo nella stagione 2012/2013: il giocatore rimase complessivamente a Old Trafford dieci anni consecutivi, usando sempre il “suo” 25, con cui divenne anche capitano del club.
Dopo un anno sabbatico (stagione 2013/2014), la numero 7 fu assegnata ad un altro sudamericano, Angel di Maria. L’attaccante rosarino deluse (tanto) le aspettative tanto da rimanere ad Old Trafford una sola stagione.
A parte l’intermezzo di Cristiano Ronaldo (2021-2022), la numero 7 del Manchester United sembrava aver perso la sua sacralità, diventando una maglia come tutte le altre. Tra il 2015 e oggi, altri quattro giocatori si passarono la numero 7: Memphis Depay (una stagione e mezza), Alexis Sanchez (una stagione e mezza), Edinson Cavani (una stagione con la “7” ed una con la “21”) e solo il “matador” di Salto ebbe risultati positivi. Da due stagioni la numero 7 dei Red devils è sulle spalle di Mason Mount, centrocampista classe 1999. La speranza è che questo giocatore possa farsi valere nel mondo del calcio proprio con la “divina” numero 7 dei Red devils. E’ nato nel 1999, l’anno di grazia di David Beckham. Che possa essere di buon auspicio?
Se sarà un campionissimo anche lui, ce lo dirà la storia. Intanto gli amanti del calcio ringraziano il “dio del calcio” per aver reso mitico un numero su una maglia da calcio: la “7” del Manchester United.
BIO Simone Balocco: Novarese del 1981, Simone è laureato in scienze politiche con una tesi sullo sport e le colonie elioterapiche nel Novarese durante il Ventennio. Da oltre dieci anni scrive per siti di carattere sportivo, storico e “varie ed eventuali”. Tifoso del Novara Calcio prima e del Novara Football Club dopo, adora la sua città e non la cambierebbe con nessun altro posto al Mondo. Collabora da tempo con la redazione sportiva di una radio privata locale e ha scritto tre libri, di cui due sul calcio. I suoi fari sono Indro Montanelli e Gianni Brera, ma a lui interessa raccontare storie che possano suscitare interesse (e stupore) tra i lettori. Non invitatelo a teatro ma portatelo in qualunque stadio del Mondo e lo farete felice.