Correva l’estate del 1995 quando il Milan, già culla di campioni, decise di spalancare il palcoscenico all’ovazione omerica della folla e portare a San Siro Roberto Baggio, il Divin Codino. Per 18,5 miliardi di lire, Baggio decise di vestire rossonero, con la sfida implicita di riportare il Milan sul tetto d’Italia. Il Milan di quegli anni, che aveva appena concluso l’epopea capelliana con un gioco rigoroso all’insegna del pragmatismo, decideva di aprire le porte a uno dei talenti più puri del calcio italiano. Dejan Savicevic, genio e stella già consacrata del Milan, fu chiaro e diretto: “Con Baggio e Weah lo scudetto è obbligatorio”. Una dichiarazione audace, ma figlia dell’ambizione di un gruppo che respirava grandezza.
Baggio arrivava con il peso di un Mondiale perso per un rigore maledetto e un’uscita difficile dalla Juventus, ma anche con la consapevolezza di essere uno dei simboli del calcio mondiale. Al suo fianco, George Weah, l’attaccante liberiano che sembrava creato dalla penna di un romanziere epico, destinato a imprese in grado di travolgere ogni difesa. E poi c’era il Milan, la società che più di tutte aveva saputo costruire leggende sotto l’ombra della Madonnina.
Capello aveva chiesto a gran voce l’acquisto dell’asso veneto. Tuttavia, il tecnico friulano, pragmatico stratega, lo vedeva come una gemma preziosa da preservare, temendo di bruciarlo in partite da novanta minuti che avrebbero potuto logorare le sue fragili gambe. Lo sostituiva spesso, troppo spesso per i gusti di un campione che si sentiva ancora padrone del proprio destino. E Baggio, che di certo non ha mai avuto timore di dire ciò che pensava, mal digeriva quella gestione. Le sue dichiarazioni erano rare, ma quando arrivavano, erano taglienti come le sue giocate di quel biennio: non tantissime, ma di una qualità inimitabile. Lo scudetto arrivò con la concretezza di una squadra che sapeva ancora come imporsi sul campo. Fu però un trionfo più legato alla solidità della difesa e all’equilibrio generale che all’esplosione del gioco brillante che Baggio e Weah promettevano.
Non tutto filò liscio come avrebbe dovuto. Il Milan di quegli anni iniziava a fare i conti con il peso del suo stesso nome, con la pressione di dover vincere sempre e comunque. La seconda stagione di Baggio in rossonero fu una parabola discendente. Tabarez fu presto sostituito da Arrigo Sacchi, di ritorno per cercare di risollevare un Milan in crisi d’identità. E qui si toccò il nodo vero: Sacchi, pur rispettando il talento di Baggio, non riusciva a vederlo come il cuore della sua filosofia tattica. Sacchi era un dogmatico, un uomo che credeva nel collettivo come valore supremo, e il genio anarchico di Baggio mal si inseriva in quel contesto. Fu così che il Milan, nonostante l’innegabile qualità tecnica, cominciò a perdere la sua rotta.
Arrigo Sacchi è presente nella vita di Baggio sin dal giorno del gravissimo infortunio di Vicenza-Rimini di Serie C. Un giovane Sacchi era difatti alla guida della squadra romagnola. Le loro strade si sono incrociate nelle vesti di allenatore e giocatore dopo la mancata qualificazione agli Europei del 1992. Esonerato Azeglio Vicini, la Federcalcio ha optato per il tecnico di Fusignano, che ha impostato la Nazionale come squadra di club, puntando su uno zoccolo duro, non disdegnando tuttavia l’inserimento del Divin Codino. Il rapporto iniziale tra i due è stato all’insegna dell’amore calcistico. Dopo il deludente esordio a USA ’94 (sconfitta contro l’Irlanda) il CT ha difeso a spada tratta la sua stella con parole emblematiche: “Oggi non scambierei mai Baggio con Maradona”. L’idillio tra i due è finito con la seconda gara, quella vinta contro la Norvegia, a seguito della famosa sostituzione del numero 10 azzurro visto il rosso comminato a Pagliuca.
Il rapporto tra Roberto Baggio e Arrigo Sacchi, anche dopo lo straordinario Mondiale del ’94, non tornò mai più ai fasti iniziali. È una di quelle storie in cui il calcio si intreccia con il destino, con l’umanità dei protagonisti, fino a creare crepe che nessuna prestazione sul campo può più sanare. Sacchi, anni dopo, spiegò che la famosa sostituzione contro la Norvegia aveva segnato una frattura irreversibile. Baggio si era sentito tradito, non solo come giocatore, ma come uomo. La loro amicizia, fondata su un’intesa calcistica che sembrava inviolabile, si era incrinata per sempre.
