SE DOVESSI COMINCIARE AD ALLENARE

SE COMINCIASSI A FARE L’ALLENATORE MI FAREI GUIDARE DAL PARADIGMA DELLA TRANSDISCIPLINARIETÀ (oltre la specializzazione, per un calcio di connessione dove a prevalere è il principio di comprensione profonda della molteplicità).

Domande:

1) Riteniamo che la prestazione calcistica sia un’attività complessa?

2) Ammettiamo il principio che la prestazione della squadra e dei singoli derivino dalla qualità delle decisioni che si assumono?

3) Siamo persuasi che queste decisioni siano condizionate dal contesto?

4) Assumiamo tutti la convinzione che a determinare il contesto siano la palla, i compagni e gli avversari?

5) E infine, che si è forti quando riusciamo a coniugare talento individuale e organizzazione collettiva?

6) E, se è vero tutto questo, quale calciatore per “ vivere positivamente “ tutto questo? E quale approccio metodologico?

Premessa

Sono convinto che per orientarsi efficacemente nella complessità della gara, i calciatori debbano possedere una comprensione profonda del gioco in tutti i suoi aspetti. Le situazioni succedendosi dinamicamente e spesso in maniera inattesa, richiedono una grande capacità di adattamento.

Non solo, poichè si va sempre più verso un calcio dove il ruolo non è più ” localizzato” ma sempre più “globalizzato “, diviene necessario possedere una vasta e elevata capacità di saper fare più cose ( oltre la specializzazione).

Difatti le ” funzioni” sono talmente interconnesse da risultare contaminate nella loro integrazione. Flessibilità, polivalenza, multifattorialità, pongono problemi enormi nell’agire didattico dell’allenatore, che diventerà sempre più complesso per il fatto che non sarà più possibile programmare una rigida linea di intervento, ma aperta e fluida, dove possano essere sollecitate e sedimentate esperienze variegate e significative. Saranno richieste sempre più elevate competenze sotto il profilo metodologico tali da permettere di saper governare questo processo, “disegnando” contesti sempre più generativi e perturbanti.

Sarà sempre più prioritario “lavorare” sia sulla squadra, che sui singoli, ponendo maggiore enfasi sulla promiscuità che sulla specializzazione. Diverrà inderogabile il superamento del “mio metodo” e del “mio calcio” a vantaggio del pluralismo metodologico e della intelligenza collettiva e distribuita.

In effetti si tratterà di mettere in campo un approccio “radicalmente” diverso da quello tradizionale, un approccio multidimensionale, in molti casi divergente, l’unica strada per la valorizzazione del talento, della creatività e della fantasia, unici antidoti per combattere prevedibilità e uniformità.

Entriamo in campo, nel concreto.

L’INDIVIDUO NEL COLLETTIVO, LA SQUADRA NELL’INDIVIDUALE

“seguire l’uomo a tutto campo crea confusione, altera gli equilibri”, per cui la strategia migliore da contrapporre è ruotare le posizioni, non dare punti di riferimento per portare a spasso i difendenti” (Gasperini )

Benissimo.

E una volta che si perde palla, che succede? I giocatori che occupavano il campo in modo fluido per portare a spasso per il campo i propri marcatori, potranno da un momento all’altro ricomporre una struttura difensiva equilibrata, un’organizzazione di reparto collettiva senza equivoci?

Credo di si.

Si pensa che difendere seguendo l’uomo (come priorità) possa generare confusione e alterare l’organizzazione collettiva, quando gli avversari si muovono molto…Allo stesso modo allora si può pensare che muoversi troppo in fase offensiva potrebbe rischiare di creare problemi quando si perde il possesso… perché poi è difficile riassestarsi rapidamente?

È possibile anche in questo caso contare sulla comprensione del gioco con interpretazioni non codificate e contestuali?

Per quale motivo riusciamo a concepire una fase offensiva senza un ordine prestabilito, incentivando iniziative individuali (ben sapendo che è l’interpretazione del giocatore a determinare la comunicazione, le relazioni, le collaborazioni), mentre si fatica a concepire una fase di non possesso con gli stessi principi?

