Il Milan di Paulo Fonseca si muove con passo incostante, quasi schiacciato dal peso di un passato che incombe e dalle attese di un futuro ancora in divenire. A dieci punti dal Napoli capolista – pur con una gara da recuperare – e con un cammino europeo in ripresa dopo le due sconfitte iniziali, i rossoneri si trovano in bilico fra speranza e disincanto. La vittoria contro il Real Madrid ha fatto brillare la stella del Diavolo, ma le sconfitte iniziali in Champions League – contro Liverpool e Leverkusen – pesano come macigni sull’animo dei tifosi, sempre prodighi di entusiasmo ma altrettanto rapidi nel mormorare.
Un progetto in divenire
Fonseca è l’architetto di un disegno che, per sua natura, non può essere maturo in pochi mesi. La dirigenza ha puntato su di lui per riportare il Milan a un’identità più europea, con un gioco basato sul possesso palla, sulla verticalità e su un ritmo che richiama le più grandi compagini del continente. Ma un progetto così ambizioso richiede tempo, pazienza e, soprattutto, coerenza.
Il tecnico portoghese ha mostrato lampi di brillantezza tattica, alternati però a momenti di sconcertante fragilità, soprattutto difensiva. Il Milan ha steso il Real Madrid con un’impresa da incorniciare e ha piegato lo Slovan Bratislava e il Bruges. Tuttavia, quelle sconfitte iniziali nella massima competizione europea per club rischiano di precludere l’accesso diretto agli ottavi e sembrano essere il prodotto di un’alchimia ancora imperfetta. L’idea di gioco c’è, ma manca quella coralità che trasforma una buona squadra in una grande. E, soprattutto, si subiscono troppe reti. 22 i gol subiti dai rossoneri tra Champions e campionato, a fronte di 30 messi a segno. Una proporzione certo non da squadra competitiva per certi traguardi. Almeno finora.
Leao e Theo: aspettando Godot
Tra le note dolenti, spiccano due dei diamanti più pregiati della rosa: Rafael Leao (seppur in evidente ripresa nelle ultime gare) e Theo Hernandez. Entrambi sono talenti di livello superiore, capaci di squarciare le difese avversarie come fulmini nel cielo, ma appaiono irrisolti, quasi prigionieri della propria testa.
Leao alterna fiammate straordinarie a lunghi periodi di abulia. È un giocatore che vive d’istinto, ma manca di quella continuità che rende un attaccante un vero fuoriclasse. Fonseca, dal canto suo, sembra ancora in cerca della posizione ideale per lui: troppo largo sulla sinistra, rischia di perdersi; troppo centrale, si trova ingabbiato.
Theo Hernandez, invece, è una locomotiva che si è inceppata. L’uomo che ha trascinato il Milan in passato con le sue discese impetuose appare spaesato, quasi frenato da compiti tattici che ne limitano la libertà. Il portoghese deve trovare il modo di restituirgli quella spregiudicatezza che lo ha reso devastante. E, soprattutto, cercare di mascherarne i limiti difensivi.
La necessità della coerenza
Il Milan non può permettersi di abbandonare questo progetto alla prima tempesta. Fonseca ha bisogno di tempo per plasmare una squadra che, seppur incompiuta, mostra sprazzi di grande potenziale. I risultati altalenanti sono il tributo che si paga quando si tenta di costruire qualcosa di duraturo. Serve ricostruire alcune fondamenta e questo processo non può durare l’arco di una mera e semplice sessione di mercato.
La coerenza nelle scelte diventa allora una virtù imprescindibile. La dirigenza deve sostenere il tecnico, evitando i facili richiami al passato glorioso e accettando che il successo non è mai immediato. Fonseca ha dimostrato di avere una visione, tra errori e inciampi; ora sta al Milan concedergli gli strumenti per realizzarla.
