LA PEDAGOGIA ANTIAUTORITARIA E LA METODOLOGIA OPERATIVA NEL CALCIO DI ALTO LIVELLO

TUTTO CIÒ CHE SO, E PROBABILMENTE È ANCORA INSUFFICIENTE,

SULL’APPRENDIMENTO MOTORIO.

Sono stato molto severo con me stesso. Ho sempre anteposto il rigore morale avanti a tutto. Affetti, amicizie, passioni, rispetto e attenzione per i più indifesi, sono stati i miei valori. Non ho mai perseguito, per libera scelta, il successo ai danni dei rapporti umani. Il fatto poi, di non aver mai rincorso la ricchezza economica, mi ha dato una grande libertà personale, specie di pensiero. Ho sempre ritenuto che il mio ruolo, attraverso le mie attività, fosse quello di contribuire a cambiare il mondo, impegnandomi in prima persona tutte le volte che ce n’era bisogno. Non ho mai avuto timore di prendere posizione, specie quando si trattava di combattere le ingiustizie. Sul piano professionale, a cominciare da quello scolastico, che ha sostenuto e vivificato l’agire calcistico, sono sempre stato mosso da tre tipi di interesse: quello della riflessione teoretica, quella della ricerca sul campo e infine quella per una prassi metodologico-didattica, diventate nel tempo un tutt’uno coerente e organico a tal punto che non era più possibile distinguerli tra di loro.

Pur riconoscendomi un adeguato bagaglio culturale, sono sempre stato attento e permeabile a tutto ciò che di nuovo e diverso accadeva e accade intorno a me. In questa fase della mia esistenza forte è il desiderio di vedere fiorire una nuova classe dirigente sportiva che riesca a sanare tutti i mali del calcio e un “ ALLENATORE NUOVO “ che abbia voglia di crescere professionalmente.

Fatta questa privata premessa, di cui me ne scuso anticipatamente se a qualcuno possa aver dato fastidio, vi sottopongo il seguente documento in cui cerco di fare il punto, in relazione a quelle che sono le conoscenze di cui dispongo sull’apprendimento, di quello motorio e sportivo in special modo.

A questo tema sono particolarmente affezionato perché mi rimanda al concorso a cattedra per l’insegnamento dell’educazione fisica e sportiva ( all’epoca si chiamava così) del lontano 1982 (conclusosi molto positivamente) dove sviluppai la seguente traccia: processi e tappe fondamentali dell’apprendimento motorio e collegamenti della motricità con le aree cognitiva, emotivo-affettiva e socio-relazionale della personalità, dove in maniera embrionale stava entrando la complessità nelle scienze motorie.

Il prestigioso risultato conseguito mi ha dato la possibilità e il privilegio di frequentare le più brillanti intelligenze del mondo dell’educazione fisica e sportiva, anche del panorama internazionale, e ciò mi ha giovato enormemente.

Infatti, ciò indusse il ministero a inserirmi nell’ équipe nazionale di formatori a cui fu affidato il compito di rinnovare l’ insegnamento della disciplina. A me fu assegnato il compito di occuparmi della innovazione dal punto di vista metodologico e didattico della formazione dei grandi giochi sportivi collettivi e di invasione. Un compito prestigioso e impegnativo, che ho conservato per una decina di anni facendo seminari su tutto il territorio nazionale. Poi dovetti rinunciare in quanto crebbe sensibilmente il mio impegno nel calcio agonistico al punto tale da non poter più conciliare tutto quanto.

Ricordo che in quel periodo le neuroscienze non avevano ancora fatto irruzione in campo sportivo e men che meno in ambito educativo, a differenza di oggi che sono diventate pervasive in tutte le attività umane dove si esercitano formazione e apprendimento.

Faccio presente che all’ epoca imperava il metodo analitico ( quello autentico) e cominciava ad affacciarsi timidamente quello globale. Nulla a che vedere comunque con ciò che avevo in animo di proporre. Per quanto riguarda la lezione, lo schema era questo: riscaldamento generale, riscaldamento specifico, parte centrale (elemento tecnico, piuttosto che potenziamento fisiologico, oppure capacità coordinative) e si concludeva quasi sempre con un gioco.

Se ci riflettete, simmetrico a ciò che avveniva sui campi di calcio, e che purtroppo facciamo fatica ancora a liberarcene del tutto: attività frazionate, la tecnica separata dal tutto, il gioco come premio (la partitina finale). E da lì ha avuto inizio la mia storia professionale: educare nel, con e attraverso il gioco (ripeto, mi dovevo occupare del rinnovamento metodologico dell’insegnamento della educazione sportiva), e di tutto ciò che ne conseguiva (approccio comunicativo, itinerari didattici personalizzati, lo studente/persona al centro, attenzione al clima emotivo-affettivo, valorizzazione del contesto…).

Sgombro subito il campo, affermando che tra tutte quelle che sono state formulate, sento di condividere quella che affonda le ancore culturali essenzialmente nella fenomenologia e nell’enattivismo, che vedono la persona come totalità assegnando alla corporeità un ruolo fondamentale nel rapporto con gli altri e con l’ambiente ( cognizione incarnata, distribuita e situata ) e dal punto di vista pedagogico si sostanziano con un approccio antiautoritario e non direttivo attribuendo alla relazione la chiave dei processi evolutivi e trasformativi, tenendo presente che ho abbandonato da tempo il conflitto tra innatisti e empiristi, riconoscendomi di più in un approccio antidogmatico, alla continua ricerca di un’armonia epistemologica facendo molta attenzione, con molta fatica, a contestualizzare il tutto in ambito calcistico: esserci nel mondo, temporalità, intenzionalità, unità corpomentespirito, accoppiamento strutturale, sinergia tra filogenesi e ontogenesi, dando molto significato alla formazione del calciatore/persona e quindi ai vissuti e alle esperienze (passate e presenti) senso, scopo e significato (prospettiva futura), sapendo comunque di trovarmi di fronte a notevoli diversità.

Per questo ritengo che l’elemento coagulante possa essere rappresentato dal gioco (immergersi in esso, in tutta la sua complessità ontologica).

Di questo il mio eterno ringraziamento va al mio docente di filosofia del liceo, allievo di Masullo, fenomenologo di fama mondiale, che al quinto anno di corso quando seppe che avevo intenzione di fare l’ISEF, mi fece studiare, pur non essendo nei programmi scolastici, la fenomenologia perché era la corrente filosofica che più e meglio di altre aveva indagato la corporeità.

È chiaro ed evidente che disponendo di una solida preparazione filosofica non ho avuto particolari difficoltà a incamminarmi nei sentieri della psicologia e della pedagogia, ambiti che per altro ho dovuto approfondire per la mia professione di docente.

Giusto per ricordare che nella scuola per esempio uno sguardo fenomenologico è contrario al modello frontale di educazione, dove il docente “trasferisce” nella mente del discente il suo sapere superiore secondo un ordine “a senso unico“, culturalmente e socialmente basato sul vassallaggio. Adottare uno sguardo fenomenologico in educazione significa osservare la classe come una comunità di persone che sia in grado di diventare nel tempo responsabile della propria autoformazione. Lavorando in questo modo mi ha fatto uscire dal ruolo del docente-capo di una struttura classe univocamente dipendente.

Favorendo la costruzione di ambienti di apprendimento “autentici” che valorizzino le potenzialità di azione del soggetto nei processi di conoscenza. Da tali attività di indagine è emersa la centralità del sistema senso-motorio del corpo, suggerendo una riconsiderazione delle potenzialità di movimento e di azione.

Questo approccio pedagogico ha rappresentato un ottimo antidoto contro l’omologazione crescente. Certo è costato tempo, dedizione, cura, fatica.

In questo approccio educativo, come abbiamo detto prima, il campo della relazione è fondamentale, ed è sempre una esperienza situata. Essa si determina attraverso un processo continuo per il quale, senza rifiutare il passato, e tanto meno il presente, è il futuro a rappresentare la sua molla principale. Essa non è mai definitiva, pone sempre nuovi problemi, si può definire ” l’ eterna incompiuta”, perché è intuitiva e non oggettiva, in continua ri-interpretazione di se stessa, tesa alla continua ricerca di senso, significato e scopo.

Questa è la teoria a cui mi sento più vicino:

Non si educa il movimento, ma si educa attraverso il movimento

Per Le Boulch un apprendimento per essere tale deve passare per la presa di coscienza del soggetto, altrimenti è solo addestramento.

Il processo di apprendimento motorio e sportivo è articolato da Le Boulch in tre fasi successive:

1. Fase esplorativa globale: è una fase di messa in situazione, nella quale l’educatore si deve limitare a creare le condizioni per motivare una libera esplorazione globale, per mettere il soggetto in contatto con il problema motorio e sollecitando a trovare intuitivamente la risposta motoria alla domanda che sta alla base dell’apprendimento di quella situazione.

È una fase che costringe l’allievo alla ricerca, a costruire l’apprendimento per associazione, selezione, organizzazione. L’educatore può qui osservare l’allievo mentre esplora, può scoprirne risorse e limiti potendo poi modulare l’intervento.