Il tempo non riuscì a guarire quella ferita. Quando i due si ritrovarono al Milan, il passato recente era ancora troppo ingombrante. L’esclusione di Baggio da Euro ’96 — una decisione che per molti fu il simbolo del fallimento di quella spedizione, più sul piano del gioco che dei risultati — aveva solo peggiorato la situazione. Il rapporto, già logoro, non poteva che andare in pezzi. Sacchi, con le sue richieste tattiche, e Baggio, con la sua genialità anarchica, non potevano più trovare una sintesi. Quelle frizioni, quelle incomprensioni, erano destinate a degenerare una volta riuniti. Due strade che, dopo aver scritto pagine epiche insieme, si erano allontanate per sempre, incapaci di ritrovarsi, come due attori che non possono più recitare lo stesso copione.
Nel secondo anno di Roberto Baggio al Milan, sotto la guida di Oscar Tabarez, il Divin Codino alternava momenti di classe pura a ombre che sembravano seguire ogni suo passo. Era un uomo in bilico, tra l’eterno peso delle aspettative e la fragilità di un corpo che, a volte, sembrava tradirlo. C’erano serate in cui Baggio sembrava sul punto di ridare vita al fuoco sacro che lo aveva reso grande, quei dribbling sinuosi, i passaggi filtranti che tagliavano il campo come una lama nel burro. San Siro, in quelle notti, si accendeva, un lampo di magia che illuminava il volto dei tifosi rossoneri. Ma quel fuoco, quel guizzo di genio che poteva portare il Milan a ripetersi, rimase sempre a metà strada. Un bagliore che non riuscì mai davvero a incendiare tutto.
Il biennio di Baggio al Milan è stato un’alternanza di bagliori e ombre lunghe. Pur vincendo lo scudetto nell’annata di Capello, il Divin Codino è stato spesso sostituito. Con Tabarez e Sacchi (per la serie “c’eravamo tanto amati”), i rossoneri non si sono qualificati per le coppe europee, arrivando nella parte destra della classifica. Tornato Capello, il numero 10 vicentino è stato fatto gentilmente accomodare alla porta. Nella stagione che portava al Mondiale di Francia ’98, Baggio non avrebbe mai accettato il ruolo da comprimario a cui lo avrebbe relegato Don Fabio. E così, gentile ma fermo, Capello ha mostrato a Baggio la porta. La cronaca del calciomercato si riempì di voci. Si parlava di un possibile trasferimento in Inghilterra, al Manchester United o in club meno altisonanti. Un futuro incerto per un uomo che, ovunque andasse, portava con sé il peso del genio e l’ombra della malinconia.
In Italia, l’affare con il Parma saltò, e il destino si fece beffe di tutti. Carlo Ancelotti, il Sor Carletto, uomo di calcio come pochi, impose il veto. Il DS Sogliano aveva già apparecchiato tutto: l’accordo era pronto, mancava solo la firma, quella stretta di mano che cambia i percorsi. Ma Carletto nicchiò, e la ragione sembrava logica, razionale, quasi scolastica: nel suo rigido 4-4-2, quel fuoriclasse indomabile, il Divin Codino, non trovava spazio. Eppure, ora, a ripensarci, suonano quasi paradossali quelle parole. Ancelotti, l’uomo che avrebbe fatto della fantasia e della creatività il suo vessillo, si trovò ad alzare un muro proprio davanti a uno degli artisti più puri del calcio italiano. Ma il calcio, come la vita, è strano: sorride e poi si volta. Anni dopo, Carletto stesso mostrò un pentimento sincero, umano, come un confessore che ha smarrito la via della redenzione troppo tardi. Si rese conto che, forse, quel no, in fondo, era un errore. Ma la storia aveva già preso la sua strada. Doveva andare così. E così andò. Baggio si accasò a Bologna, chiuse un altro capitolo della sua avventura rossonera dopo appena due stagioni. Un capitolo fatto di scintille di genio e di incomprensioni.
Il Milan, che aveva scommesso su Baggio per mantenere il suo status di grande club internazionale, si ritrovò invece a doversi confrontare con un contesto in rapido cambiamento, dove le dinamiche tattiche evolvevano e alcune scelte tecniche soffocavano il potenziale creativo. E così, pur con la vittoria del primo anno, il matrimonio tra Baggio e il Milan si concluse con una sensazione di incompiuto. Non fu mai una rottura drammatica, ma piuttosto un lento distacco, come di due persone che, pur ammirandosi, si rendono conto di non essere destinate a camminare insieme verso il futuro.
La storia di Baggio al Milan resta quella di un campione che, nonostante il talento incommensurabile, non riuscì mai a integrarsi pienamente. Tuttavia, il suo passaggio in rossonero ha lasciato il segno: momenti di luce abbagliante, giocate che rimarranno nell’immaginario dei tifosi (un esempio emblematico è dato dal tributo riservatogli da San Siro nell’ultima gara ufficiale, quel Milan-Brescia del 2004) e, soprattutto, la conferma che, nel calcio, come nella vita, l’ambiente e il contesto sono tutto.
Forse, in un Milan diverso, Baggio avrebbe trovato lo spazio per far esplodere quella magia che portava dentro, avrebbe potuto arrivare a quei trionfi che la sua classe, mai doma, meritava davvero. Ma nel calcio, come nella vita, a volte non basta essere il migliore: bisogna anche trovarsi al posto giusto, nel momento giusto.
BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.