E così, con Stefano Pioli, il tempo ha rivelato il suo potere taumaturgico. Sembrava il classico ripiego, il traghettatore destinato a durare quanto una fiammata d’estate. E invece, il Milan post-pandemia, quasi rigenerato da quel periodo surreale, ha saputo trovare un’identità nuova, che in due anni lo ha portato a uno scudetto atteso da oltre un decennio e a una semifinale di Champions che sa di rinascita. Risultati che, se analizzati alla luce della realtà economica e sportiva del momento, assumono una profondità che trascende il blasone. Ironia della sorte, proprio il caos della pandemia ha concesso a Pioli il tempo per plasmare un progetto che, altrimenti, rischiava di dissolversi in un nulla di fatto. Un paradosso beffardo, ma anche una storia di rivincita: quella di un uomo che, con il lavoro e l’umiltà, ha saputo trasformare un’occasione improvvisata in una delle pagine più luminose della recente storia rossonera.
E lo stesso si potrebbe raccontare dell’Inter targata Simone Inzaghi. Al primo anno, il tecnico piacentino si è fatto sfuggire lo scudetto, compensando però con due coppe nazionali che hanno lenito le ferite di un finale amaro. Al secondo anno, quando già aleggiava l’ombra dell’esonero, Inzaghi ha saputo reagire con orgoglio, trasformando il volto della squadra e portandola fino alla finale di Champions, dove ha tenuto testa al Manchester City dei giganti. Poi, nell’ultima stagione, si è issato in vetta alla Serie A con una squadra compatta e dominante, dimostrando che il calcio è anche questione di perseveranza e di nervi saldi. Un uomo che ha saputo prendersi il suo tempo, scrivendo un capitolo denso di carattere e riscatto.
Il tempo come giudice supremo
Se il calcio è la più grande rappresentazione della vita, il Milan di Fonseca è una metafora di chi lotta per trovare il proprio posto nel mondo. I risultati attuali non esaltano, è vero, ma giudicare un progetto appena iniziato sarebbe come criticare un dipinto prima che il pittore abbia posato le ultime pennellate, quelle che rifiniscono l’opera.
Il Milan scudettato viveva un momento di pura magia: Tonali sembrava scivolare su un tappeto rosso, Bennacer era integro e lucido, Kessié incarnava forza e intelligenza tattica, mentre Giroud, con la saggezza del veterano, cantava il suo glorioso swan song. E poi c’erano Leao e Theo Hernandez, due frecce che danzavano su un filo invisibile di armonia psicofisica.
Oggi, il club ha scelto la via del restyling, un mercato ambizioso ma rischioso. L’unico a vestire davvero i panni del game changer è Christian Pulisic, l’americano che illumina con colpi da grande artista. Gli altri, i vari Loftus-Cheek, Okafor, Morata e Pavlovic, sono ingranaggi potenzialmente utili, ma ancora lontani dallo status di campioni. Abraham resta una promessa in sospeso. Reijnders? Ha talento da faro, sì, ma per brillare davvero necessita di un’intelaiatura che ne esalti i tratti migliori, come un attore che necessita di una grande scenografia per il suo assolo.
Il Milan sta cambiando pelle, ma il tempo è tiranno e a volte meno indulgente delle idee. Lasciamo però che faccia il suo corso. Il Diavolo può ancora risorgere, ma la resurrezione passa per la pazienza e la fiducia in chi lo guida. Fonseca guida un’orchestra che ha le ali per volare, ma per ora sembra ancora frenata dalle sue stesse corde. Il Maestro c’è, sa leggere lo spartito, ma non tutti i suoi musicisti hanno ancora raggiunto l’accordo perfetto. È un lavoro che richiede pazienza e fiducia, la stessa che si è concessa ad altri condottieri, come Inzaghi e Pioli, prima che trovassero la chiave del successo. E forse è proprio questo il segreto: lasciare che il tempo faccia il suo mestiere. Il futuro, in fondo, è una sinfonia ancora tutta da comporre.
BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.