RESTIAMO UMANI…ALMENO PROVIAMOCI

Tutto normale, come no, anzi, forse dietro c’è qualcosa di sordido, un accordo in fieri per il prossimo mercato di gennaio. Qualcuno ci avrà infilato, senza dubbio, dei retropensieri che qualificano soprattutto chi li fa. Da parte mia, ho evitato di leggere commenti di ogni sorta perché ogni tanto – solo ogni tanto – fare lo struzzo è una strategia di sopravvivenza niente male.

Il fatto a cui mi riferisco invece è abbastanza straordinario, anche solo per la sua assoluta rarità.

Alla fine di una niente affatto agevole partita con il roccioso Fulham, Pep Guardiola si è avvicinato ad Adama Traoré e, da quello che si può dedurre dal breve video che circola (un video ripreso da lontano, nessuno show), gli ha spiegato che movimenti potrebbe migliorare negli 1v1. Il giocatore si è trovato infatti, in almeno quattro occasioni, in buonissima posizione di tiro, senza riuscire però a finalizzare. Non serve dire che, senza questi errori sotto porta, i piani di un City un po’ troppo sprecone si sarebbero ingarbugliati assai.

Pep mima le azioni e il centrocampistattaccante della squadra con uno degli stadi più belli del mondo ascolta attento e annuisce. Alla fine ringrazia e i due si abbracciano. Poi si allontanano insieme dal terreno di gioco. Avversari? Solo durante i novanta minuti di gioco più recupero, per il resto due persone che amano lo stesso sport, che lo amano tanto.

A parte la malignità riferita al calendario – la prossima del Fulham, dopo la pausa, è contro l’Arsenal e l’anno scorso Arteta inciampò, a sorpresa, proprio a Craven Cottage! – ciò che colpisce di più è la naturalezza della sequenza: la generosità, che è anche ossessione per le cose fatte bene, specie se se ne hanno le capacità, dell’allenatore catalano e la maturità del giocatore che recepisce le indicazioni con interesse, nonostante la sua squadra abbia perso. Nessuno intorno a loro trova la scena strana, nessuno interrompe o si avvicina con intenti provocatori.

Mi è sembrato bello e, appunto, tanto, tanto raro. Mi è sembrato, in una parola, umano, al di là di fazioni, tifoserie, interessi di parte e di una ragionevole incazzatura da parte di chi è uscito sconfitto dal match (ma, provo a ipotizzare, anche da parte di Guardiola, poco probabilmente soddisfatto della prestazione dei suoi!).

L’aneddoto, di qualche giorno fa, mi è tornato in mente ieri, dopo aver letto le dichiarazioni di Alvaro Morata riguardo la depressione e gli attacchi di panico di cui ha sofferto. Purtroppo questa volta non sono stata abbastanza brava e qualche commento l’ho guardato. Be’, mal me ne incolse… ma lo sapevo già.

Abbiamo fatto passare l’idea che le opinioni siano sempre da rispettare, anche quando sono abiette, come spesso sono quelle dei commentatori – troll o meno che siano – sui social e ora ci troviamo con un coefficiente di cattiveria che non posso immaginare non si ripercuota anche su questioni molto lontane dagli stadi e dal web. Abbiamo – o ci hanno – detto che è la “democrazia della rete”, un luogo dove tutti, ma proprio tutti, possono affermare, con veemenza e sciocca sicumera, la verità di cui si sentono unici depositari. Sappiamo che quello di democrazia è un concetto ormai stiracchiato, talvolta vilipeso, ma l’etimologia non mente: demos e kratos, ovvero governo a cui prendono parte tutti i cittadini.

Non è questa roba qui, non deve esserlo.

Senza indulgere in tecnicismi, basti riferirsi all’Organizzaione Mondiale della Sanità che ci dice non solo che la depressione maggiore è uno dei disturbi più invalidanti che esistano, ma che predispone, direttamente o indirettamente, a patologie quali ictus, diabete, cardiopatie. Senza parlare dell’incidenza dei comportamenti suicidari.

Insomma: non c’entra nulla con la pur rispettabile “tristezza momentanea al ritorno dalle ferie”. Si tratta di un disturbo multifattoriale, denotato da un’eziologia complessa, che in modo complesso va affrontato, anche dal punto di vista comunicativo.

Per fortuna oggi si è compreso – quasi – che, per trattare la persona, è necessario adottare un approccio quanto più possibile olistico: corpo e mente sono parte di un unicum che deve funzionare bene, al meglio, non compartimenti stagni di una sagoma semovente chiamata essere umano.

Oggi si parla dei disturbi dell’umore, lo si fa sempre di più ed è un grande progresso. Parlare non risolve, ma libera dallo stigma di qualcosa che, fino a pochi decenni fa, induceva a bollare il soggetto che si esponeva come “pazzo”, qualunque cosa significhi questo termine così vago, così dispregiativo, nella bocca di chi lo pronuncia. Questo scriveva ne “La pazza della porta accanto”, Alda Merini: “La follia è una delle cose più sacre che esistono sulla terra. È un percorso di dolore purificatore, una sofferenza come quintessenza della logica. La follia deve esistere per se stessa, perché i folli vogliono che esista. Noi la chiamiamo follia, altri la definiscono malattia.” (ed. Bompiani)

Di depressione parlò Andrés Iniesta, appena ritiratosi dal calcio giocato, al podcast The Wild Project. Rivelò che, durante i periodi più bui, il momento migliore della sua giornata era quello subito prima di dormire, dopo l’assunzione delle pillole antidepressive. Iniesta colloca il punto di non ritorno della sua crisi in un momento particolare e tragico: la morte dell’amico Dani Jarque, difensore dell’Espanyol.

Di depressione ha parlato Gian Piero Gasperini, a proposito di Josip Ilicic, dotatissimo giocatore la cui carriera è spezzata letteralmente in due: c’è un prima e c’è un dopo rispetto a ciò che un tempo veniva chiamato “il male oscuro”. Ma Gasperini, nell’intervista che ha rilasciato, racconta del durante, di una visita a Ilicic ricoverato in clinica e quasi irriconoscibile per il forte dimagrimento. L’allenatore dell’Atalanta non trattiene le lacrime e la voce si rompe per la commozione, perché un conto è l’inflessibilità di una disciplina calcistica, un altro conto è l’uomo con le sue infinite fragilità. Lo stimavo già, per quello che aveva saputo fare come coach, ma in quel momento l’ho stimato molto di più, in un modo più profondo.

Ieri è stato Alvaro Morata a parlare dei propri demoni, di quella cosa da cui, come ci insegna il bell’horror (ma è in realtà un film profondamente umanista) Babadook, sappiamo di non poter fuggire, ma con la quale dobbiamo imparare, con tutta la fatica del caso, a convivere. Sono i nostri mostri, siamo noi. L’attaccante spagnolo si è mostrato sincero e delicato, come sempre è stato, ma i commenti sotto la sua storia, riportata da varie pagine, troppo spesso non hanno centrato la radice del problema, che non è economica o sociale: non esiste censo o conto in banca che possa tenere al riparo dai disturbi depressivi (e da nessun disturbo, in effetti). Non c’è privilegio o macchinone, vacanze spettacolari o ville con piscina.

Dubito che quei commenti facciano male a Morata, Iniesta, Ilicic, Richarlison ecc. ecc., ma possono invece ferire il ragazzino che vorrebbe fare il calciatore e che si vergogna di confessare ciò che sente e che gli fa bucare gli allenamenti. E anche il ragazzino o l’adulto – parlo al maschile sovraesteso, ma naturalmente il principio riguarda tutti – che il calciatore non lo vogliono fare o non lo possono fare o non lo possono più fare perché magari un grave infortunio ha stroncato sul nascere ogni ambizione. Mi riferisco a quei tanti utenti della rete, gente comune, tifosi, appassionati, che vengono investiti da quella acefala cattiveria. Il male oscuro, grazie al cielo, oggi è illuminato dal sapere scientifico e dall’informazione. Ciò che resta cupa è la reazione di certi individui, troppo superficiali, forse, per comprendere che una parola non salva, ma può essere una mano tesa verso chi non riesce a chiedere aiuto o non ha ancora acquisito gli strumenti per farlo.

Il calcio bello deve essere anche questo, l’esserci per l’altro, uomo, non avversario.

BIO: ILARIA MAINARDI

Nasco e risiedo a Pisa anche se, per viaggi mentali, mi sento cosmopolita. 

Mi nutro da sempre di calcio, grande passione di origine paterna, e di cinema. 

Ho pubblicato alcuni volumi di narrativa, anche per bambini, e saggistica. Gli ultimi lavori, in ordine di tempo, sono il romanzo distopico La gestazione degli elefanti, per Les Flaneurs Edizioni, e Milù, la gallina blu, per PubMe – Gli scrittori della porta accanto.

Un sogno (anzi due)? Vincere la Palma d’oro a Cannes per un film sceneggiato a quattro mani con Quentin Tarantino e una chiacchierata con Pep Guardiola!

6 risposte

  1. Ancora un bel pezzo Ilaria e questa volta su di una materia in cui, in qualità di ex tecnico in pensione, mi trovi scarsamente preparato. Ciò non toglie la mia totale condivisione con le argomentazioni da te intelligentemente analizzate e vergate. È fuor di dubbio che giovani baciati dal buon Dio con il dono di preziosissimi calcistici non comuni si trovino a giocare in prestigiose società con villa, piscina, maggiordomo e portachiavi Ferrari in tasca…. ma spesso e volentieri manca il calore di casa propria con le apprensioni odiate/amate della mamma piuttosto che dell’amorosa
    la quale essendo una ragazza alla buona e di umili costumi non riesce quasi sempre ad ottenere il permesso per convivere con il futuro campione e spesso tutto ciò potrebbe
    (ma sottolineo la mia scarsezza in materia) causare l’inizio di una forma depressiva. Spiace, da rossonero, per il nostro Morata e spero che questo suo malessere passi il prima possibile.
    Un caro saluto e buona giornata.

    Massimo 48

  2. Trovo questo articolo molto utile oltre che interessante, condivido ogni singola parola e spero possa avere la giusta attenzione mediatica.
    Apprezzavo già la tua capacità di analisi calcistica, fatta di grande passione pur conservando un’estrema lucidità ed adesso l’attenzione che porti ad un argomento per nulla scontato all’interno di quest’ambito ti fa solo onore. Mi auguro ancora che la tua competenza in ambito calcistico e la tua estrema attenzione al dettaglio, che fa la differenza, vengano prese in considerazione da chi si propone, attraverso trasmissioni televisive dedicate, di veicolare “il verbo” del calcio.

    1. Dario, grazie infinte per questo bellissimo commento e per il supporto che sempre mi manifesti! Sei un vero amico! (E forza Pisa, dé!)

  3. Articolo a dir poco illuminante, specie perchè riferito ad argomenti su cui circola ancora tanta ignoranza. La parte su haters & trolls è uno specchio fedele dei tempi che viviamo. Ciò che possiamo sempre fare è la “nostra parte”, quindi un pezzettino nella direzione opposta a odio e giudizio. Come dice qualche saggio, “Fa molto più rumore un albero che cade rispetto a una foresta che si espande”. Complimenti Ilaria!

    1. Grazie mille, Francesco! Hai assolutamente ragione: il tema è molto importante e purtroppo la rete è invece spesso un amplificatore di piccole crudeltà a buon mercato. I social avrebbero dovuto ridurre le distanze, ma hanno creato piuttosto un fenomeno preoccupante, e sempre più diffuso, di anti-empatia a-sociale. Non c’è solo questo, è ovvio, ma la diffusione dell’odio social non può essere derubricato a semplice ragazzata, almeno non da un punto di vista sociologico. Grazie ancora!

      Ilaria

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