2. Fase di dissociazione: consiste nell’offerta di schemi efficaci proposti dall’esterno per il tramite dei processi di interiorizzazione e di rappresentazione mentale.

3. Fase di stabilizzazione: attraverso la ripetizione del modello interiorizzato si potrà garantire la stabilizzazione degli automatismi.

Le tre fasi ripropongono le tappe codificate della strutturazione dello schema corporeo: quella esplorativa globale (0-3 anni), quella di dissociazione (fino ai 7 anni) e quella della stabilizzazione.

L’apprendimento è di tipo intelligente: non si parte dalla tecnica, ma questa viene scoperta.

Si tutela così la possibilità di adattare a sé la tecnica e di plasmarla sulle proprie caratteristiche.

Molto influenzata, anzi lo traduce in ambito motorio e sportivo, dall’approccio fenomenologico (vivere il mondo circostante storicamente (avere coscienza di…), intuire e riconoscere il senso, attribuire scopo e significato (intenzionalità), ricondurre il tutto al proprio Umwelt (mondo conscio e inconscio), cognizione distribuita e altro ancora.

È chiaro che non sottovaluto la componente naturale (stazione eretta e gli “ schemi “ posturali e motori ) e biologica (basti pensare alle percentuali di fibre bianche o rosse, oppure alla capacità di reclutamento neuronale…) che influenzano enormemente la prestazione. Ma, siccome in mezzo al campo si devono risolvere continuamente problemi, questa competenza è quasi del tutto “ culturale “ che, in maniera dialettica, ritorna sulla natura e via di questo passo senza soluzione di continuità.

Vediamo più nel dettaglio quali sono le componenti biologiche (ereditarie, appartenenti al corredo genetico individuale) che influenzano la qualità dell’apprendimento motorio e sportivo:

– conformazione e sviluppo degli apparati: scheletrico, articolare e muscolare

– sviluppo strutturale dell’apparato nervoso

– sviluppo dell’apparato cardiocircolatorio e respiratorio

– prerequisiti strutturali (strutture anatomiche, biochimiche, neurofisiologiche):

– strutturazione dello schema corporeo (idea e consapevolezza del proprio corpo)

– funzione di controllo degli equilibri

– funzione di controllo della lateralità

– funzione di coordinazione globale, percettivo – motoria e segmentaria

– funzione di orientamento spazio – temporale

– funzione di controllo del tono posturale

– funzione di rilassamento psichico e corporeo

Quindi, emerge che l’essere umano nel corso del suo percorso ontogenico (di evoluzione) sviluppa abilità motorie, intellettive, emotive, sociali e comunicative che si influenzano a vicenda.

Attualmente, alla luce delle evidenze scientifiche, che se da un lato confermano le intuizioni della fenomenologia , vedono l’apprendimento come un processo complesso quanto articolato. Esso rappresenta una modificazione adattiva del comportamento che porta all’acquisizione stabile di nuove abilità. Si attua attraverso un processo percettivo, motorio e cognitivo nella ricerca di una soluzione a un compito che emerge dall’interazione fra individuo e ambiente.

L’apprendimento è connesso alla costruzione e all’appropriazione di un’interpretazione dell’esperienza vissuta in grado di guidare un’azione nuova. Le interpretazioni sono “segmenti” degli schemi di significato edificati su assunti che il soggetto ritiene di validare e che equivalgono a dare coerenza, forma e significato alle esperienze. L’apprendimento si configura come capacità di utilizzare un significato che abbiamo già costruito, per orientare il nostro modo di pensare ed agire; significa, cioè, dare un senso alle nostre esperienze.

L’apprendimento contribuisce alla formazione di nuove reti di connessione tra neuroni e modifica le connessioni sinaptiche preesistenti. Quando un’informazione passa diverse volte attraverso la medesima sequenza di sinapsi, il percorso è facilitato e viene rinforzato. Si parla di neuroplasticità (o plasticità cerebrale) riferendosi alla capacità del cervello di cambiare nel corso della vita di una persona. È un processo molto importante: definisce il nostro sviluppo cognitivo e forma le nostre diverse personalità. Il cervello si adatta alle circostanze e all’apprendimento.

La specificità dell’ipotesi di apprendimento suggerisce che l’apprendimento sia più efficace quando le sessioni di pratica includono condizioni ambientali fedeli a quelle richieste durante l’esecuzione del compito e al contesto della prestazione.

Studi e teorie a cui si fa riferimento nell’articolo si possono trovare nell’appendice della Tesi di fine Corso UEFA PRO dell’autore, pubblicata dal Settore Tecnico.

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