Perché si continua anche, anzi soprattutto in questa fase, ad illudersi di poter schematizzare, codificare ogni comportamento difensivo pur ammettendo la complessità del calcio, e la necessità di formare giocatori autonomi, che sappiano scegliere bene in campo poiché ogni situazione di gioco è unica e irripetibile?

Affidiamo volentieri l’iniziativa ai giocatori in fase offensiva, ma fatichiamo a resistere alla tentazione di controllare tutto in difesa, giustificandoci con l’idea che nel difendere sia inevitabile avere rigidità di schemi.

Non è il pensiero collettivo la strada per una strategia comune?

Se la scelta e l’azione individuale sono comunque e sempre influenzate dal comportamento dei compagni, (oltre che degli avversari ovviamente), non è il contesto a determinare lo scenario dentro al quale operare?

Perché, se in fase offensiva mi avvicino ad un compagno in possesso sull’esterno, intuendo che potrebbe aver bisogno di una collaborazione per superare un avversario, poi eventualmente ci sarà un mio compagno che darà un’altra soluzione in profondità portando via magari uno o più difensori; così come, se il portatore vincerà il duello, ci sarà qualcuno pronto a ricevere un cross in area, e così procedendo in relazione agli eventuali sviluppi, questa modalità di comportamenti (emergenti dalla situazione reale), dovrebbe spaventare in fase di non possesso?

Di una cosa ne sono certo: impedire al giocatore di scegliere, privandolo della libertà e della responsabilità di assumere iniziative personali, allenando comportamenti prestabiliti nell’illusione che ogni situazione sia riconducibile a qualche modello allenato, condizionerà in modo negativo lo sviluppo di quella comprensione del gioco che nel calcio fa sempre la differenza.

La bravura dell’allenatore sta nel saper lavorare sui principi, nel favorire una comunicazione condivisa, presupposti sui quali i calciatori costruiranno adattamenti contestuali, dove collettivo e individuale sono magicamente legati.

L’uno non esiste senza l’altro. Non si smette mai di ragionare da singoli in un collettivo, non si è mai un collettivo senza l’azione individuale.

Sarà possibile tutto questo? Oppure, si tratta solo di una bella “UTOPIA“?

Chissà!

2 risposte

  1. Raffaele, permettimi di darti il tu (da buon pugliese tendo a darlo a tutti i partecipanti al salotto).

    Ho letto con grandissimo interesse il tuo articolo, lo trovo interessante e molto stimolante. Scusami se schematizzo, ma l’ho interpretato come il “caos organizzato in base a principi”, l’idea è fantastica, poichè nulla più è prevedibile, l’assenza di prevedibilità ovviamente crea spazi.

    Ma, il problema, (sicuramente condivido le risposte implicite alle tue domande), come osservi anche tu, questo modo di giocare può ingannare anche i propri compagni.

    Ecco, io sono per un mix di atteggiamento, dare comunque per spazi e compiti delle certezze alla squadra (ognuno gestisce il proprio spazio in funzione dei compiti primarie secondari ricevuti), ma pur nel caos dei movimenti individuali il campo deve rimanere presidiato in modo corretto. Diversamente si rischia di prendere gol ogni qual volta si perde la palla.

    Un saluto.

  2. Caro Giuseppe, intanto grazie per il tuo commento di grande interesse.
    La chiave di volta di questo modello è la ” comprensione profonda ” da parte di ognuno delle dinamiche del gioco. Se avviene questo da parte di tutti, divengono più efficaci le cosiddette ” autorganizzazioni” contestuali. Poi, è chiaro che bisogna fare i conti con i propri giocatori, che può darsi che per esprimere compiutamente le proprie qualità, necessitano di punti di riferimento spaziali precisi e sicuri ( il ruolo). Ma io credo che, e mi auguro che ciò avvenga nel prossimo futuro, sia più importante la capacità di saper utilizzare ( funzioni) gli spazi che di volta in volta le circostanze impongono. Ma ripeto, questo è tutto da realizzare.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *