Qualche anno fa mi imbattei nella piacevole lettura di “Lorenzo Pellegrini e Le Donne”, romanzo di Enrico Brizzi, gran tifoso del Bologna e amante del ciclismo. No, non è una biografia rosa sul forte giocatore della Roma.
Pura omonimia.
Ma questo romanzo dello scrittore bolognese, per intenderci colui che ha scritto “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, oltre ad ambientare la vicenda in un dopoguerra vittorioso e con il Duce ancora al potere, racconta la spedizione rocambolesca della Nazionale italiana nella Coppa Rimet del 1950, guidata dall’ossatura del Grande Torino, con Valentino Mazzola ad assolvere il ruolo di indiscusso leader.
È il genere della fantastoria, affascinante e ammaliante, che l’autore sperimenta in parallelo al romanzo di formazione.
Sappiamo benissimo come sono andate le cose: per fortuna il regime è caduto, per un balordo gioco del destino sulle colline di Superga si è schiantato il trimotore Fiat G.212 e tutto un Paese ha pianto i ragazzi che non erano solo orgoglio di Torino, ma di tutta l’Italia.
Questo libro fa parte di una trilogia che mi sono ripromesso di completare con la lettura degli altri due perché mi attrae tanto questo giochino degli “e se…”. Inizio a giocarci personalmente con il calcio, che ben offre il fianco a questo esperimento: se ad esempio il capitano del volo del British European Airways avesse desistito dalla sua cocciutaggine di far decollare nella burrasca di neve di Monaco di Baviera il suo aeroplano, forse i Busby Babes avrebbero interrotto l’egemonia del Real Madrid e, come riporta Remo Gandolfi, Duncan Edwards sarebbe stato il capitano dell’Inghilterra del 1966; e se in un pomeriggio di novembre una nebbia fitta non avesse attanagliato, come spesso fa, fidatevi, Belgrado nel mentre si giocava Stella Rossa e Milan (prossima sfida di Champions tra l’altro), con i rossoneri sotto di un gol e nella più completa perdita di geolocalizzazione, forse non staremmo qui a parlare di una delle più grandi squadre della storia del calcio; e se invece, sempre da quelle parti l’odio etnico e il nazionalismo non avesse frantumato uno Stato scricchiolante e retto dal culto della personalità piuttosto che dall’ideologia socialista, forse la Jugoslavia, con quel fior fiore di talenti che si trovava, avrebbe vinto l’Europeo del 1992. Chissà perché ma tutti e tre gli esempi portati da me poco fa hanno a che fare con Belgrado e dintorni. Non l’unico snodo geografico del mondo, intendiamoci, ma per certo una di quelle città da cui sono passati diversi destini.
Cosa sarebbe oggi la nazionale jugoslava se fosse unita?
Poche settimane fa, invece, leggevo il libro di Stefano Bizzotto, Storia del mondo in dodici partite di calcio, nel quale, parlando della sfida nota del Maksimir del 1990, ha giocato con quel fascinoso “se” e ha stilato una formazione tipo Ex-Jug: “Proviamo allora a metterla in campo, questa squadra: in porta Jan Oblak; in difesa Joško Gvardiol, Stefan Savić e Amir Rrahmani; a centrocampo Ivan Perišić, Luka Modrić, Sergej Milinković-Savić, Eljif Elmas; sulla trequarti Dušan Tadić e in attacco Edin Džeko e Dušan Vlahović. Tre serbi, altrettanti croati, uno sloveno, un montenegrino, un kosovaro, un macedone, un bosniaco; con Marcelo Brozović e Miralem Pjanić, fra gli altri, pronti a entrare dalla panchina.” A questi si potrebbero aggiungere anche tanti altri che costituirebbero una squadra favorita in qualsiasi competizione europea. Per non parlare di “oriundi”, uno su tutti Ibrahimović.
Ondivaga è stata la sorte delle varie rappresentative.
La Bosnia-Erzegovina è andata al mondiale del 2014, la Slovenia, coriacea e compatta ad Euro 2024, ha conosciuto nel biennio 2000-2002 il suo periodo migliore qualificandosi ad Euro 2000 e poi al Mondiale del 2010. La Macedonia del Nord è stata capace di qualificarsi ad Euro 2020 e di arrivare alla finale play-off per Qatar 2022. Meglio lasciar perdere i dettagli di quest’ultima impresa…
Ma nei Balcani due nazionali hanno un peso specifico maggiore per storia e qualità: la Croazia e la Serbia.
È storia di rivalità, di successi e insuccessi.
È un modo di intendere il calcio in maniera differente, già a partire dal sostantivo che fa riferimento al gioco più bello del mondo. Per i croati è il nogomet, per i serbi è rimasta l’accezione proveniente dall’inglese fudbal. Nogomet e fudbal sono la stessa cosa, entrambe si traducono con “calcio”, ma il primo ha sempre prevalso sul secondo, perché la maglia a scacchiera ha ottenuto piazzamenti che dalle parti di Belgrado non vedono dai tempi della Jugoslavia e ha espresso un gioco spettacolare e per questo vincente, a differenza dei serbi sicuramente più difensivisti. La Croazia è arrivata seconda al mondiale di Russia 2018 e terza in Qatar, senza dimenticare il terzo posto a Francia 1998, ed è stata seconda nella passata edizione di Nations League. Gode di uno dei vivai più prolifici d’Europa, quello della Dinamo Zagabria, che ha sfornato talenti di valore assoluto, da Boban a Modrić.
La Serbia ha vissuto certamente di pochi alti e molti bassi, confermando quella sua attitudine alla mancanza di continuità. Presente ai Mondiali del 2006 e del 2010, eliminata in entrambi i casi al primo turno, si è ripresentata in Russia e in Qatar, ancora senza fortuna. Dopo ventiquattro anni è tornata ad un campionato europeo ma le sue prestazioni sono state davvero deludenti. I vivai della Stella Rossa e del Partizan esportano all’estero i migliori talenti del calcio serbo che però in questi anni ha potuto fregiarsi di un titolo di campione under-20, nel mondiale del 2015.
Le due squadre si sono affrontate solo due volte, durante le qualificazioni a Brasile 2014, impensabile in qualche amichevole.
A Zagabria vittoria dei padroni di casa 2 a 0 (Mandžukić, Olić) e pari 1 a 1 a Belgrado (Mitrović (S) Mandžukić). Ma nella memoria resta la partita del 9 ottobre del 1999 valida per le qualificazioni a Euro 2000, quando ancora lo stato di Belgrado si chiamava Jugoslavia. Insomma, un paese formato ancora da Serbia e Montenegro.
La tensione era palpabile e si sentiva per le strade blindate della capitale croata. Durante un’intervista Savićević subì gli insulti di un croato (ti si govno), al quale non esitò di replicare per le rime. Le due squadre erano guidate da due leggende, Miroslav Blažević e Vujadin Boškov.
L’inno jugoslavo fu pesantemente fischiato, stesso trattamento che era stato riservato a Belgrado da parte dei tifosi locali che avevano pure dato degli ustascia ai croati.
Non certo una partita per cuori deboli.
Sul campo fu una battaglia: gol, botte e parole altisonanti.
Boksić portò in vantaggio la Croazia.
Poi ci fu il pareggio di Mijatović e l’allungo di Stanković. Marione Stanić pareggiò le sorti del match che non cambiò più nel risultato. Mirković fu espulso per un fallo di reazione nei confronti di Jarni, ma in dieci i plavi tennero duro e con il pareggio staccarono il pass direttoper Euro 2000. In contemporanea la Macedonia, l’altra branchia nata dalla dissoluzione degli Slavi del Sud, pareggiava al 94’ contro l’Eire, con i verdi costretti addirittura play-off, poi eliminati dalla Turchia. L’aria di festa ed euforia di Zagabria si trasformò in un funerale, a seguito del delitto perfetto. Fu l’ultima recita in assoluto della Jugoslavia, nazionale che per molti è stata definita il Brasile d’Europa. E vedendo i marcatori e le formazioni di quella partita come dar torto a questa affermazione? Chissà oggi cosa avrebbe potuto fare quella nazionale!
Forse avrebbe fatto meglio dei croati, o perlomeno confermato i suoi risultati. Difficile dirlo, ma “i se” hanno sempre sbattuto contro la freddezza degli accadimenti a volte crudeli, a volte fortunosi, che hanno segnato anche la storia del calcio e che sono rimasti piacevoli giochini che racchiudono una buona dose di nostalgia.
BIO: VINCENZO PASTORE
Pugliese di nascita, belgradese d’adozione, mi sento cittadino di un’Europa senza confini e senza trattati.
Ho due grandi passioni: il Milan, da quando ero bambino, e la scrittura, che ho scoperto da pochi anni.
Seguire lo sport in generale mi ha insegnato tante cose e ho sperimentato ciò che Nick Hornby riferisce in Febbre a 90°: ”Ho imparato alcune cose dal calcio. Buona parte delle mie conoscenze dei luoghi in Gran Bretagna e in Europa non deriva dalla scuola, ma dalle partite fuori casa o dalle pagine sportive[…]”
Insegno nella scuola primaria, nel tempo libero leggo e scrivo.