Un entusiasmante excursus dei vent’anni di fine secondo millennio in cui la nostra Serie A era di gran lunga il campionato più bello del mondo.
Dal 1983 al 2003 le squadre italiane hanno raggiunto 14 volte (di cui una finale tutta italiana) la finale di Champions League (Coppa dei Campioni), 6 volte la finale di Coppa delle Coppe (fino al 1999), e 10 volte la finale di Coppa Uefa (di cui 3 finali tutte italiane).
Roma, Juventus, Milan, Inter, Sampdoria, Napoli, Fiorentina, Torino, Parma (senza dimenticare Genoa, Vicenza, Cagliari, Atalanta e Bologna, arrivate pure loro ad un passo da una finale europea), sono state tutte assolute protagoniste, in periodi diversi, della nostra Serie A ma anche del calcio europeo e mondiale al suo massimo.
Maradona, Falcao, Gullit, Van Basten, Matthaus, Ronaldo, Careca, Zico, Batistuta, Weah, Zidane, Thuram, Cerezo, Platini, Figo, Papin e tantissimi altri, tutti i più grandi campioni stranieri hanno optato per l’Italia in quegli anni, a cui ovviamente si aggiungono le eccellenze di casa nostra Baresi, Maldini, Buffon, Vialli, Mancini, Schillaci, Giannini, Pagliuca, Del Piero, Baggio, rendendo grande e unica la Serie A e rendendola la massima espressione calcistica a cavallo del terzo millennio, facendo impazzire i tifosi di tutta Italia e di tutto il mondo.
SILVIO BERLUSCONI
La situazione del calcio in Italia, lo sport di gran lunga più seguito e popolare nel Belpaese, è senza dubbio lo specchio della società in cui viviamo, con tutte le sue contraddizioni e con tutti i suoi cambiamenti arrivati nel corso dei decenni.
Come sappiamo lo sviluppo economico italiano e mondiale ha portato il mondo del calcio a una profonda trasformazione.
Il calcio infatti da almeno 30 anni a questa parte, viene utilizzato non solo come strumento di divertimento, passatempo popolare e fonte di grande e genuina passione, ma anche come mezzo per ottenere profitto, potere e visibilità, in un processo di sistematico sfruttamento massimo e intensivo, quasi esclusivamente con fini economici, della suddetta passione popolare.
Al netto di ciò, giusto o sbagliato che sia, lo scenario che si pone di fronte ai miliardi di appassionati di calcio nel mondo è questo:
Ad oggi, le Leghe più o meno famose e “vendibili” a livello di media, diritti TV e appetibilità ambientale (tradizione, storia, infrastrutture, etc.), sono composte da squadre le cui proprietà fanno capo a cordate chiamate “Holdings”, che hanno un referente ufficiale (il cosiddetto Presidente) per la squadra e i tifosi, ma che in realtà rispondono esclusivamente a un gruppo ristretto di executive aziendali quasi sempre disconnessi dalle sorti sportive della squadra.
Vi è quindi un gruppo di esperti di economia che valuta gli investimenti fatti e da fare, il tutto a prescindere dall’andamento della squadra sul campo.
Insomma, in poche parole, il fatto che la squadra vinca o che la squadra perda, non sempre è la priorità per la holding di proprietà.
E qui si viene giocoforza a perdere il vero spirito primordiale del gioco del calcio.
Analizzando la situazione, queste sono le proprietà delle squadre italiane di Serie A nella stagione 2024/25:
Atalanta – Stephan Pagliuca
Bologna – Joey Saputo
Cagliari – Tommaso Giulini
Como – Robert Budi e Michael Hartono
Empoli – Fabrizio Corsi
Fiorentina – Rocco Commisso
Genoa – 777 Partners
Inter – Oaktree
Juventus – Exor
Lazio – Claudio Lotito
Lecce – Saverio Sticchi Damiani
Milan – Gerry Cardinale
Monza – Fininvest
Napoli – Aurelio De Laurentiis
Parma – Kyle Krause
Roma – Dan Friedkin
Torino – Urbano Cairo
Udinese – Giampaolo Pozzo
Venezia – Duncan Niederauer
Verona – Maurizio Setti
Prendendo a caso un qualsiasi campionato di Serie A compreso tra il 1983 e il 2003, come ad esempio il campionato 1992/93, queste erano le proprietà:
Milan – Silvio Berlusconi
Inter – Ernesto Pellegrini
Napoli – Corrado Ferlaino
Juventus – Vittorio Caissotti di Chiusano
Roma – Franco Sensi
Lazio – Sergio Cragnotti
Torino – Roberto Goveani
Genoa – Aldo Spinelli
Cagliari – Massimo Cellino
Sampdoria – Paolo Mantovani
Atalanta – Antonio Percassi
Foggia – Claudio Francavilla
Udinese – Giampaolo Pozzo
Fiorentina – Mario Cecchi Gori
Brescia – Luigi Corioni
Ancona – Corrado Catalani
Pescara – Pietro Scibilia
GIAMPAOLO POZZO
Al netto del fatto che il presidente dell’Udinese Giampaolo Pozzo è ancora in carica, e che in tutti questi anni ha gestito in maniera esemplare l’Udinese, confrontando queste due liste di nomi, balza all’occhio la profonda differenza socio-antropologica tra le due epoche.
Negli anni Novanta tutti i proprietari presidenti erano imprenditori importanti, a capo di aziende di grande rilievo in Italia, ma tutti allo stesso tempo “legati” al mondo del calcio per passione o per voglia di visibilità extra a margine del proprio impero imprenditoriale.
