Esclusivo, inevitabilmente divisivo ( in particolar modo dal punto di vista della metodologia), accentratore, icastico, caratterialmente spigoloso poichè devoto all’indissolubile consapevolezza della propria forza, della propria tenacia e della propria, totale, dedizione al proprio lavoro; totalizzante, letteralmente invasivo nella costruzione mentale e fisica del giocatore, mai domo, ossessionato dalla vittoria, globalmente unico nell’approccio alla conquista degli obiettivi.
Gli epiteti e le descrizioni ricche di particolari e sfumature su Antonio Conte potrebbero perdurare quanto l’espansione grafica delle battiture in corso, volta però doverosamente principalmente a sottolinearne il più inequivocabile degli aspetti peculiari: una mentalità vincente, verosimilmente innata e forgiata nei decenni di militanza sabauda, che rende le compagini allenate dal tecnico salentino inequivocabilmente preparate ad acquisire le formule più pregnanti del successo immediato.
E Antonio da Lecce ha, almeno per il momento, già condotto la neonata creatura partenopea a guardare tutti dall’alto in basso, come consuetudine della sua carriera suggeriva potesse essere già plausibile nonostante la ristrettezza temporale dell’operare. Ricostruita nei giocatori la capacità di avvertire l’indomabile volontà di trionfare quale sublimazione suprema della propria ragione professionale, trasmettendo or dunque ciò che da sempre gli appartiene, accantonati gli spettri della scorsa stagione che sembravano palesarsi nelle prime due gare stagionali (esordio in Coppa Italia contro il Modena risolto solo ai calci di rigore e soprattutto la clamorosa, nelle modalità più che nella constatazione, sconfitta al “Bentegodi” contro il Verona di Zanetti), Conte, con il fido Oriali e l’intero staff, sta nuovamente facendo emergere, senza possibilità di smentita alcuna, la sua caratteristica principale: innalzare complessivamente il livello di qualsivoglia squadra a disposizione, elevarne gli apici e ridimensionarne i passi falsi, collocare collettivo ed individui sensibilmente al di sopra della propria soglia massimale.
Con buona pace di chi, in virtù di ciò, avrebbe voluto vederlo condottiero della propria compagine. Virando su un sistema diverso da quello ormai dettagliatamente cementato nei meandri di oltre un decennio (dalla costituzione della “BBC” in poi), scegliendo, cioè, di posizionare graficamente il Napoli sul terreno di gioco attraverso un 1-4-3-3 al fin di inserire nello scacchiere principale le caratteristiche e l’intuito realizzativo di Scott Mc Tominay, Conte ha altresì nuovamente dimostrato di poter essere tutt’altro che rigido relativamente allo sviluppo delle due fasi, “morbidezza” già vista nell’ultima esperienza in quel di Londra sulla panchina del Tottenham, allorquando, per far risorgere gli “Spurs” ( annacquati nei fondali mediocri della graduatoria nel campionato contemporaneo dal più alto livellamento complessivo e poi condotti sino ad un incredibile quarto posto) decise di coadiuvare i movimenti e la finalizzazione di Harry Kane con l’inserimento di due mezzepunte alle sue spalle.
Se, rispetto all’evoluzione tattica camaleontica di alcuni fra i tecnici maggiormente all’avanguardia, Antonio Conte sembra nel dettaglio infinitesimale non “inventare” nulla dal punto di vista dell’interpretazione di alcuni ruoli, vero è che, però, le sue letture, la sua innata capacità di avvertire il calcio nella sue essenze fondamentali, la sua capacità di leggere indole e caratteristiche degli uomini a disposizione lo conducono a tessere una tela psicologica e atletica inesorabilmente direzionata a primeggiare, verrebbe da dire sempre e comunque, indipendentemente dal materiale umano e ambientale a disposizione. Il suo curriculum non lascia scampo a velleità di errate valutazioni: dopo la primissima esperienza in quel di Arezzo nel campionato cadetto ( con gli aretini che si sarebbero salvati grazie ai punti conquistati nell’arco del torneo ma finirono per essere retrocessi esclusivamente a causa della penalizzazione inflitta successivamente ai fatti di “Calciopoli” ), Conte trionfa per due volte in Serie B (torneo per antonomasia equilibrato e suscettibile di variabili che in alcune circostanze hanno condotto e possono condurre formazioni di prima fascia a lottare per la retrocessione e viceversa) facendo approdare nella massima categoria il Bari prima ( dimostrando già agli albori della propria carriera di allenatore quanto l’uomo fosse già capace di scindersi dal professionista) ed il Siena poi, esperienze inframezzate dalla prima apparizione in Serie A sulla panchina dell’Atalanta, conclusasi con le dimissioni, per evidenti attriti atmosferici ( ancor più di oggi il “primo” Conte, per usare un eufemismo, difficilmente contemplava la possibilità di addentrarsi nella più stretta semantica della parola “compromessi”), prima della conclusione del girone d’andata.
