DI MARIA E PUYOL: LO SPAGHETTO CHE SFUGGÌ AL COMPASSO

“Accettare la superiorità avversaria è da campioni”

Quando si entra nel museo degli Uffizi di Firenze si viene travolti da una moltitudine di emozioni, si percepisce subito l’entusiasmo di poter riscoprire mondi lontanissimi e storie di cui siamo stato imbevuti ma che finalmente possiamo sentire sulla pelle.  Sotto questo strato di eccitazione serpeggia ovviamente anche la paura di poter lasciare quel luogo magico avendo tralasciato anche un singolo tesoro della nostra storia passata.

Una delle opere che raramente vengono ignorate è la scultura dei Lottatori, risalente al primo secolo dopo Cristo e ipoteticamente attribuita a Lisippo, ritrovata nel cuore romano del colle Esquilino a metà del 1500. Questi 89 centimetri di agonismo marmoreo raffigurano due lottatori eternamente bloccati in un momento topico del combattimento, la fase in cui uno dei due comincia a prendere il sopravvento sull’altro. Pur essendoci la chiara superiorità di un atleta che sovrasta l’altro, facendo leva sul suo braccio, entrambi rimangono potenti nelle loro movenze. Non c’è l’idea di asimmetria, i due contendenti sono compatti in un unico blocco e i loro corpi esprimono la stessa forza, semplicemente uno pare avere la meglio sull’altro in quel momento preciso.

Spesso nello sport ci dimentichiamo di come l’eccellenza, per sua stessa natura, debba prevedere il concetto di esclusività e la vittoria sia sempre un’entità solitaria mentre la sconfitta spesso aggrega molto di più.

I giocatori di tennis convivono costantemente con il concetto di sconfitta, abituandosi ad accettare il rapporto sbilanciatissimo tra partite vinte e partite perse.

Nello sport di squadra l’approccio chiaramente cambia ma conquistare un trofeo rimane sempre un percorso elitario.

Ricordiamo tutti la risposta tra lo stupito e l’infastidito di Giannis Antetokounmpo al giornalista che gli chiede se ritiene la sua stagione fallimentare dopo l’eliminazione che ha precluso le semifinali di conference ai suoi Milwaukee Bucks.

Il fatto che per un grande campione potrebbe essere più facile accettare la sconfitta senza vederla come un fallimento fa sicuramente riferimento ad un’autostima consolidata, ad un’autoefficacia capace di superare qualsiasi caduta.

Quando nella semifinale di coppa del Rey del 2013 si affrontarono Barcellona e Real Madrid al Camp Nou il terreno di gioco era cosparso di campioni e metteva di fronte due filosofie di approccio al calcio storicamente opposte. Da una parte l’istituzionalismo castellano delle merengues e dall’altro lo spirito indipendentista catalano. Anche i condottieri delle due squadre non potevano essere più diversi, l’istrionico Mourinho a iniettare adrenalina nei blancos e il mite Tito Villanova a tramandare l’eredità del tiki taka.

La partita di andata si era conclusa con un equilibratissimo 1-1 mentre quella di ritorno avrebbe avuto in copertina il volto di Cristiano Ronaldo, autore di una doppietta.

Il risultato finale sarà di tre a uno a favore del Real Madrid ma l’episodio che spostò l’equilibrio di una gara, comunque combattuta, avvenne al minuto 57.

Il Barcellona era già sotto per uno a zero e si era eccessivamente sbilanciato, subendo così un contropiede in campo aperto da parte degli avversari.

Il terreno di gioco sembrò di colpo tornare in bianco e nero quando Sami Khedira sparacchiò il pallone il più lontano possibile quasi assecondando un’eco ideale del mitico Foni, allenatore a cui è attribuita l’invenzione del catenaccio.

E in questa immaginaria continuità storico calcistica si materializzano i protagonisti della nostra storia, duellanti in un campo aperto ma non abbastanza grande per tutti e due!

La palla venne arpionata e sospinta velocemente in avanti dal piede mancino e dalle gambe sottili di un giovane ragazzo argentino nato nella città che, nella sua patria, considerano la capitale del Fútbol, Rosario.

Il giocatore che gli corre accanto nel tentativo di fermarlo sembra non aver avuto nessun contatto con i cambiamenti estetici che hanno travolto la figura del calciatore nel nuovo millennio.

Carles Puyol si propone come un uomo rimasto ibernato in qualche era glaciale mentre Angel Di Maria sembra uscito dalla fantasia di Modigliani.

Il ragazzo rosarino è accompagnato da una mistica che sembrava precederlo sempre di almeno due o tre passi, per proteggerlo e glorificarlo come un angelo di Maria.

I 20 palloni con cui il Rosario Central avrebbe pagato il suo “cartellino” alla squadra del quartiere in cui lui militava e quel soprannome, el fideo, lo spaghetto, a cementare per l’ennesima volta il legame tra due terre divise “solo” da un oceano.

Quel ragazzo che, con un linguaggio un po’ vintage, potremmo definire uno smilzo non era in realtà solo molto forte tecnicamente, ma aveva trasformato la sua agile velocità in un’iperreattività spigolosa. Se ci piace assecondare questa sua somiglianza con uno spaghetto dobbiamo obbligatoriamente credere che sia stato cotto rigorosamente al dente, perché nulla sembrava piegarlo!

I due rivali passarono in un secondo dal correre fianco a fianco al fronteggiarsi e in quel momento lo spaghetto cominciò a contorcersi fino a diventare non più misurabile per il compasso.

Di Maria si portò la palla verso l’interno del campo con il tacco del piede sinistro per riaccompagnarla all’esterno con una carezza rapidissima, movimento che obbligò Puyol a tentare il tutto per tutto allargando la sua gambona destra e rimanendo inchiodato nel terreno come un compasso al massimo della sua apertura.

Il proseguo dell’azione, che rappresenta per altro il momento rimasto nelle cronache, porterà al secondo gol di Cristiano Ronaldo, che esulterà ribadendo il suo dominio sul Camp Nou con il classico gesto accompagnato dal “calma, yo esto yaquì!”.

Mentre il fuoriclasse portoghese cominciò la sua esultanza a lui si avvicinò un ragazzo correndo con le braccia allargate e lo sguardo sognante di chi è troppo soddisfatto per domandarsi come mai i compagni non festeggino chi ha avuto il vero merito per quel gol.

Dietro ai madridisti esultanti possiamo scorgere la sagoma affranta ma sempre eretta di Puyol, fiero di aver tentato tutto il possibile, di essere caduto in piedi.

L’immagine lasciata al tempo da quel funambolico dribbling potrebbe essere letta come impietosa per il capitano blaugrana, ma il suo coraggio lo portò a tentare senza esitazione quella rischiosa giocata difensiva senza curarsi del fatto che ciò avrebbe potuto esporlo così clamorosamente.

Questa sua generosità nel sacrificarsi per la causa comune gli veniva restituita da un gruppo che accettava anche le sue bacchettate a quei compagni colpevoli di eccessive esultanze o simulazioni.

Questo è il motivo per cui giocatori forse più celebrati di lui come Sergio Ramos e Piquet non abbiano raggiunto i cuori dei tifosi come ha fatto Puyol.

Potremmo perfino chiederci se sia stato più coraggioso Di Maria a tentare il suo dribbling o Puyol a cercare un intervento talmente definitivo da piantarlo in quel terreno per sempre.

Quelle gambe spalancate misurano esattamente l’intensità del suo sforzo e del suo coraggio, quello massimo!

Gli specialisti della difesa potrebbero sicuramente obbiettare in varie direzioni: “doveva temporeggiare, accompagnarlo verso l’esterno…etc etc.”

Ma come si può condannare il coraggio? Quale allenatore al mondo non si farebbe contagiare da un cuore così generoso?

È per questo che in quell’azione di 11 anni fa non possiamo riconoscere solo vincitori e vinti, ma due campioni disposti a post porre i propri bisogni in favore di quelli della propria squadra.

Quella sera lo spaghetto diventò un angelo ed un compasso si trasformò in una statua.

BIO: Davide Bellini

Sono nato a Sanremo nel 1973 e vivo a Ospedaletti con mia moglie Yerlandys e i nostri due figli, Filippo e Santiago.

Dopo la maturità classica al Cassini di Sanremo, in mancanza di alternative significative, mi iscrivo alla statale di Milano, facoltà di lingue. Galleggio per un quadriennio (in realtà è stata piuttosto un’apnea!) mentre nel frattempo la mia passione per la musica spazza via tutto e mi porta e mettere su una band di glam rock (idea geniale da avere a metà anni 90 mentre il mondo è incantato dal Grunge!). Il tempo e il talento non dirompente (diciamola così per salvaguardare l’autostima…) mi hanno aiutato a capire che il sogno della rockstar sarebbe rimasto tale. In nome di quel sogno ho passato 8 mesi a Londra e in quel periodo ho recuperato l’amore per la lettura, in particolare per la psicologia e la filosofia. Dai sogni infranti rinasce la voglia di studiare e d’iscrivermi alla facoltà di psicologia a Pavia dove mi laureo con una tesi sulla delfino terapia applicata all’autismo. Inizio a lavorare nelle scuole all’interno degli sportelli di ascolto e in centri di aggregazione giovanile. In seguito, per 5 anni, ricopro il ruolo di vice direttore di una comunità educativa per minori. Col tempo mi specializzo in psicoterapia a orientamento sistemico-relazionale. Riesco a mescolare la mia passione per lo sport con la mia professione conseguendo un master in psicologia dello sport. Dal 2011 mi dedico esclusivamente all’attività privata di libero professionista come psicologo psicoterapeuta.

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