Molti di loro erano ancora molto legati al proprio territorio (lo stesso Pozzo, ma anche Berlusconi, Ferlaino, Pellegrini, Sensi, Spinelli, Mantovani o Cellino), tanto da investire il proprio patrimonio nella propria città, non solo per spirito imprenditoriale ma anche per passione.
Pare evidente che sia venuta ad affievolirsi e poi a mancare quella sorta di “poesia” intrinseca, ovvero la figura del focoso presidente che appassionato dei propri colori e delle proprie radici si gettava a capofitto nel mondo del calcio, anche facendo sotterfugi e cose non propriamente morali.
In realtà, anche a confronto degli anni Novanta, le cose erano già cambiate da un decennio o due prima.
Figure al tempo mitiche di presidenti come Romeo Anconetani del Pisa, Costantino Rozzi dell’Ascoli, o Angelo Massimino del Catania, erano figure che stavano già scomparendo, data la crescita esponenziale della notorietà della Serie A, e di conseguenza la crescita di disponibilità monetarie e finanziarie necessarie per avere una squadra perlomeno competitiva.
Da lì infatti arrivarono i primi grandi imprenditori, intesi come veri e propri capitani d’industria (come Berlusconi al Milan, o Cragnotti alla Lazio, o Pellegrini all’Inter), sintomo di un’era, quella dei presidenti anni Settanta, destinata a terminare, lasciando spazio a un altro tipo di imprenditorialità presidenziale, ancora molto diversa dall’era attuale, ma già con differenze sostanziali.
E riguardando la lista di proprietà attuali rispetto a quella degli anni Novanta, la distanza risulta essere abissale.
CORRADO FERLAINO E DIEGO ARMANDO MARADONA
Ma perché al giorno d’oggi la nostra Serie A è una lega meno ambita a livello mondiale, di quanto lo sia la Premier League?
Ovvio che non sempre la pecunia fa la differenza, anche perché sennò la Saudi League, la lega saudita, che negli ultimi anni sta attirando giocatori di primo piano mondiale, magari in parabola discendente, sarebbe la più ambita per tutti i più grandi campioni.
I soldi quindi non fanno la differenza ma hanno ovviamente un certo peso, soprattutto a (quasi) parità di prestigio, storia e tradizione.
I numeri non tradiscono quasi mai, e il confronto tra il monte salari della Premier League e quello della Serie A è estremamente indicativo.
Cinque squadre inglesi, Manchester City, Manchester United, Arsenal, Liverpool e Chelsea hanno un monte stipendi più alto della prima squadra di Serie A, l’Inter, che vanta 139.940.000 di euro di salari.
Man City e Man United (rispettivamente 263.176.000 e 246.588.000 euro) spendono più del doppio della seconda classificata nella classifica delle squadre di Serie A, la Juventus, con 113.482.000 euro, mentre ben 11 squadre della Serie A hanno un monte salari inferiore rispetto alla squadra di Premier League dagli stipendi minori, il Wolverhampton, che vanta 40.263.600 euro.
Sono semplicemente mere statistiche, che però la dicono lunga sul potere di acquisto da parte della Premier.
Se a questo si aggiungono il valore dei diritti televisivi della Premier League, la diffusione e il seguito nel mondo che ha il campionato inglese (soprattutto in Asia), e quanto tocchino l’immaginario comune degli appassionati tutti i mitici loghi delle squadre inglesi, che da decenni siamo abituati a vedere e ad apprezzare, il gioco è ampiamente fatto.
CRISTIANO RONALDO
Come detto i soldi non sono tutto, perché ad esempio la squadra saudita Al-Nassr (la squadra di Cristiano Ronaldo) vanta un monte stipendi più alto di quello del Manchester City (309.230.000 euro per i sauditi), e tutto ciò non fa comunque di lei una meta di primo piano per i calciatori che vogliono competere per davvero per i massimi traguardi calcistici mondiali, come la Champions League, l’Europa League o il Campionato Mondiale.
Ma se si analizzano tutte le sfaccettature che un campione di primissimo piano valuta per scegliere una squadra, tenendo conto di media stipendi, tradizione, blasone, storia e livello del campionato, la scelta quasi sempre va verso la Premier League, lasciando agli altri campionati, comunque di altissimo livello come Serie A, Liga o Bundesliga, il “resto” dei grandi campioni.
E vent’anni fa, per vent’anni, questa aura di magia e blasone che ha la Premier League al giorno d’oggi, a livello di obiettivo e ambizione per tutti i più forti giocatori, l’aveva la Serie A.
Eravamo gioia, palpitazione, passione, equilibrio, cagliaritani, bellezza, splendore, interisti, intrattenimento, viaggiatori, romanisti, cuore, lacrime, viola, spettacolarità, granata, unione, milanisti, goliardia, parmensi, armonia, juventini, passatempo, vicentini, dominatori, avanspettacolo, blucerchiati, dramma, batticuore, genoani, sbalorditivi, atalantini, svago, napoletani, affiatamento, rivalità, laziali, investimenti, bolognesi, incanto, magnificenza, meraviglia, ammirati.
Eravamo tutto questo, QUANDO ERAVAMO LA PREMIER.
BIO: Daniele Vecchi è un giornalista, scrittore, commentatore, TV producer e Communication Manager di Ferrara. Ha scritto 12 libri di basket, calcio e narrativa, è appena uscito il suo nuovo libro LUKA DONCIC – IL GIOVANE DELLE MERAVIGLIE.
Ex musicista, da sempre nel mondo dello sport, commenta la Bundesliga per Sky Sport Switzerland, il Guinness Six Nations di rugby, collabora con La Giornata Tipo, con la Lega Volley Maschile e con la CEV (Confédération Européenne Volleyball).