Nell’estate del 2011, già foriero di evidenti capacità didattiche e manageriali, evidentemente sicuramente avvantaggiato dalla narrazione storica della precedente militanza da calciatore e capitano, Andrea Agnelli lo sceglie per ricondurre la Juventus ove la storia impone dopo le infauste gestioni Ferrara, Zaccheroni e Del Neri. Per risvegliare dalle fondamenta la “juventinità”, per diffondere ed instillare quella mentalità vincente tipicamente bianconera volta ad evidenziare come normale e doverosa la possibilità di trionfare, per inculcare l’obiettivo della vittoria quale imprescindibile approdo in terra di Piemonte (con conseguente predisposizione alla degustazione di una successiva e continua acquisizione di titoli), il designato rampollo della proprietà, Presidente da una sola annata agonistica, decide di non badare alla possibilità che la scelta potesse rivelarsi prematura e rischiosa puntando decisamente su ciò che in quel momento, ancor più che sul piano tecnico, avrebbe dovuto fare la differenza e determinare quel salto di qualità temporalmente da anticipare: vale a dire, come suddetto, la trasmissione di quella imprescindibile mentalità che allontana alibi, tramuta in desiderio e obiettivi le potenzialità e sintonizza mentalmente il gruppo squadra sull’onda dell’espressione della propria voglia di imporsi.
Antonio Conte ricostituisce personalità parzialmente in declino (Buffon era reduce da un periodo difficile, principalmente umanamente), rianima la vena da protagonista assoluto di Pirlo, si oppone alle cessioni di Bonucci e Pepe in procinto di accasarsi allo Zenit di San Pietroburgo, riesamina sè stesso abbandonando il sistema sino ad allora utilizzato in carriera (1-4-2-4, per il quale la campagna acquisti di quella stagione porta a Torino Giaccherini, Elia ed Estigarribia, esterni offensivi a coadiuvare Pepe e Krasic) optando inizialmente per un 1-4-2-3-1 quasi immediatamente tramutato in 1-4-3-3 al fin di inserire l’ottimo Vidal, fino alla costituzione del 1-3-5-2 ( mai sciorinato precedentemente nè sul campo nè nelle sinapsi a partire dal corso di Coverciano) e all’invenzione della “BBC” che consegna a Barzagli, Bonucci e Chiellini le posizioni individuali più idonee all’esaltazione delle qualità di madre natura.
Pur potendo fare affidamento su un gruppo sensibilmente inferiore al Milan di Allegri (allora costituito da gente del calibro di Ibrahimovic, Cassano, Robinho, Inzaghi, Pato, Seedorf, Gattuso, Nesta, Zambrotta, Thiago Silva, per citarne alcuni), Antonio Conte riporta lo scudetto a Torino a distanza di sei anni dalle diatribe di “Calciopoli”, altresì chiudendo il campionato da imbattuto.
Un capolavoro indiscutibilmente tecnico-tattico ( difficilmente gli 84 punti conquistati nell’arco della stagione avrebbero potuto essere preventivamente attribuiti alle potenzialità della rosa bianconera ) e ancor più evidentemente mentale, tramutando le titubanze di calciatori probabilmente non all’altezza delle vette più auliche della storia della Vecchia Signora (Pepe, Matri ed Estigarribia su tutti) in sconsiderata fame di successo. Quali le tappe doverose per forgiare questo spirito? Quali le necessarie trasmissioni concettuali per raggiungere obiettivi individuali così evidenti? Sicuramente molte. Un esempio:sul tramontare del girone d’andata, con la Juve sorprendentemente in testa e ovviamente ancora imbattuta, dopo il pareggio ottenuto sul campo della Roma, allorquando pareva che prima o poi perdere una partita dovesse risultare normale ed inevitabile, a Conte fu chiesto, al termine dell’incontro, se i giocatori si trovassero (simultaneamente all’intervista del tecnico leccese) alle pendici del settore ospiti per festeggiare il pari che garantiva il primato e la prosecuzione dell’inviolabilità della casella delle sconfitte; egli rispose, come da dovere per un tecnico alla guida di una grande squadra nonostante avrebbe potuto concedersi la velleità di sottolineare l’impresa che stava compiendosi, che la squadra si era recata doverosamente a salutare i propri tifosi per il supporto ricevuto perchè alla Juve un pareggio non si festeggia mai (dichiarazione che altresì stride con recenti espressioni di un’altra guida tecnica in bianconero capace di liquidare con “questo è il calcio” , “abbiamo fatto un buon primo tempo” e affini disfatte invereconde).
Ricostituite le fondamenta e la mentalità vincente e resi affamati oltremodo di successi i propri uomini, Conte infila tre tricolori consecutivi (con il record di 102 punti in dote nella stagione 2013-’14) prima di lasciare sorprendentemente la Juve in contrasto con i vertici societari ( decisione che segnerà la carriera di Conte, più volte speranzoso di tornare a Torino e mai più preso in considerazione dalla proprietà).
L’Italia chiamò: dopo il turbolento addio ecco la panchina della nazionale, nel biennio che, in uno dei periodi più bui dal punto di vista del talento (Eder e Pellè rappresentano i vertici offensivi delle gerarchie offerte dal nostro movimento), coincide con i campionati europei poi vinti dal Portogallo: ancora una volta Conte compie un mezzo miracolo, conducendo l’Italia ad un passo dalla semifinale, sfuggita solo dopo la “lotteria” dei calci di rigore contro la Germania.
Smanioso di cimentarsi nuovamente quotidianamente sulla panchina di un club Conte approda a Londra, scelto dal Chelsea: neanche a dirlo, “scudetto” al primo anno, nella stessa stagione in cui Guardiola esordisce sulla panchina del Manchester City e Klopp è alla guida del Liverppol da un anno. Ma il Chelsea, storicamente e nella costituzione più intima di una mentalità perennemente vincente, non è la Juve nè l’Italia: Conte cerca di trasmettere il concetto per cui il trionfo più bello è sempre quello successivo, in un ambiente però soddisfatto del titolo dell’anno precedente che la competitività serrata della Premier declassa inesorabilmente in classifica.
Conte è dunque sostituito da Sarri. Dopo un anno sabbatico passato a tentare di ricucire i rapporti con la Juventus che avrebbe chiuso con Allegri dopo cinque stagioni, seppur strenuamente caldeggiato da Paratici e Nedved ma osteggiato da Andrea Agnelli a causa della ferita ancora aperta dal 2014, Conte ha la sua personale rivalsa approdando all’Inter e conquistando il titolo nel corso della seconda annata in nerazzurro chiudendo di fatto la tirannia bianconera, da lui inaugurata, nove anni prima:quasi a sottolineare ulteriormente l’errore di non riportarlo alla casa madre quale emblema di tutto ciò che significasse prosecuzione della dinastia nazionale.
Dopo l’Inter, lasciata successivamente al tricolore, la succitata parentesi al Tottenham e ora il Napoli. Eccezion fatta per i mesi trascorsi a Bergamo, Conte ha disputato cinque campionati di Serie A vincendone quattro e lasciando ovunque un’eredità solidissima sia dal punto di vista squisitamente concernente la costruzione dell’impianto di squadra sia in termini di mentalità assoluta. Più volte viene rimarcato di non essersi reso protagonista di cavalcate europee degne di nota: anche in questo caso è doveroso analizzare i dettagli.
Quando avrebbe dovuto in campo continentale compiere l’impresa? Con la prima Juve da anni non più candidata alla vittoria ( reduce dalla mancata partecipazione alle competizioni UEFA dopo un’eliminazione ai gironi di Europa League quale ultima licenza europea) in campo internazionale e condotta sino ai quarti di finale, eliminata dal Bayern Monaco costruito per vincere la competizione come poi avvenne? Su un campo dove giocare non era possibile come quello di Istanbul, volutamente reso “imperfetto” nella metà campo bianconera in sede di recupero dell’incontro il giorno successivo allorquando, dopo un bel girone ( sfortunato in alcuni frangenti) alla Juve sarebbe bastato pareggiare per superare il turno? Con il Chelsea eliminato negli ottavi dall’allora ancora “ingiocabile” Barcellona dopo due prestazioni sublimi fra andata e ritorno con tanto di sottolineatura dello scampato pericolo da parte di Messi? Diciamo, per essere giustamente anche puntigliosi, che al netto di non aver mai guidato formazioni pronte a competere in Champions League, Conte avrebbe potuto portare a casa l’Europa League abbandonata in semifinale contro il Benfica ai tempi della Juve (con tanto di finale a Torino ) e avrebbe potuto superare con l’Inter un girone in ogni caso difficile in Champions e “stoppato” dal colpo di testa di Lukaku che ha di fatto sancito il quarto posto della Beneamata.
Dopodichè la finale del 2020 contro il Siviglia nella seconda manifestazione continentale può rappresentare un rimpianto relativo al fatto che trattavasi di atto conclusivo, a prescindere però pur sempre da disputare sostanzialmente alla pari ( anche in questo caso un “maldestro” Lukaku ha contribuito alla sconfitta).
In definitiva, pur accettando la replica di un ancora assente acuto internazionale (bisognerebbe però innanzitutto guidare formazioni che le coppe le disputano e quando lo fanno non sempre in fase di estrema costruzione), con Antonio Conte si ha la certezza di superare i propri limiti e partire dal presupposto di poter raggiungere livelli e traguardi superiori alle potenzialità oggettive del gruppo a disposizione.
BIO: ANDREA FIORE, con DIEGO DE ROSIS, gestisce la pagina INSTAGRAM @viaggionelcalcio.