IL PREGIUDIZIO BIFRONTE SU MARIA SOLE FERRERI CAPUTI

Inter-Venezia: ecco dunque la “tenzone” che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto celebrare la bellezza semplice e schietta del calcio. La gara, invece, s’è rivelata combattuta oltre i pronostici, una sfida serrata e vibrante. L’Inter ha domato i lagunari con un misurato 1-0, ma il finale è stato un vero thriller: il gol di Sverko, che avrebbe potuto ribaltare tutto, è stato annullato per un tocco di mano. Così, è svanito il sogno del Venezia, mentre l’Inter, d’un soffio, ha difeso il suo bottino prezioso.

Come spesso accade da qualche tempo a questa parte, a uscirne stravolto non è stato solo il tabellino – condizionato, se proprio vogliamo dirlo, da quel che l’occhio umano può vedere e non vedere – bensì la direttrice di gara Maria Sole Ferreri Caputi, finita suo malgrado tra i denti del ciclone mediatico. Si direbbe che la sua sola presenza sul campo basti per trasformare ogni fischio, ogni occhiata, ogni gesto, in una questione che esorbita persino il gioco.

Di qui il pregiudizio bifronte, maschera e volto, pensando a Brecht: da una parte il pregiudizio velenoso, quello di chi, perché donna, le affibbia senza ritegno l’etichetta d’imperizia. Dall’altra, il pregiudizio “positivo” – o forse “sciovinista” – di chi la erige a baluardo d’uno stato di cose superiore, per un principio puramente ideologico, e la difende a prescindere, quasi che la sua abilità sia estranea al gioco, al gesto atletico, al calcio in sé.

Qualunque sia l’episodio – che sia un fallo non visto, un rigore contestato o una chiamata rovesciata dalla VAR – Ferreri Caputi viene colpita dalle frecce avvelenate dell’opinione pubblica. “Salvata dal VAR”, si sussurra tra chi le critica ogni imperfezione; oppure “finalmente una donna al potere!”, mormorano i difensori incrollabili, come se arbitrasse con una veste da sacerdotessa.

Ma è proprio qui che si annida il vero guaio: il giudizio dovrebbe cadere, vorrebbe cadere, sul suo arbitraggio, e non sul suo genere. Ferreri Caputi non ha bisogno d’essere una paladina né una paria. Ha bisogno d’essere lasciata in pace, osservata solo come professionista, priva di quegli orpelli ideologici. Si appiccicano addosso come parassiti, quei pregiudizi cresciuti tra le pieghe della cronaca, alimentati da personaggi in uno stato di esaltazione parossistica.

In tempi non sospetti, l’ex direttore della testata per cui scrivo ebbe l’acume di prodursi in un’analisi limpida e pacata. Ricordo una gara tra Napoli e Cremonese, dove l’arbitraggio della signora Ferreri Caputi risultò, a dirla tutta, manchevole, disseminato di errori che flagellarono l’una e l’altra squadra. L’opinionista rilevò, con apprezzabile lucidità, che criticare la prestazione dell’arbitro livornese significava entrare nel merito, scartando qualsiasi preconcetto, positivo o negativo che fosse. Per contro, si richiede altrettanta equità nel riconoscere i suoi meriti quando questi emergano, perché è l’arbitro che va giudicato, e non certo il suo sesso.

Resta da dire che il suo lavoro non è certo facile. Il rigore d’un tempo non c’è più, la velocità è aumentata e la VAR è un controsenso d’indipendenza, ma anche di “sospiro di sollievo”, per dirla tutta. La Ferreri Caputi potrà migliorare, come tutti; ma giudicarla solo per ciò che è, donna o uomo che sia, sarebbe già una vittoria.

Il giudizio su di lei si fa bifronte, diviso, paradossale: da una parte, un entusiasmo quasi cieco, una sorta di idolatria verso ciò che rappresenta. Dall’altra, un pregiudizio sordo, restando in ambito sensoriale, un’ostilità che si nasconde dietro una coltre di scetticismo. Maria Sole, si muove in questa trama come un funambolo sopra il vuoto. C’è la consapevolezza di essere altro rispetto a un uomo nella stessa posizione, di dover combattere per una legittimazione che agli altri viene concessa in partenza. Il suo arbitrare è condizionato, suo malgrado, da questo doppio sguardo, questo occhio bifronte che la osserva senza tregua. I fischi, i gesti, le corse, ogni suo movimento è scandito dall’occhio giudicante, che da un lato idealizza, dall’altro disprezza, senza mai lasciare spazio alla normalità.

Perché di questo si tratta: della mancanza di una normalità. In lei si cerca il simbolo o il difetto, ma mai l’umanità. Come se una donna non potesse essere, semplicemente, un arbitro.

BIO: VINCENZO DI MASO

Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.

Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia. 

Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.

Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.

Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *